Cassazione, Sezioni unite civili, 14 aprile 2010, n. 8830 Licenziamento, è tempestiva la raccomandata spedita entro 60 gg dalla comunicazione del licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Considerato in diritto

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce l’omessa o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata su di un punto decisivo della controversia.

In particolare, il ricorrente denuncia il carattere meramente apparente, e quindi insufficiente, della motivazione della sentenza, là dove la Corte d’appello ha escluso l’applicabilità agli atti unilaterali di natura non processuale spediti a mezzo del servizio postale della regola stabilita dalla Corte costituzionale (nel dichiarare la parziale illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e dell’art. 4, comma terzo, della legge n. 890/1982) con la sentenza 26 novembre 2002, n. 477, secondo cui gli effetti della notificazione di atti a mezzo posta vanno ricollegati per il notificante al momento della consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario onde evitare che gravino su tale soggetto i rischi conseguenti ad attività, ritardi e disfunzioni sottratte al suo controllo e alla sua sfera di disponibilità. Secondo il ricorrente, l’identica esigenza di tutela posta a base della decisione costituzionale ricorrerebbe anche nel caso di comunicazione a mezzo del servizio postale di atti non processuali, il cui esito resta anche in tal caso al di fuori delle possibilità di controllo da parte del dichiarante; l’argomentazione con cui la Corte territoriale ha escluso la possibilità di estendere a questi ultimi il medesimo principio, fondata esclusivamente sulla diversa natura, non processuale, degli atti presi in considerazione, concreterebbe una motivazione meramente apparente.

2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e 1334 c.c. in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.

L’interpretazione accolta dal giudice d’appello in ordine alle norme di legge citate contrasterebbe infatti, secondo il ricorrente, con i principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza citata, conducendo ad una ingiustificata diversificazione quoad effectum della tutela del lavoratore espulso, a seconda che reagisca impugnando giudizialmente o stragiudizialmente il licenziamento e in quest’ultimo caso a seconda che affidi l’impugnazione alla notificazione mediante ufficiale giudiziario che vi provveda avvalendosi del servizio postale, oppure alla comunicazione mediante lettera raccomandata affidata al medesimo servizio postale.

Altrettanto erroneamente il giudice dell’appello non avrebbe accolto l’eccezione, sollevata in via subordinata, di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle due norme di legge citate ove interpretate nel modo indicato, questione che il ricorrente dichiara di proporre anche in questa sede in termini di contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto l’impugnazione del licenziamento verrebbe ad essere oggetto di una disciplina differenziata in maniera irragionevole. Ed infatti l’indicata differenziazione sarebbe fondata unicamente sul tipo di atto e di modalità di comunicazione dello stesso adottati, con conseguente compromissione o comunque aggravio ingiustificato di rischi per il lavoratore in ordine alla possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, nel caso di impugnazione del licenziamento in via stragiudiziale, mediante comunicazione affidata al servizio postale.

3. Si osserva, preliminarmente, che il ricorso riguarda sostanzialmente, in ambedue i motivi in cui è articolato, l’interpretazione dell’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, alla luce della disciplina relativa all’efficacia degli atti unilaterali recettizi di cui all’art. 1334 e seg. c.c. Infatti, la diversa qualificazione del primo motivo di ricorso resta irrilevante ai fini dell’individuazione della questione sottoposta allo scrutinio della Corte, atteso che il vizio di motivazione nell’interpretazione della legge si risolve per intero in quello di cui all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. (vedi, da ultimo, Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28054).

3.1. È in relazione a tale questione che la causa è stata assegnata alle Sezioni unite della Corte, a seguito di ordinanza interlocutoria della Sezione lavoro n. 10230 del 4 maggio 2009, quale questione di massima di particolare importanza; nella medesima ordinanza si rilevano peraltro anche indirizzi difformi della giurisprudenza della Corte in ordine all’applicazione dei principi generali implicati dai motivi di ricorso.

4. L’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604 dispone, ai primi due commi, che “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della relativa comunicazione, con qualsiasi scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso” (primo comma); “il termine di cui al comma precedente decorre dalla comunicazione del licenziamento ovvero dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento” (secondo comma).

Sulla norma e sulla sua interpretazione non riveste incidenza l’assetto legislativo previsto dall’art. 34, comma 1, del disegno di legge n. 1441 quater- “B”, approvato dal Parlamento e, al momento, in attesa di promulgazione, considerata la riproduzione integrale della disciplina di cui all’art. 6, primo e secondo comma, l. 604/1966, e l’aggiunta di un secondo comma recante l’onere, a pena di inefficacia dell’impugnazione, di proporre azione giudiziaria o di comunicare alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato entro il termine di centottanta giorni dall’impugnazione del licenziamento, e ancora, in termini di decadenza, di depositare il ricorso giudiziale nei sessanta giorni successivi al rifiuto della richiesta di conciliazione o arbitrato, o comunque dal mancato accordo.

5. Sulla forma dell’“impugnazione” del licenziamento la Corte costituzionale, con ordinanza 6 maggio 1987, n. 161 ha reputato che il citato art. 6 ha inteso, più che imporre una forma vincolata per l’atto in questione, semplicemente assicurare, attraverso la forma richiesta, il controllo sull’osservanza del termine stabilito, come è reso palese anche dalla prevista equivalenza dell’intervento dell’organizzazione sindacale. Sicché, proprio la genericità della previsione tende ad assicurare idoneità all’impugnativa posta in essere non solo con documenti sottoscritti dalla parte interessata ma anche con ogni altro scritto a questa riferibile, con la condizione, esplicitamente posta, dell’idoneità a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento.

La giurisprudenza di legittimità ha, quindi, ritenuto che l’assunto sulla natura, negoziale o meno, dell’impugnativa del recesso non è stato influenzato dalle evidenziate argomentazioni del giudice delle leggi, il quale non ha preso posizione alcuna in ordine alla forma necessaria per il valido esercizio del potere d’impugnativa da parte del lavoratore o dell’associazione sindacale, prima ed in vista dell’instaurazione del giudizio, finendo semplicemente col rimettersi al sistema civilistico degli atti privati, quanto al regime dei requisiti formali e delle modalità di adempimento degli stessi, per impedire la decadenza, visto che la norma chiaramente stabilisce le modalità e la funzione dell’atto d’impugnazione del licenziamento. In particolare, si era già puntualizzato da parte di Cass. 30 maggio 1991, n. 6102 che il termine “impugnazione” di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966 è utilizzato in senso generico ed improprio, siccome riferibile anche a dichiarazioni scritte extragiudiziali del prestatore di lavoro o della organizzazione sindacale, non accompagnate dal contemporaneo ed effettivo esercizio dell’azione giudiziaria; con la conseguenza che è sufficiente che il lavoratore, anche mediante la sua organizzazione sindacale, manifesti al datore di lavoro con qualsiasi atto scritto, indipendentemente dalla terminologia usata e senza necessità di formule sacramentali, la volontà di contestare la validità e l’efficacia del licenziamento, essendo in questa manifestazione di volontà implicita la riserva di voler tutelare i propri diritti davanti alla competente autorità giudiziaria. Ha trovato, quindi, emersione una prospettiva eminentemente funzionale, come chiaramente posto in luce da Cass. 13 luglio 2001, n. 9554, secondo cui, salvo i casi in cui una forma determinata venga imposta dalla legge o dalla volontà delle parti, può risultare idoneo allo scopo qualunque mezzo di comunicazione, purché esso sia congruo in concreto a farne apprendere compiutamente e nel suo giusto significato il contenuto. Ne consegue, quindi, che non è richiesta la consegna personale dell’impugnazione, ma il lavoratore (o il suo rappresentante) può avvalersi dei processi di trasmissione materiali e giuridici, che implichino l’opera di uno o più terzi, ed in tal caso si applicano al processo trasmissivo le norme giuridiche, sostanziali e processuali, che disciplinano specificamente l’impiego del processo o mezzo usato. Più specificamente, la trasmissione dell’atto dal mittente al destinatario può avvenire in via diretta, oppure triangolare, nel senso che il terzo, invece di avere una funzione di mero supporto materiale, come di consueto, ha il potere ufficioso di ricevere egli stesso la comunicazione, di esaminarla, di integrarla, e di disporne l’ulteriore corso al destinatario finale, tramite propri ufficiali. In definitiva, ciò che effettivamente rileva è la provenienza dell’atto dal lavoratore, la forma scritta, e la sua iniziativa nel portarlo a conoscenza del datore di lavoro, o di altre persone cui compete di portarlo a conoscenza del datore. I mezzi, dunque, sono plurimi: una semplice lettera, della quale il datore di lavoro non contesti il ricevimento; oppure una lettera raccomandata, in tal caso avvalendosi delle norme del codice postale relative alla prova del ricevimento; o un telegramma, sottoscritto dall’interessato (Cass. 10 luglio 1991, n. 7610; 26 luglio 1996, n. 6749; 16 settembre 2000, n. 12256), ovvero dettato per telefono (Cass. 30 ottobre 2000, n. 14297); ed ancora può presentare il ricorso giudiziario, o notificare atto stragiudiziale.

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