Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., 20-07-2012, n. 12764

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I sigg. Ga.Al. e G.Z., giunti in Italia dalla Siberia, ricorsero (assieme alla figlia I., che però non ha coltivato il giudizio dopo la sentenza di secondo grado) al Tribunale di Bologna avverso il rigetto, disposto il 28 novembre 2001 dalla Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, della domanda rivolta a tale riconoscimento o, in subordine, del riconoscimento del diritto di asilo, ai sensi dell’art. 10 Cost., comma 3, o di protezione umanitaria ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, comma 1, e del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, art. 28. La domanda era giustificata con l’esposizione dei ricorrenti a intimidazioni da parte della polizia e di sconosciuti, che li avevano anche minacciati di morte, affinchè la G. si accollasse l’esclusiva responsabilità per la distrazione di fondi pubblici, cui la medesima aveva partecipato, quale impiegata di una società di assicurazioni, su incarico del governatore locale e che si era poi rifiutata di occultare, subendo anche il licenziamento dal posto di lavoro.

Il Tribunale respinse il ricorso e la Corte d’appello di Bologna ha respinto il successivo reclamo degli interessati.

La Corte ha anzitutto negato la scrutinabilità della domanda di riconoscimento dello status di persona ammissibile alla protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 2, comma 1, lett. f),trattandosi di domanda non proposta nel giudizio di primo grado, dato che solo dopo l’inizio di esso era stata introdotta nell’ordinamento la previsione di tale fattispecie di protezione internazionale.

Ha quindi negato anche le altre forme di protezione richieste, respingendo le censure dei reclamanti che lamentavano la violazione del principio di attenuazione dell’onere della prova a carico del richiedente in materia di protezione internazionale, nonchè la violazione dell’obbligo di riconoscere la protezione umanitaria in relazione al rischio di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti.

I reclamanti hanno quindi proposto ricorso per cassazione con tre motivi di censura. L’amministrazione intimata si è difesa con memoria.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione dell’art. 111 Cost. in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f), si censura la declaratoria di inammissibilità della domanda di protezione sussidiaria, osservando che non si tratta di fattispecie di nuova introduzione nell’ordinamento, bensì di mera specificazione della protezione già presente ai sensi dell’art. 10 Cost..

1.1. – Il motivo è infondato.

Prima dell’introduzione, con il D.Lgs. n. 251 del 2007, dell’istituto della protezione sussidiaria, le relative fattispecie configuravano altrettante ipotesi di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari (cfr. Cass. 4139/2011 e successive conformi); era pertanto esclusivamente tale ultima, più precaria tutela (della quale il ricorso si occupa nel suo terzo motivo, come si vedrà) che poteva spettare ai ricorrenti.

2. – Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, si lamenta che la Corte d’appello, nel confermare il rigetto della richiesta di riconoscimento dello status di rifugiati:

a) non abbia tenuto conto dell’attenuazione dell’onere della prova a carico del richiedente asilo, prevista dall’art. 5 della direttiva 2004/83/CE, e non abbia pertanto ritenuto sufficienti le prove documentali prodotte dai ricorrenti (libretto di lavoro con annotato il licenziamento della G. e informazione di garanzia relativa al processo penale) a riscontro delle proprie dichiarazioni, che ovviamente non avrebbero potuto essere suffragate da alcun funzionario della Federazione Russa;

b) abbia interpretato l’elencazione dei motivi di persecuzione di cui all’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 (razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche) in maniera tassativa, trascurando che nello spirito della Convenzione vi è la tutela di tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano soggetti a persecuzione ovvero siano privati dei propri diritti fondamentali.

2.1. – La censura a) è inammissibile, perchè la Corte d’appello non ha affatto negato l’attenuazione dell’onere probatorio invocato dai ricorrenti, ma, pur esaminando gli elementi da essi offerti alla luce dell’art. 5 della direttiva 2004/83/CE, poi trasfuso, in attuazione della direttiva nella parte invocata dai ricorrente, nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ha ritenuto, ampiamente motivando sul punto, che il racconto dei reclamanti difettasse di intrinseca attendibilità: e questa è statuizione in fatto che avrebbe dovuto essere censurata mediante l’articolazione di idonea censura di vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Resta conseguentemente assorbita la censura b), attinente ad una ratto alternativa, sul punto, della decisione impugnata.

3. – Con il terzo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, si censura la negazione della protezione umanitaria ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1, e del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28 che invece avrebbe dovuto essere accordata in base alla oggettiva situazione socio-politica del paese d’origine dei ricorrenti.

3.1. – La censura è inammissibile.

Va premesso che per il riconoscimento della protezione umanitaria l’art. 19, comma 1, D.Lgs. cit. richiede la sussistenza del pericolo di persecuzione, ai danni del richiedente, "per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali" (ove tale persecuzione non giustifichi addirittura il riconoscimento dei più favorevoli status di rifugiato o di protezione sussidiaria).

Tanto premesso, si osserva che la Corte d’appello ha respinto la relativa domanda sul rilievo che, non avendo i reclamanti censurato l’assunto del Tribunale secondo cui il rapporto di Amnesty International, in atti, descriveva una generica situazione di un non meglio precisato malcostume giudiziario, privo di specifico riferimento al caso concreto, restava sfornito di prova qualsiasi motivo umanitario ostativo al loro rimpatrio. E anche questa è una statuizione in fatto, che andava dunque censurata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4. – Il ricorso va in conclusione respinto.

In mancanza di attività difensiva della parte intimata non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nelle Camere di consiglio, il 25 gennaio e il 22 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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