Cassazione, Sezioni unite civili, 9 aprile 2010, n. 8426 Trasferimento fittizio della sede sociale all’estero e fallimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Roma, con la sentenza di cui in epigrafe, ha rigettato l’appello di Danilo Coppola contro la pronuncia del Tribunale di Roma del 20 dicembre 2007 che aveva dichiarato il fallimento della s.r.l. ASSA su ricorso del Procuratore della Repubblica in sede.

Riconosciuta la legittimazione ad agire del Coppola, quale indagato per bancarotta anche per il fallimento oggetto di causa, la Corte di merito ha ritenuto infondati gli altri motivi di gravame rilevanti in rapporto al presente ricorso per cassazione: 1) il difetto di giurisdizione del giudice italiano, per il trasferimento in Romania della sede dell’impresa; 2) l’inesistenza dello stato di decozione; 3) la decorrenza del termine di un anno dalla cancellazione della società dal Registro delle imprese; 4) il mancato superamento delle soglie minime patrimoniali e di ricavi per la declaratoria di fallimento di cui all’art. 1 della legge fallimentare novellata (r.d. 16 marzo 1942 n. 267 come sostituito dall’art. 1 D.Lgs. 9 gennaio 2005 n. 6), parametri costituiti da investimenti in azienda superiori ad Euro 300.000,00 o ricavi nella media degli ultimi tre anni non eccedenti Euro 200.000,00 annui.

In ordine al difetto di giurisdizione del giudice italiano, la Corte ha ritenuto fittizio il trasferimento in Romania della società, sulla base delle dichiarazioni dello stesso rappresentante legale della società Dumitru Scuparu richiamate nell’istanza di fallimento del P.M., e delle dichiarazioni rese a questo dal Coppola, che aveva affermato che il trasferimento era servito solo a fini fiscali e che gli amministratori stranieri “erano dei prestanomi ai quali sono stati pagati dei soldi per sottoscrivere gli atti” e quindi che “le cessioni di quote e le nomine di amministratori erano false”.

Tali dichiarazioni comportavano il superamento della presunzione di cui all’art. 3, 1° comma, del Regolamento CE 29 maggio 2000 n. 1346, dovendo negarsi che il centro degli interessi societari fosse effettivamente in Romania ove la società aveva sede solo fittizia a scopi fiscali, continuando a svolgere in Italia la sua attività produttrice di reddito.

In ordine allo stato di insolvenza, lo stesso era ritenuto esistente in base al debito di imposta di circa Euro 12.000.000,00, anche a ritenere reali le pretese uscite finanziarie per Euro 45.000.000,00 negli anni 2003 e 2004, delle quali, in mancanza di bilanci successivi al 2002, non vi era documentazione che potesse costituire prova del fatto che esse erano fonte di crediti e non adempimenti di pregressi debiti, essendo irrilevante a tal fine l’intervento del terzo, cioè dello stesso Coppola, che aveva offerto consistenti somme per liberare la società dai suoi rilevanti debiti tributari.

In ordine al termine annuale dalla cancellazione della società dal registro dell’imprese di cui all’art. 10 L. Fall., i giudici di merito affermavano che la iscrizione della cancellazione della società nel registro delle imprese del 13 ottobre 2005, cioè anteriore alle deliberazione del trasferimento della sede sociale in Romania del 25 ottobre successivo, era stata cancellata ai sensi dell’art. 2291 c.c. dal giudice del registro con decreto del 3 settembre 2007, confermato anche dopo il reclamo in Corte d’appello, per cui almeno da tale data la società era di nuovo iscritta e con personalità giuridica e poteva quindi essere dichiarata fallita come poi avvenne con la sentenza del dicembre 2007, oggetto di gravame.

Rispetto alla pretesa mancanza delle condizioni di fallibilità connesse agli investimenti e ai ricavi di cui all’art. 1 della L. Fall., per rientrare tra i piccoli imprenditori e non essere soggetta al fallimento la società indicata, la Corte, sulla base dell’ultimo bilancio in atti del 2002, con un attivo di Euro 872.170,00 senza crediti esigibili nell’esercizio successivo, ha ritenuto presumibili comunque investimenti prima del fallimento per somme superiori complessivamente ad Euro 300.000,00, così come indicato dall’art. 1 della legge fallimentare, data la inapplicabilità, ratione temporis della novella di cui al D. Lgs. 12 settembre 2007 n. 169 che si riferisce espressamente ai tre esercizi antecedenti alla data di deposito dell’istanza o ricorso di fallimento; con il rigetto del gravame le spese del grado sono state poste a carico del soccombente appellante.

Per la cassazione di tale sentenza, non notificata, il Coppola ha proposto ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c. articolato in tre motivi e notificato il 10 dicembre 2008, e il Fallimento della società intimato si è difeso con controricorso, illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1.1. Il primo motivo di ricorso del Coppola deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 9 della L. Fall., nonché omessa o insufficiente motivazione in relazione all’art. 360 n. 3 e 5, per aver respinto l’eccepito difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore di quello rumeno, per essere la sede della società ormai da tempo trasferita in Romania, ritenendo fittizio detto trasferimento della società.

In realtà, ad avviso del ricorrente, non è stata smentita la presunzione dell’art. 1 del regolamento CE n. 1356 del 2000 per la quale il centro degli interessi principali di una società è nel paese membro della Unione in cui è la sede di essa.

È errato ritenere che la natura fittizia del trasferimento della sede sociale emerga dalle dichiarazioni al P.M. dello stesso Coppola che ha solo detto che tale spostamento era stato strumentale per ridurre gli oneri fiscali e non che esso non vi era stato e comunque sarebbe stata necessaria la prova che l’attività direttiva, amministrativa e organizzativa della società era rimasta in Italia, prova che non vi era.

Comunque secondo l’art. 9, comma 5, della L. Fall., novellata, “Il trasferimento della sede dell’impresa all’estero non esclude la sussistenza della giurisdizione italiana, se è avvenuto dopo il deposito del ricorso di cui all’art. 6 o la presentazione della richiesta di cui all’art. 7” da parte del P.M.

Poiché nel caso il trasferimento è avvenuto sedici mesi prima della istanza del P.M. di dichiarare fallita la società, il giudice italiano era chiaramente privo di giurisdizione, allorché è stato adito per pronunciarsi sulla stessa.

Il quesito conclusivo ai sensi dell’art. 366 bis, afferma: “Dica la Corte suprema se, in tema di dichiarazione di fallimento, nel caso in cui il trasferimento della sede legale all’estero della società sia avvenuto prima o in un momento temporalmente lontano dalla presentazione e/o il deposito della istanza di fallimento continui a sussistere la giurisdizione italiana, ovvero se il trasferimento della sede legale all’estero avvenuto prima o in un momento temporalmente lontano dalla presentazione e/o il deposito dell’istanza di fallimento sia sufficiente ad escludere la giurisdizione italiana”.

1.2. Con il secondo motivo, il Coppola lamenta violazione dell’art. 10 della L. Fall. e omessa o insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., per avere ritenuto rispettato il termine annuale dalla cancellazione della società dal registro delle imprese avvenuta invece il 13 ottobre 2005, dando rilievo al decreto del giudice del registro del 3 settembre 2007 emesso ai sensi dell’art. 2191 c.c. e che aveva ordinato la “cancellazione della cancellazione”, cioè della pregressa pubblicità della estinzione della società.

L’art. 10 della L. Fall, ha la propria ratio nella esigenza di dichiarare il fallimento quando non sia passato troppo tempo dalla fine delle attività dell’imprenditore individuale o collettivo e nel caso, prescindendo da ogni indagine sulla operatività effettiva dell’impresa, si è provveduto a dichiararne il fallimento senza dare rilievo all’assenza di ogni attività societaria o di impresa per oltre un anno prima dell’intervento del giudice per accertare l’insolvenza, violando la predetta norma che nel solo caso di “cancellazione di ufficio di imprenditori collettivi” ha dato facoltà al P.M. e ai creditori di provare la diversa data della cessazione effettiva della attività di impresa, prova che nel caso non è stata invece data. La sentenza impugnata invece di individuare l’attività societaria in effetti svolta e provata, pur dopo la cancellazione della società, ha dato rilievo al decreto di ufficio di “cancellazione della cancellazione” ad opera del giudice del registro, che ha natura di pubblicità e da solo è inidoneo a dimostrare la continuazione o il prosieguo della vita della società.

Il Coppola chiude il motivo di ricorso con il seguente quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.: “Dica la Corte se, in materia di fallimento, ai fini della decorrenza del termine annuale per dichiarare il fallimento, nel caso di provvedimento di cancellazione dal giudice del registro della iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese, debba darsi rilievo al solo dato pubblicitario che precede, ovvero debba considerarsi l’effettiva cessazione dell’attività di impresa dalla data della pregressa cancellazione dal registro delle imprese a richiesta della stessa società”.

1.3. Il terzo motivo di ricorso censura la decisione di merito per violazione dell’art. 1 della L. Fall. novellata, anche per insufficiente motivazione, perché non vi era stata la prova della esistenza degli investimenti e dei ricavi di cui a detta norma, nella versione ritenuta applicabile ratione temporis anteriore al D.Lgs. n. 169/07, avendo la Corte d’appello fatto riferimento al bilancio dell’anno 2002 (ultimo di esercizio) per desumere o presumere da esso investimenti e ricavi nei tre anni precedenti alla istanza di fallimento (2004, 2005 e 2006) non avendo potuto la società investire complessivamente una somma di Euro 300.000,00 in tali anni né avere ricavi medi lordi superiori ad Euro 200.000,00 dopo essersi spogliata di tutti i suoi beni nel 2003.

Nella fase di crisi delle imprese il legislatore chiede un’attività economica che evidenzi un minimo rilievo di esse per evitare il ricorso alla procedura concorsuale; come ha chiarito il D. Lgs. 169/07, i ricavi annuali rilevanti sono solo quelli degli ultimi tre anni anteriori alla istanza di fallimento in quanto solo la situazione patrimoniale ed economica della società nei tempi vicini o prossimi alla data in cui è chiesto di accertare l’insolvenza può essere significativa della situazione che giustifica la procedura concorsuale, non potendosi ricorrere ad un bilancio di cinque anni prima per valutare lo stato dell’impresa come accaduto nella concreta fattispecie.

L’ultimo quesito di diritto è il seguente: “Dica la Corte se in tema di requisiti per la fallibilità dell’impresa ai sensi dell’art. 1 della L. Fall. nella formulazione di cui alla novella del 2006 e prima del D.Lgs. n. 169 del 12 settembre 2007, per indagare sulla sussistenza del requisito degli investimenti superiori ad Euro 300.000,00, si debba fare riferimento agli ultimi tre esercizi anteriori alla presentazione del ricorso o della richiesta di fallimento ovvero si possa ampliare detto arco temporale anche oltre tale periodo triennale”.

2. Anche a non tener conto dei presupposti di fatto sui quali il ricorrente fonda i propri quesiti di diritto che non sono conformi a quanto emerge dalla sentenza impugnata, per cui la stessa formulazione di questi potrebbe rendere inammissibili i singoli motivi di impugnazione perché non relativi alle fattispecie oggetto dalla sentenza impugnata, i tre motivi di ricorso sono comunque infondati.

2.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, in quanto chiede, in sede di legittimità, il riesame e la nuova valutazione delle dichiarazioni rese dal Coppola in ordine al trasferimento della sede della società fallita in Romania, ritenuto fittizio in base ad affermazioni testuali del ricorrente, per il quale “le cessioni di quote e le nomine degli amministratori erano false” e gli amministratori “stranieri trovati erano dei prestanomi ai quali erano stati pagati dei soldi per sottoscrivere gli atti” (p. 7 della sentenza impugnata).

La natura “fittizia” del trasferimento deliberato il 25 ottobre 2005, dopo la cancellazione – estinzione della società dal registro delle imprese del 13 ottobre precedente, è affermata anche nelle dichiarazioni rese dal rappresentante legale della società Dumitru Scuparu al P.M. che le richiama nella sua istanza di fallimento; sembra chiaro che se è vero, come deduce il Coppola, che negli anni 2003 e 2004 vi sarebbero state “uscite finanziarie” dalla s.r.l. ASSA di circa Euro 41.500.000,00, per le quali si era determinato in Italia il debito di imposta di Euro 12.000.000,00 rimasto inadempiuto e a base della insolvenza, ben difficilmente si sarebbe potuto spostare nel 2005 il centro delle attività di impresa in altro paese.

È quindi fondata sulle prove fornite dall’istante P.M. al tribunale e alla Corte d’appello la decisione che nega la reale esistenza del trasferimento di sede e dell’attività d’impresa della società per cui è causa, dovendo escludersi il presupposto di fatto del dedotto difetto di giurisdizione del giudice italiano, costituito dalla circostanza, presunta dalla normativa comunitaria sulle procedure concorsuali, che il centro di interessi e l’attività d’impresa sia nel paese ove ha “trasferito” la sua sede l’impresa collettiva e quindi in Romania e non in Italia, alla data dell’istanza di fallimento dello stesso P.M.

Essendo mancato il trasferimento all’estero della società, considerato motivatamente falso in sentenza, è ovvio che, ove esso fosse stato effettivo, avrebbe comportato la giurisdizione del giudice rumeno, ai sensi dell’art. 3, comma 1 del Regolamento CE del Consiglio del 29 maggio 2000, inapplicabile nel caso di specie, per cui la Corte di merito ha coerentemente rigettato l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano.

Nessun rilievo ha poi la norma di cui al 5° comma dell’art. 9 della L. Fall. novellata dal D. Lgs. n. 5 del 2006, per il quale permane la giurisdizione italiana, quando il trasferimento della sede della società è avvenuto dopo il deposito del ricorso dei creditori o della richiesta del P.M., essendo inapplicabile la stessa se il trasferimento non è in realtà mai avvenuto, anche se è stato falsamente deliberato.

Consegue a quanto detto che il quesito di diritto fondato sull’erroneo presupposto dell’effettivo avvenuto trasferimento all’estero della società ASSA a ottobre 2005, cioè molto tempo prima della richiesta del P.M. di dichiarare il fallimento, non attiene alla concreta fattispecie oggetto della causa di merito nella quale si è considerato mancante nella realtà tale trasferimento con adeguata motivazione.

Il quesito conclusivo del primo motivo di ricorso che esso sintetizza è quindi da ritenere irrilevante in quanto non ha ad oggetto la concreta fattispecie oggetto della sentenza impugnata che esclude che la società si sia in fatto trasferita ed è quindi inammissibile e deve quindi dichiararsi la giurisdizione del giudice italiano sulla presente controversia.

2.2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

Questa Corte a sezioni unite ha infatti di recente affermato che la cancellazione delle società di capitali come la s.r.l. Assa le estingue ai sensi dell’art. 2495 c.c., sostitutivo del previgente art. 2456 c.c. con l’entrata in vigore, il 1° gennaio 2004, della riforma delle società con personalità giuridica e delle cooperative di cui al D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6 (così le tre sentenze di queste sezioni unite 20 febbraio 2010 n.ri 4060, 4061, 4062).

Se è vero che nella fattispecie la cancellazione ha prodotto l’effetto della estinzione della società a responsabilità limitata che, nella fattispecie, secondo quanto dedotto in ricorso era stata deliberata con l’approvazione del bilancio di liquidazione in data 13 ottobre 2005, la novella della riforma del 2003 non ha modificato la residua disciplina della pubblicità nel registro delle imprese, incidendo nel sistema solo con la configurazione di un effetto analogo per le società commerciali di persone sulla loro limitata soggettività, che non esclude la natura comunque dichiarativa della iscrizione nel registro delle imprese come forma di pubblicità che, come afferma la relazione al codice civile, non può essere costitutiva se non per espressa disposizione di legge (art. 2193 c.c.).

Dichiarativa è da ritenere quindi anche la cancellazione disposta ai sensi dell’art. 2191 c.c. dal giudice del registro di cui all’art. 2188 c.c. con decreto reclamabile al tribunale, della “iscrizione” di vicende societarie “avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla legge”.

In tal caso il provvedimento del giudice non ha natura decisoria né definitiva ed è inidoneo a divenire giudicato, per cui non è ricorribile per cassazione (Cass. 22 gennaio 2009 n. 2219) con la conseguenza che è comunque possibile ottenerne una modifica dallo stesso giudice ovvero proporre una ordinaria azione di cognizione sulla esistenza dei requisiti ritenuti insussistenti dal giudice del registro per cui si è disposta la cancellazione della pregressa cancellazione già iscritta, azione che nel caso non risulta neppure iniziata dagli interessati.

Appare quindi chiaro che in astratto la s.r.l. Assa avrebbe dovuto cessare ogni attività di impresa il 13 ottobre 2005, ma che ciò non è avvenuto avendo gli stessi soci deliberato successivamente (25 ottobre 2005) il trasferimento in Romania della sede sociale; già tale rilievo rende difficilmente credibile la estinzione dell’impresa collettiva che la delibera di trasferimento della sede anche se fittizia conferma essere rimasta in vita dopo la cancellazione, anche essa decisa per potere continuare l’attività d’impresa in Italia senza adempiere ai gravosi oneri fiscali connessi all’applicazione della nostra legislazione tributaria.

Ciò conferma che sicuramente in questo periodo e presumibilmente anche successivamente l’attività d’impresa proseguiva, anche se si volevano sottrarre al fisco gli utili di essa e ciò risulta chiaro dalle dichiarazioni dell’appellante Coppola nel gravame contro la sentenza di fallimento della società del Tribunale del 20 dicembre 2007, in cui si fa riferimento ad “uscite finanziarie” non meglio precisate di circa Euro 41.500.000,00, che, se giustificano debiti tributari per il 2003 e 2004 di circa Euro 12.000.000,00, difficilmente si conciliano con la cessazione totale di ogni attività ad ottobre 2005, condizione necessaria per l’iscrizione della cancellazione ritenuta mancante dal giudice del registro.

È in tale contesto che detto giudice, con decreto del 3 settembre 2007 ai sensi dell’art. 2191 c.c., ha ritenuto insussistenti le condizioni di legge per la estinzione della società di cui alla cancellazione iscritta su istanza degli amministratori e ha ordinato quindi che la iscrizione di tale vicenda fosse a sua volta cancellata con pubblicità dichiarativa dell’inesistenza della estinzione, che rende presunto relativamente tale evento negativo, salvo prova contraria data dall’interessato della vicenda estintiva o un’eventuale azione di cognizione che nel caso nessuno degli interessati ha proposto.

Tale decreto ha determinato una pubblicità dichiarativa del mancato esaurimento di tutti i rapporti giuridici pendenti facenti capo alla s.r.l. Assa, la cui personalità deve negarsi si sia estinta retroagendo l’accertamento a base del decreto della mancanza dei requisiti per la cancellazione dell’iscrizione della società di capitali e la sua estinzione, che deve ritenersi mai avvenuta, per essere continuata l’attività d’impresa.

Come chiarito nelle sentenze citate del 2010 relative alla cancellazione delle società dal registro delle imprese, “la Relazione al libro del lavoro del codice civile, sul neo istituito registro delle imprese (n.ri 98 e ss.), afferma che lo stesso (art. 2188 e ss. c.c., modificati dalla citata legge 29 dicembre 1993 n. 580 istitutiva del registro di cui sopra presso le Camere di commercio, sotto la vigilanza del giudice delegato) ha attuato “un sistema completo ed organico di pubblicità legale, idoneo a portare a conoscenza del pubblico l’organizzazione dell’impresa, le sue vicende e le sue trasformazioni” (n. 99), dato che la “iscrizione ha normalmente efficacia dichiarativa. Eccezionalmente, e solo in quanto la legge espressamente lo dichiari, come avviene ad es. per la costituzione delle società per azioni, delle società in accomandita per azioni, delle società a responsabilità limitata e delle cooperative, la iscrizione ha efficacia costitutiva” (n. 100), e “crea la presunzione juris et de iure” che i fatti iscritti siano noti a tutti” (n. 100).

Il rilievo di regola solo dichiarativo della pubblicità comporta che la iscrizione del decreto di cui all’art. 2191 c.c. “determina solo la opponibilità ai terzi della insussistenza delle condizioni che avevano dato luogo alla cancellazione della società alla data in cui questa era stata iscritta e di conseguenza la stessa cancellazione della estinzione societaria, per non essersi questa in effetti verificata, con la conseguente presunzione della continuazione della esistenza in vita della società e la corretta deduzione della Corte d’appello che ha negato di potere ritenere cessata l’attività d’impresa la quale per l’iscrizione del decreto del giudice del registro doveva presumersi continuata, con conseguente onere della prova di chi aveva interesse a riaffermare la fine dell’impresa collettiva della mancanza di qualsiasi attività d’impresa di questa, da oltre un anno dalla istanza di fallimento.

Qualsiasi sia la risposta che si dà al quesito di diritto che chiude il secondo motivo di ricorso, in ogni caso nella concreta fattispecie la pubblicità data al decreto del giudice del registro che ha disposto di cancellare la cancellazione deliberata e iscritta nel 2005 della S.r.l. Assa, comporta la presunzione della continuazione delle attività societarie non vinta da alcuna prova contraria che solo l’appellante odierno ricorrente avrebbe dovuto dare, per cui anche il secondo motivo di ricorso è da rigettare.

2.3. È sul presupposto della inattività della società negli anni 2004, 2005 e 2006 che si fonda il terzo motivo di ricorso senza alcuna prova che superi la presunzione di attività di impresa derivata per gli stessi anni, prima dalla mancata cancellazione della S.r.l. Assa dal 1° gennaio 2004 al 25 ottobre 2005 e poi dal decreto del giudice del registro che ha cassato, qualificandola falsa, la iscrizione della delibera di cancellazione, in mancanza dei presupposti di fatto per affermare la fine della vita societaria sin dal 2005, anche se il suo decreto dichiarativo di tali vicende e che ha cancellato la cancellazione è del 3 settembre 2007.

In relazione a quanto ora affermato e alle già indicate e incontestate uscite finanziarie della società per il 2003 e il 2004 di complessivi Euro 41.500.000,00 non conciliabili con lo stato di insolvenza della società, pur in presenza di un debito tributario per detti anni di Euro 12.000.000,00, sembra del tutto inverosimile la pretesa di non assoggettabilità al fallimento della società in rapporto alla sua carente capienza patrimoniale di cui alla legge fallimentare (investimenti di oltre trecentomila Euro prima della declaratoria d’insolvenza) e ai suoi ricavi nell’ultimo triennio della stessa legge, comprensivo anche dell’anno 2004 e superiori a Euro 200.000,00 lordi annui. Non occorre quindi nel caso ampliare ulteriormente e ad anni precedenti a quelli dell’ultimo triennio prima del fallimento gli accertamenti sulle condizioni della S.r.l. Assa per essere dichiarata fallita, emergendo dagli atti una pluralità di circostanze comprovanti la presunzione della attività di impresa con esborsi e tributi nel 2004, incompatibili con una dimensione minima del tipo di quella dell’art. 1 della Legge Fallimentare, che anche in base all’ultimo bilancio del 2002 e all’attivo di esso di oltre Euro 800.000,00, sicuramente fa desumere ricavi lordi e investimenti nella misura di cui alla norma della legge fallimentare, con conseguente risposta negativa al terzo quesito di diritto e rigetto conseguenziale del motivo di ricorso su cui esso si fonda.

3. In conclusione i tre motivi di ricorso devono nell’insieme rigettarsi e, per la soccombenza, il ricorrente deve rimborsare al Fallimento della S.r.l. Assa le spese del presente grado di legittimità che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice italiano. Condanna il ricorrente a pagare al Fallimento della Assa s.r.l. in persona del curatore, le spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 4.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre alle spese generali e accessorie come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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