Cassazione, Sez. V, 9 febbraio 2010, n. 5339 Attenzione alle frasi offensive nel corso delle assemblee condominiali: si rischia il reato di ingiuria aggravata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto e diritto

Propone ricorso per cassazione D.C.R.avverso la sentenza del Tribunale di Foggia – Sez. dist. di Manfredonia – in data 12 novembre 2008 con la quale è stata confermata quella di primo grado, affermativa della sua responsabilità in ordine al reato di ingiurie aggravate a di danni di D.P.M., fatti dell’11 ottobre 2002.

La vicenda aveva avuto luogo nel corso di una seduta condominiale durante la quale, secondo la tesi della persona offesa e di due testimoni, l’imputato aveva dato del “bandito” al condomino D.P..

Deduce la erronea applicazione della legge penale (artt. 594, 599 cp) e il vizio di motivazione.

I giudici hanno fondato la tesi accusatoria sulla deposizione, tra le altre, della persona offesa, senza valutare il suo interesse alla condanna dell’imputato: era infatti emersa la esistenza di liti giudiziarie tra i due, divisi da grave inimicizia. Anche gli ulteriori testi della accusa erano profondamente legati alla persona offesa, e tale circostanza era stata parimenti pretermessa dai giudici del merito.

Il Tribunale avrebbe dovuto quindi valorizzare il contesto della vicenda e valorizzare il fatto della “infuocata assemblea condominiale” per ritenere provata o l’esimente della reciprocità delle offese o quella dello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui, quantomeno nella forma putativa.

Anche la valenza offensiva dell’espressione “bandito” era tutta da dimostrare, essendo doveroso apprezzarla in relazione al contesto, dal quale sarebbe emerso che essa era stata, semmai, la manifestazione di uno sfogo critico da parte di chi si sentiva vessato da una situazione offensiva e pregiudizievole per i suoi interessi di condomino.

In relazione alla liquidazione dei danni morali il Tribunale aveva operato una inammissibile integrazione della statuizione, altrimenti immotivata, del primo giudice.

Il ricorso è inammissibile sia perché con esso vengono dedotte ragioni diverse da quelle che possono essere sottoposte al giudice della legittimità, sia per la genericità di talune doglianze, sia, infine, per la manifesta infondatezza delle restanti.

Il ricorrente dimostra di conoscere e condividere la giurisprudenza secondo cui è assolutamente legittimo porre a fondamento del costrutto accusatorio della sentenza di condanna la deposizione della persona offesa costituita parte civile, purché tale deposizione venga sottoposta alla necessaria ed opportuna valutazione critica da parte del giudice che, così, dimostri di avere adeguatamente soppesato le ragioni del sospetto di interesse che potrebbe avere mosso la stessa alla denuncia dell’imputato.

Ebbene, nella specie risulta dalla sentenza che i giudici del merito hanno applicato tale regola di giudizio ed hanno dato atto, da un lato, della attendibilità soggettiva del dichiarante, saggiata attraverso talune sue affermazioni circostanziali (ad esempio quella sulla esistenza di contenziosi giudiziari con l’imputato) ritenute significative. Inoltre gli stessi giudici hanno dato atto della acquisizione di due deposizioni ugualmente utili ai fini della tenuta della ipotesi accusatoria ed atte a costituire riscontro anche oggettivo della deposizione della persona offesa.

Ne risulta una completa valutazione degli elementi probatori che rende da un lato manifestamente infondata la censura del ricorrente e, dall’altro, inapprezzabili i vizi denunciati in tema di idoneità probatoria delle prove raccolte.

Per quanto concerne la doglianza finalizzata al riconoscimento delle cause di non punibilità di cui all’art. 599 cp, è appena il caso di sottolineare che essa è stata formulata come mera ripetizione del corrispondente motivo di appello e senza minimamente agganciarsi alla motivazione della sentenza impugnata.

Tale evenienza rende il motivo di ricorso, in base alla giurisprudenza costante, inammissibile per genericità non essendo stato formulato nel rispetto dell’art. 581 cpp che richiede la indicazione specifica delle ragioni in fatto e in diritto per le quali un preciso capo o punto della motivazione sarebbero censurabili.

È vero invece che il Tribunale ha escluso che ricorressero le dette cause di non punibilità per mancanza di allegazione e, ancor più, di dimostrazione di specifiche circostanze di fatto sulle quali basare la configurazione delle dette scriminanti.

Il mero contesto della assemblea condominiale, per quanto infuocato – come sostiene il ricorrente – non può di per sé dare corpo alla causa di non punibilità della reciprocità delle offese o dello stato d’ira per un fatto ingiusto altrui dal momento che l’una o l’altra delle situazioni può o può anche non verificarsi in un contesto del genere di quello evocato.

Nella specie resta insuperata, anche alla luce del ricorso, la osservazione che il ricorrente non ha allegato precise espressioni ingiuriose pronunciate dalla persona offesa nei suoi confronti o un suo comportamento qualificabile come “ingiusto” nei sensi ed ai fini di cui all’art. 599 cp.

Infine è generica e quindi inammissibile la censura con la quale si chiede di attribuire alla espressione “bandito”, valenza meramente indicativa di una critica.

La contestualizzazione della offesa, ai fini di apprezzarne o meno la valenza offensiva, è attività che non risulta realizzata nel ricorso, nel quale la censura è ancora una volta formulata in modo astratto, senza che siano spesi argomenti significativi, atti a dimostrare, in concreto, la dinamica e la evoluzione del contrasto culminato nella espressione obiettivamente offensiva.

Infine manifestamente infondata è la doglianza riguardante la integrazione della motivazione sulla liquidazione del danno morale.

Il codice di rito prevede che allorché il provvedimento impugnato con l’appello sia inadeguatamente o erroneamente motivato, il giudice d’appello non può disporne l’annullamento, ma deve giudicare in secondo grado, motivando adeguatamente la decisione (Rv. 201721). Correttamente pertanto il Tribunale ha integrato la motivazione carente per le ragioni rappresentate dalla difesa nell’atto di appello.

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 cpp, la condanna del ricorrente al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 1.000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di Euro 1.000.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *