Cassazione, 7 gennaio 2010, n. 119 Chiede soldi per ritirarsi dall’asta è tentata estorsione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Osserva

Con sentenza del 22 giugno 2007, la Corte di appello di Perugia ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale della medesima città il 27 maggio 2006, con la quale F. E. era stato condannato alla pena di mesi otto di reclusione ed euro 400,00 di multa quale imputato del delitto di cui agli artt. 56 e 353 cod. pen., così riqualificata l’originaria imputazione di cui agli artt. 353 e 629 cod. pen. – assorbito quest’ultimo reato nella prima fattispecie – nuovamente riqualificando l’imputazione in tentata estorsione.

Propone ricorso per cassazione il difensore il quale deduce vizio di motivazione in ordine alla affermazione di responsabilità penale. Deduce il ricorrente che, nella specie, non sussisterebbe il requisito della minaccia di un male ingiusto, in quanto l’imputato avrebbe prospettato unicamente l’esercizio di un diritto legittimo, quale quello di proseguire alla partecipazione all’asta. Né sussisterebbe il requisito del danno dovendosi questo rapportare agli esiti dell’intera procedura esecutiva. Si registrerebbe, poi, un vuoto motivazionale in ordine alla idoneità della condotta ad incidere sulla sfera soggettiva dell’offeso, il quale non avrebbe avuto alcuna percezione della illiceità della condotta posta in essere dall’imputato. Si osserva, poi, che l’appello della parte civile doveva essere dichiarato inammissibile in base alle modifiche introdotte in tema di appello dalla legge n. 46 del 2006.

Ha, infine, depositato memoria la parte civile, la quale contesta la validità delle affermazioni poste a base del ricorso, chiedendo la conferma della sentenza impugnata, con annullamento delle sole disposizioni civili, in quanto i giudici dell’appello, nel riqualificare i fatti secondo la più grave imputazione di tentata estorsione, avrebbero omesso di adeguare alla maggior gravità del fatto-reato l’ammontare dell’indennizzo, senza motivare sul punto.

Il ricorso è infondato. Del tutto correttamente, infatti, i giudici dell’appello hanno proceduto a riqualificare la condotta ascritta all’imputato come tentativo di estorsione, considerato che la richiesta di corresponsione di una somma di denaro quale “prezzo” domandato per astenersi dal partecipare all’asta, e così non “turbare” le aspettative nutrite dalla famiglia S. di poter rientrare nella piena disponibilità degli immobili pignorati, integra senz’altro gli estremi della minaccia destinata a conseguire un ingiusto profitto con pari danno per la vittima, di cui all’art. 629 cod. proc. pen. Questa Corte, infatti, ha reiteratamente avuto modo di affermare che in tema di estorsione, la minaccia, ancorché consistente nell’esercizio di una facoltà o di un diritto spettante al soggetto agente, e dunque all’apparenza legale, diviene contra ius quando, pur non essendo antigiuridico il male prospettato, si faccia uso di mezzi giuridici legittimi per ottenere scopi non consentiti o risultati non dovuti, come quando la minaccia sia fatta con il proposito di coartare la volontà altrui per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia (ex plurimis Cass., Sez. II, 6 febbraio 2008, Sartor). Anche l’“abuso del diritto”, quindi, in quanto possibile strumento di sopraffazione dell’altrui libertà di autodeterminarsi, può integrare l’estremo della minaccia – che, non a caso, l’art. 629, a differenza dell’art. 612 cod. pen., non richiede debba profilare in sé un “danno ingiusto” – quale elemento necessario e sufficiente per costringere altri ad una prestazione dannosa e tale da realizzare, per l’autore, un profitto che l’ordinamento, stavolta, qualifica come “ingiusto”, proprio perché, ad un tempo, indebito e coartato. Del pari pacifico deve ritenersi, nella specie, l’estremo del danno, avuto riguardo non alla procedura esecutiva in sé considerata, ma all’assenza di titolo alla percezione della somma richiesta da parte dell’imputato, a prescindere dunque – contrariamente a quanto deduce il ricorrente – dalla persona in concreto “minacciata”, che ben può essere diversa da chi è costretto alla prestazione pregiudizievole.

La domanda di adeguamento dell’ammontare del risarcimento avanzata dalla parte civile è palesemente inammissibile, in quanto formulata non in sede di ricorso – non proposto – ma in sede di semplice memoria.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Occorre altresì disporre la rifusione alla parte civile delle spese sostenute nel grado che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Liquida le spese del grado in favore della parte civile S. G. in euro 2.500,00 oltre rimborso forfettario per spese generali in ragione del 12,50%, nonché IVA e CPA, da anticipare da parte dell’Erario con diritto di rivalsa nei confronti dell’imputato.

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