Cassazione, 8 febbraio 2010, n. 4979 Abuso d’ufficio, è reato se il sindaco delinea su misura del candidato il profilo per accedere al pubblico concorso?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Ritenuto in fatto e in diritto

Omissis, sindaco del Comune di Forte dei Marmi, e Omissis 2, funzionario dello stesso Comune, venivano rinviati a giudizio in ordine al reato di abuso di ufficio per avere, in concorso tra loro e con alcuni componenti della Giunta, bandito un concorso per il posto di comandante della polizia municipale, dopo avere fatto apportare le opportune modifiche al regolamento comunale al fine di consentire l’assunzione di XXX, già individuato come vincitore del concorso ancor prima del bando e procurando così a questi un ingiusto vantaggio patrimoniale.

Il Tribunale di Lucca, con sentenza del 7 dicembre 2007, assolveva tutti gli imputati ritenendo non sussistente il reato di cui all’art. 323 c.p. per la mancanza della violazione di legge o di regolamento. Secondo i giudici di primo grado l’imputazione faceva riferimento a norme generali e di principio, prive di carattere precettivo, come l’art. 97 Cost., ovvero a disposizioni del C.C.N.L., espressioni di autonomia negoziale.

Sull’impugnazione del pubblico ministero la Corte d’appello di Firenze, con la decisione in epigrafe, ha riformato parzialmente la prima sentenza, riconoscendo la responsabilità di Omissis e Omissis 2 e confermando l’assoluzione per i componenti della Giunta.

Secondo i giudici d’appello le condotte poste in essere dai due imputati volte a favorire XXX nel concorso al posto di comandante della polizia municipale avrebbero violato il principio di imparzialità dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., ritenendo, a differenza di quanto sostenuto dal Tribunale, che la disposizione costituzionale abbia un contenuto precettivo, almeno quando impone al pubblico funzionario il divieto di favoritismi, dettando così una vera e propria regola di comportamento di immediata applicazione anche per il reato di abuso d’ufficio.

All’affermazione della responsabilità dei due imputati è conseguita la condanna alla pena di dieci mesi di reclusione, per il Omissis, e di otto mesi di reclusione per il Omissis 2, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna per entrambi.

I due imputati, tramite i loro difensori di fiducia, hanno proposto distinti ricorsi per cassazione.

Con il primo motivo, comune ad entrambi i ricorsi, deducono l’erronea applicazione dell’art. 323 c.p. per avere la Corte d’appello ritenuto integrato l’elemento oggettivo della violazione di legge o di regolamento con riferimento all’art. 97 Cost. Secondo i ricorrenti la genericità e l’indeterminatezza dei concetti di buon andamento e imparzialità escludono l’immediata applicabilità dell’art. 97 comma 1 Cost., in quanto tale norma non fissa regole di comportamento compiute e dettagliate, ma solo principi privi di contenuto precettivo, rispetto ai quali è sempre necessaria la mediazione legislativa. In altri termini, si assume che il principio di imparzialità per avere carattere precettivo deve essere specificato da una norma di legge. Inoltre, viene precisato che non trova applicazione quella giurisprudenza della Cassazione, citata dai giudici di appello, secondo cui, in determinate ipotesi, la violazione dell’art. 97 Cost. può integrare il reato di abuso d’ufficio, in quanto nella specie le condotte contestate attengono sicuramente al momento dell’organizzazione della pubblica amministrazione – trattandosi di procedure selettive predisposte per l’accesso al pubblico impiego -, sicché il principio di imparzialità non presenta carattere precettivo.

Sotto altro profilo i ricorrenti rilevano come, anche ammettendo la portata precettiva del menzionato art. 97 Cost., deve riconoscersi che non vi è stata alcuna violazione di questa norma, dal momento che la valorizzazione del servizio svolto rispetto al titolo di studio è stata una scelta funzionale non a favorire il Cappelli, ma ad individuare, attraverso il concorso, una persona in grado di risolvere la situazione contingente di contrasti interni e di mancanza di disciplina creatasi all’interno del Corpo della polizia municipale, situazione che necessitava di una conduzione sicura e di “polso” che poteva essere garantita dall’esperienza più che dal titolo di studio.

Comune ai due ricorrenti è anche il motivo con cui si censura la motivazione della sentenza impugnata là dove, a sostegno della tesi accusatoria, sottolinea che nella redazione del bando non siano stati tenuti in considerazione neppure i pareri richiesti al professore ZZZZ e all’avvocato YYYY, circa la valutazione del titolo di studio. A questo proposito viene rilevato un travisamento del contenuto dei pareri e, soprattutto, della testimonianza del ZZZZZ.

Infine, entrambi i ricorrenti deducono l’erronea applicazione della norma incriminatrice con riferimento all’elemento soggettivo del reato, peraltro rilevando la mancanza di motivazione sul punto e l’assenza di ogni vaglio critico sulle testimonianze di Omissis, Omissis, Omissis e Omissis, necessario per accertare che il sindaco avesse effettivamente già deciso la nomina del XXX. Inoltre, si sottolinea, sempre con riferimento all’elemento soggettivo, che emerge dagli atti, anche tenendo conto della cautela con cui si è mossa l’amministrazione comunale che ha richiesto appositi pareri ad esperti del settore, come la condotta del Omissis, che non aveva alcun rapporto personale con il XXX, sia stata ispirata comunque al perseguimento dell’interesse pubblico.

Per quanto riguarda la posizione del Omissis 2, nel suo ricorso viene dedotta anche la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla commissione del fatto. Si rileva la grave carenza motivazionale della sentenza, che non spiega il contributo del Omissis 2 alla commissione del reato e che non tiene conto né del fatto che non fu l’imputato a contattare il prof. Tamassia, né che non fu lui a redigere il bando. In ogni caso, si rileva che le condotte contestate al Omissis 2, asseritamente consistite nell’aver seguito fedelmente le disposizioni del sindaco, acquisendo i pareri richiesti, appaiono del tutto irrilevanti ai fini dell’integrazione del reato.

I ricorsi sono fondati con riferimento alla carenza dell’elemento soggettivo del reato.

Come è noto nel reato di abuso d’ufficio si richiede il dolo c.d. intenzionale, nel senso che l’agente deve aver agito proprio per perseguire uno degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice, ossia l’ingiusto vantaggio patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l’altrui danno ingiusto. In altri termini, non è sufficiente che il soggetto attivo agisca con dolo diretto, cioè che si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità, né che agisca con dolo eventuale, nel senso che accetti il rischio del suo verificarsi, ma è necessario che l’evento di danno o il vantaggio sia voluto come obiettivo del suo operato e non semplicemente realizzato come risultato accessorio della sua condotta, sia quindi conseguenza diretta e immediata dell’azione posta in essere (Sez. VI, 1° giugno 2000, 8745, Spitella; Sez. VI, 7 luglio 2000, n. 10448, Bellino).

A differenza che nella precedente formulazione, l’art. 323 c.p. non ritiene più irrilevante il conseguimento del fine, per cui qualora manchi la prova che l’uno o l’altro evento realizzato costituisse il fine perseguito dall’agente, deve escludersi la sussistenza del reato.

Nella specie, dalla ricostruzione del fatto contenuto nelle sentenze di merito risulta con una certa evidenza che la scelta di prefigurare un “profilo” del candidato al posto di comandante della polizia municipale che valorizzasse l’esperienza rispetto ai titoli di studio rispondesse a precise esigenze dell’amministrazione comunale, in cui vi era la necessità di risolvere, per un periodo limitato, una situazione di conflittualità venuta a crearsi all’interno del corpo dei vigili urbani. In altri termini, non risulta che i due imputati, nelle loro rispettive posizioni, abbiano agito allo scopo di avvantaggiare Bruno Cappelli, in quanto la loro azione è stata diretta, in buona fede, al perseguimento dell’interesse pubblico.

La mancanza dell’elemento soggettivo impone l’annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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