Cassazione, Sez. V, 25 marzo 2010, n. 11590 Italiano di …: è discriminazione?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto e diritto

1. – Il Procuratore Generale della Repubblica di Trieste propone ricorso per cassazione avverso la sentenza del Giudice di Pace di Pordenone che ha dichiarato il Singh colpevole dei reati di ingiuria, percosse e minaccia, nei confronti di Copat Mauro deducendo:

a. – incompetenza per materia in quanto, avendo l’ingiuria, “italiano di merda”, una connotazione razzista, il reato sarebbe aggravato ai sensi dell’art. 3 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito in legge, n. 205/1993;

b. – violazione dell’art. 81 c.p., perché, per i fatti di cui al capo b), ingiuria, percosse e minaccia, commessi il 15 luglio 2006, non sarebbe stata applicata la continuazione interna.

2. – Il ricorso è infondato.

A. – L’art 3 d.l. 1993 n. 122, convertito con modificazioni in legge 25 giugno 1993, n. 205 (in Gazz. Uff., 26 giugno 1993, n. 148), prevede che “per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena sia aumentata fino alla metà”.

Tale norma, anche alla luce della Convenzione di New York del 7 marzo 1966, resa esecutiva in Italia con la legge 654/1975 secondo cui i termini di “discriminazione ed odio stanno ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” in ogni settore della vita pubblica, sia politica che economica, sociale e culturale, deve essere intesa nel senso che è sufficiente che l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore (Cass., sez. V, 11 luglio 2006, n. 37609): cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità.

Secondo tale interpretazione è stato ritenuto che l’espressione “sporca negra” rivolta a persona di pelle scura integrasse gli estremi di ingiuria aggravata dalle finalità di discriminazione o di odio etnico e razziale, in quanto essa era correlata nell’accezione corrente, adottata nel nostro territorio, proprio ad un pregiudizio di inferiorità razziale (anche Cass., sez. V, 20 gennaio 2006, n. 9381).

Orbene, dalla sentenza impugnata non si desume che la frase ingiuriosa “italiano di merda” fosse stata pronunciata consapevolmente per finalità di discriminazione, di odio nazionale razziale o di conflitto tra persone a causa della etnia, non risultando che l’imputato avesse manifestato, nel contesto in cui erano state profferite, odio e sentimenti similari connaturati ad una situazione di inferiorità degli italiani. Anche perché non si può ritenere che il riferimento all’“italiano”, nel comune sentire, nel nostro territorio, in cui l’italiano è stragrande maggioranza e classe dirigente, sia correlato ad un sentimento che può dare luogo ad un pregiudizio corrente di inferiorità.

Per cui il termine “italiano”, accoppiato alla parola ingiuriosa, può essere letto come individualizzazione di una persona singola (per fatti relativi ad una situazione eminentemente personale e familiare), nei cui confronti si ha disistima, piuttosto che come riferimento ad una identità etnica in quanto facente parte di una comunità nazionale, quella italiana, che proprio nel nostro paese non può essere correlata ad una situazione di inferiorità o suscettibile di essere discriminata.

Di conseguenza, non si riscontra l’aggravante di cui all’art. 3 d.l. n. 122/1993 conv., con modificazioni, in legge 25 giugno 2005, n. 205 e non si ha incompetenza ex art. 6 legge citata.

B. – È, pure, infondato il secondo motivo, in quanto dalla sentenza implicitamente si desume che è stata applicata la continuazione interna per i fatti commessi il 15 e il 17 luglio, essendo stata applicata la pena di 900,00 euro di multa, quando il minimo edittale è di euro 258,00.

Il ricorso va, quindi, rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *