Cassazione, Sez. Un., 10 dicembre 2009, n. 47008 Prescrizione ex cirielli, quando la nuova normativa è applicabile

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del procedimento

Con sentenza 10-11-05 il Tribunale di Palermo dichiarava D. O. responsabile ai sensi degli artt. 81 cpv., 519 c. 1 e 2 c.p. dei reati continuati di violenza carnale e di atti di libidine ai danni della figlia S., all’epoca minore degli anni omissis, fatti commessi sino al omissis: condannava il predetto a pena ritenuta di giustizia.

Con pronuncia 14-2-08 la Corte di appello, a seguito di espletamento di una perizia sulla capacità della persona offesa a rappresentare gli accadimenti oggetto del processo e dopo avere effettuato nuovo esame della medesima, riduceva l’inflitta sanzione confermando nel resto la decisione impugnata.

Avverso la sentenza di secondo grado l’imputato ha proposto ricorso per cassazione in base ai seguenti motivi.

1 – Violazione degli artt. 157, 519 c.p. e 129, 531 c.p.p. per omessa declaratoria di estinzione dei reati ascritti a causa di intervenuta prescrizione.

In particolare è stato dedotto che tali reati, per i quali è stabilita la pena edittale massima di anni 10 di reclusione, alla luce della modifica dell’art. 157 c.p. introdotta dalla L. 5-12-05 n. 251 erano già prescritti sin dal omissis, quindi prima della data di emissione della sentenza di appello: ciò in quanto doveva applicarsi il nuovo e più favorevole termine di operatività della causa estintiva, pari ad anni 10, eventualmente aumentato di un quarto ex art. 161 c.p.

2 – Vizio di motivazione in punto responsabilità e travisamento della prova (motivo enunciato con successiva memoria, peraltro nel lasso temporale previsto per l’impugnazione principale).

Precipuamente si è denunciata mancanza di adeguata valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, la quale quando si era espressa spontaneamente non aveva mai accusato il padre, ma aveva ribadito la di lui estraneità ai fatti.

Il ricorso veniva assegnato alla terza sezione penale della Cassazione ed il collegio lo rimetteva alle Sezioni Unite, evidenziando che in relazione al primo motivo si delineava una questione – quella concernente il momento cui collegare il limite posto dall’art. 10, c. 3 L. 251/2005 alla retroattività, per i processi “pendenti in appello”, delle disposizioni più favorevoli in materia di prescrizione introdotte dalla suddetta legge – in ordine alla quale sussisteva contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici.

Motivi della decisione

Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è dunque il seguente:“se a seguito della sentenza di condanna emessa in primo grado debba ritenersi verificata la pendenza in appello del processo, prevista dall’art. 10 c. 3 della L. 5-12-2005 n. 251 ai fini di escludere l’applicabilità delle disposizioni sopravvenute, più favorevoli in tema di prescrizione”.

Per un corretto inquadramento ed un agevole approfondimento della questione è utile riportare il contenuto della norma di riferimento nella sua originaria formulazione ed in quella attuale, risultante a seguito dell’intervento operato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 23-11-06 n. 393.

L’art. 10 L. 251/05 – dopo avere fissato, al comma 1, l’entrata in vigore della nuova legge nel giorno successivo alla sua pubblicazione ed avere sancito, al comma 2, la non applicabilità ai procedimenti ed ai processi in corso della nuova disciplina, qualora i termini di prescrizione risultassero più lunghi di quelli previgenti – recitava testualmente, al comma 3: “Se per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti ed ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di Cassazione”.

La Corte Costituzionale con la menzionata pronuncia ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale comma, limitatamente alle parole “dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché”.

All’uopo ha rilevato: che il principio della retroattività delle disposizioni più favorevoli posto dall’art. 2 c. 4 c.p. (da intendersi riferito a tutte le norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato) non è oggetto della tutela privilegiata contemplata dall’art. 25 c. 2 Cost. poiché questa concerne unicamente il divieto di applicazione retroattiva della norma incriminatrice o comunque più sfavorevole all’imputato; che, pertanto, il medesimo è derogabile anche tramite una legge ordinaria, ma che, trattandosi comunque di una regola generale del nostro sistema penale, alla quale viene attribuita valenza anche dalla legislazione internazionale e da quella comunitaria (Patto sui diritti civili e politici di New York del 16-12-66; Trattato sull’Unione Europea di Amsterdam del 2-10-97 e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di Nizza del 7-12-00), la deroga deve essere diretta a far prevalere principi di uguale o maggior valenza (quali – a titolo esemplificativo – l’efficienza del processo, la salvaguardia dei diritti dei soggetti che in vario modo sono destinatari della funzione giurisdizionale, la tutela di interessi dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo). Con specifico riferimento alla disposizione transitoria de qua ha affermato che la scelta di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado come discrimine temporale per l’applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione non era “assistita da ragionevolezza” e violava l’art. 3 della Costituzione sotto diversi profili. Innanzitutto, a causa del carattere non indefettibile dell’incombente suddetto, che caratterizza solo il rito ordinario, restando estraneo a quelli alternativi ed altresì perché il medesimo non era idoneo a correlarsi significativamente alla funzione della prescrizione (strumento con il quale l’ordinamento si fa carico del diminuito allarme sociale suscitato dal reato e del meno agevole esercizio del diritto di difesa, determinati dal decorso del tempo), tanto da risultare “eccentrico” rispetto agli altri eventi processuali presi in considerazione dall’art. 160 c.p. ai fini della sua interruzione; inoltre si è segnalato che non erano invocabili esigenze di efficienza processuale e di conservazione della prova poiché al momento dell’apertura del dibattimento non sono state ancora compiute attività processuali suscettibili di essere vanificate.

Per effetto della richiamata sentenza l’operatività dei nuovi termini di prescrizione, in quanto più favorevoli, risulta ormai esclusa dalla disposizione di cui al c. 3 dell’art. 10 della L. 251/05 unicamente con riguardo ai “processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di Cassazione”.

Con successiva pronuncia, del 28-3-08 n. 72, la Consulta ha dichiarato infondate varie questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alla suddetta residua deroga, evidenziando: che la stessa non può dirsi irragionevole, discendendo dal fatto oggettivo e inequivocabile che “processi di quel tipo siano in corso ad una certa data”; che l’avvenuta emissione di una sentenza di primo grado o di un decreto di condanna assume rilievo rispetto all’istituto della prescrizione in quanto questi atti, al pari del decreto di citazione per il giudizio di secondo grado, sono inclusi tra quelli indicati dall’art. 160 c.p.; che nei processi di appello (ed ancor più in quelli pendenti in cassazione) l’esigenza di evitare che l’acquisizione del materiale probatorio e quindi l’esercizio della difesa siano resi più difficili a causa del decorso del tempo è ormai soddisfatta poiché, in linea generale, l’attività istruttoria si svolge in primo grado; che l’opzione legislativa trova giustificazione siccome volta ad impedire la dispersione delle attività processuali realizzate secondo cadenze calcolate in base ai tempi di prescrizione più lunghi, vigenti all’epoca del loro compimento (motivazione integralmente richiamata dall’ordinanza 23-10-08 n. 343 che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione nuovamente sollevata).

In relazione all’attuale testo della norma transitoria si è dunque posto il quesito sopra enunciato, il quale nella fattispecie in esame è rilevante sotto duplice aspetto. Da un lato va considerato che la L. 251/05 è entrata in vigore il 7-12-05, ossia un mese dopo la pronuncia della sentenza del Tribunale ed in pendenza del termine per proporre appello; per altro verso, se si ritenesse applicabile la previgente disciplina, la causa estintiva (come con maggiore precisione verrà in seguito illustrato) non si sarebbe ancora verificata, mentre in caso di operatività di quella nuova l’ultimo fatto delittuoso addebitato al ricorrente nell’ambito del reato continuato risulterebbe prescritto al omissis, quindi prima della sentenza di secondo grado (risalendo a data ancora precedente l’avverarsi della prescrizione per quelli commessi in epoca anteriore).

Al proposito si sono delineate nella giurisprudenza di legittimità diverse e contrastanti posizioni.

In taluni precedenti è stato affermato che la pendenza del grado di appello, alla quale consegue la non retroattività delle norme sopravvenute più favorevoli, ha inizio con l’effettiva proposizione del gravame e non già con la semplice conclusione del primo grado di giudizio: invero la formula adottata dal legislatore deve essere valutata “nella sua specificità lessicale” e l’art. 10 c. 3 L. 251/05 evoca non la pendenza del giudizio di appello, bensì del processo nel “grado di appello”, in questo modo attribuendo rilievo all’atto che lo introduce; né possono assumere valenza il decreto di citazione in giudizio per l’appello ovvero la trasmissione del fascicolo al giudice di secondo grado, eventi successivi all’impugnazione (Cass. 2-10-07 n. 41965 Rv. 238194; Cass. 9-4-08 n. 18382 Rv. 240375; Cass. 10-4-08 n. 26101 Rv.240608; 28-5-09 n. 22328 Rv. 244000).

Una pronuncia, rimasta peraltro isolata, ha invece collegato la pendenza di un processo in appello alla sua iscrizione nel registro della Corte di appello (Cass. 15-4-08 n. 24330 Rv. 240342). In particolare si è assunto che il dato centrale e fondamentale del passaggio da una fase processuale all’altra è costituito rispettivamente dalla trasmissione e dalla ricezione degli atti: ciò alla luce dell’urgenza imposta per il primo di questi adempimenti dagli artt. 432, 590 c.p.p. e della circostanza che il giudice dell’impugnazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 465 e 598 c.p.p., può provvedere agli atti preliminari di sua competenza solo dopo la suddetta ricezione. Al contempo è stato censurato il riferimento alla presentazione dell’impugnazione, comportando un criterio del genere molteplici incertezze nell’ipotesi di procedimenti con più imputati; del pari si è esclusa la possibilità di avere riguardo all’emissione della sentenza di primo grado in quanto siffatta interpretazione sarebbe in contrasto con il dettato normativo e porterebbe a ritenere già istaurato l’appello, pur essendo la celebrazione di questo giudizio meramente eventuale.

Secondo un altro orientamento, decisamente maggioritario, la pendenza del processo in appello coincide con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (tra i precedenti più significativi: Cass. 27-11-06 n. 42189 Rv. 234954; Cass. 21-2-08 n. 13350 Rv. 241319; Cass. 20-11-07 n. 1574 Rv. 240156; Cass. 26-5-08 n. 31702 Rv. 240607; Cass. 10-10-08 n. 40976 Rv. 241319; Cass. 15-7.08 n. 38587 RV. 241698; Cass. 16-7-08 n. 37333 Rv. 241699; Cass. 16-1-09 n. 7697 Rv. 242966; Cass. 22-10-08 n. 13523 Rv. 243826; Cass. 14-5-09 n. 34231 Rv. 244100).

A sostegno si è considerato che il significato dell’attuale norma transitoria va inteso e “ri-definito” nel senso che non riproduca ciò che la Consulta ha ritenuto irragionevole e non conforme al sistema, tenendosi altresì conto dello scopo originariamente perseguito. È stato, quindi, rilevato che la sentenza di condanna determina interruzione della prescrizione e si pone in armonia con l’esigenza di non ridurne indiscriminatamente i tempi; si è precisato che l’effetto riconosciuto alla medesima, di escludere la retroattività delle norme più favorevoli, va riportato alla lettura del dispositivo e non al deposito della motivazione, che non incide sul decorso della causa estintiva; infine è stata negata ogni rilevanza ad altri fatti, quali la presentazione dell’impugnazione o l’iscrizione nel registro della Corte di appello, che a loro volta non sono ricompresi tra quelli previsti dall’art. 160 c.p. e dipendono dalla volontà di taluni soggetti processuali.

Anche le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi in ordine a questioni diverse, in ben due occasioni hanno seguito quest’ultimo indirizzo, in un caso affermando che doveva operare la nuova disciplina in quanto al momento della entrata in vigore della L. 251/05 non era ancora stata pronunciata la sentenza di condanna di primo grado (Cass. S.U. 28-2-08 n. 19601), nell’altro applicando la normativa previgente perché al momento suddetto già era stata emessa tale sentenza, che “costituisce atto interruttivo della prescrizione” (Cass. S.U. 27-11-08 n. 3287)

Ferma restando la soluzione di cui sopra, sono intervenute ulteriori e divergenti specificazioni: ribadendosi che il diniego della retroattività della lex mitior presuppone il verificarsi di un evento interruttivo della prescrizione, è stato assunto che, per l’ipotesi in cui il giudizio di primo grado si concluda con una sentenza di proscioglimento (la quale non è contemplata dall’art. 160 c.p.), la deroga opererebbe solo a partire dall’emissione del decreto di citazione in appello, che rappresenta il primo atto in sequenza procedimentale avente l’effetto in questione (Cass. 25-11-08 n. 7112 Rv. 242421; Cass. 16-4-09 n. 25470 Rv. 243898); in senso difforme si è dato risalto al solo principio dell’efficienza del processo, a prescindere dall’intervento di un atto interruttivo della prescrizione e l’esito del giudizio di primo grado è stato considerato indifferente. (Cass. 6-3-08 n. 18765 Rv. 239868; Cass. 11-4-08 n. 17349 Rv. 240403).

Queste Sezioni Unite, rimanendo nell’ambito del quesito che qui interessa e rileva, ritengono di aderire all’orientamento maggioritario che individua nella sentenza di condanna emessa in primo grado il fattore al quale ancorare, in tema di prescrizione, l’inapplicabilità delle norme sopravvenute, più favorevoli all’imputato; all’uopo si condividono le argomentazioni che sono state riportate e si osserva quanto segue.

Le pronunce della Corte costituzionale producono effetti vincolanti in ogni procedimento esclusivamente per quanto attiene alla dichiarazione in queste contenuta di illegittimità costituzionale di una norma (Cass. 21-2-84 n. 4678 Rv. 164298; Cass. 15-7-96 n. 7895; Cass. S.U. 29-3-07 n. 27614 Rv. 236535); la giurisprudenza civile ha, peraltro, evidenziato che le argomentazioni poste a fondamento della decisione rilevano al fine di individuarne l’oggetto e la portata, costituendo la motivazione ed il dispositivo elementi di uno stesso atto, unitariamente inteso, reso secondo il modello della sentenza. (Cass. S.U. 24-10-84 n. 5401 Rv. 437104; Cass. S.U. 16-1-85 n. 94 Rv. 438291; Cass. civ. 15-3-01 n. 3756 Rv. 544785; Cass. civ. 17-12-04 n. 23506 Rv. 579373); in sede penale, con riferimento a sentenze di rigetto delle questioni di legittimità, le quali non sono in alcun modo vincolanti, si è tuttavia affermato, con diverse sfumature, che esse rappresentano un precedente autorevole e che il giudice in un diverso procedimento, pur conservando il potere-dovere di interpretare in piena autonomia la disposizione “salvata”, incontra il limite di non assegnare alla formula normativa un significato che secondo il Giudice delle leggi sarebbe in contrasto con la Costituzione (Cass. 13-12-95 n. 930 Rv. 203426; Cass. S.U. 13-7-98 n. 21 Rv. 211195; Cass. S.U. 16-12-98 n. 25 Rv. 212075).

Orbene, la sentenza della Corte Costituzionale parzialmente demolitiva dell’art. 10, c. 3 non solo ha efficacia “erga omnes” in ordine al precetto dichiarato illegittimo, ma assume valenza, sebbene non assoluta, con riguardo ai motivi della ritenuta irragionevolezza i quali nell’interpretazione della restante disposizione non possono essere trascurati, dovendosi evitare che venga adottato un criterio avente gli stessi caratteri di quello censurato.

Così pure occorre tenere presenti le valutazioni in base alle quali la successiva sentenza della Consulta ha escluso la incostituzionalità della deroga alla retroattività della disciplina più vantaggiosa per quanto attiene ai processi pendenti in appello (ovvero avanti la Corte di cassazione): infatti se ci si discostasse dalle medesime, senza addivenire a soluzioni dotate di pari ragionevolezza, potrebbero prospettarsi nuove questioni di costituzionalità.

È quindi evidente che, a fronte della previsione rimasta in vigore, non deve tanto ricostruirsi la nozione generale ed astratta di pendenza del giudizio o di pendenza del giudizio di appello, ma piuttosto l’esatto significato che la locuzione normativa assume nel particolare contesto in cui è stata introdotta, considerando gli interessi perseguiti e le condizioni per le quali l’esclusione della retroattività si palesa compatibile con la legge fondamentale.

Né potrebbe giovare un richiamo dogmatico al dato testuale posto che il concetto di pendenza non ha ricevuto definizione nel nostro sistema processual-penalistico, il che consente di adeguarlo alle caratteristiche ed alla finalità delle situazioni in cui è destinato ad incidere.

Nella delineata ottica, essendo ormai indiscutibile l’operatività della disciplina più favorevole per tutta la durata del giudizio di primo grado, risulta legittimo far scattare l’esclusione a partire dall’atto conclusivo di quest’ultimo il quale si concreti in una sentenza di condanna, che determina interruzione della prescrizione.

In effetti, ravvisare la pendenza di un procedimento in appello nel momento in cui viene emesso il provvedimento che pone fine al grado precedente trova congrua spiegazione nella circostanza che questo evento comporta l’impossibilità per il giudice di assumere ulteriori decisioni in merito all’accusa, nell’ambito del processo principale (non rilevando, ai fini in questione, le disposizioni in tema di competenza dettate da esigenze pratiche in relazione ai procedimenti incidentali cautelari) e che esso apre comunque la fase dell’impugnazione, indipendentemente dal fatto che siano pendenti i termini per proporla.

A conferma di tale impostazione v’è la tecnica legislativa impiegata nel concepire la norma nonché la ratio a questa sottesa.

Mentre il riferimento ai processi di primo grado era avvenuto con indicazione di una determinata cadenza (l’apertura del dibattimento), quelli di appello e di cassazione, invece, sono stati richiamati nella loro globalità e come aventi, ciascuno di loro, immediato corso rispetto al precedente: il che segnala che non è ipotizzabile una soluzione di continuità tra la conclusione di un grado e la pendenza del successivo.

D’altronde va riconosciuto che il legislatore con la disposizione originaria intese apportare, in tema di prescrizione, ampia deroga al principio posto dall’art. 2 c. 4 c.p.p., al fine di impedire che si verificasse una forma generalizzata di amnistia a scapito di una coerente applicazione della legge penale; la Corte Costituzionale non ha censurato la ragione che ebbe ad ispirare la limitazione (avendo anzi ritenuto che la tutela dell’efficienza del processo valga, in generale, a giustificare un’eccezione al citato principio), ma la scelta della formalità destinata a fungere da discrimine in subiecta materia: pertanto, in relazione alla norma che residua dopo la pronuncia di illegittimità costituzionale, s’impone un approccio ermeneutico che sia conforme agli enunciati in questa contenuti ed attribuisca altresì rilievo al suddetto intento, evitando di restringere senza necessità la deroga stessa.

Di conseguenza, anche sotto codesto aspetto, occorre riportarsi ad un momento che, dopo la conclusione del giudizio di primo grado, sia il più possibile risalente nel tempo; per il resto si condivide quanto segnalato nelle sentenze del Giudice delle leggi circa la specifica esigenza che il sacrificio dell’interesse dell’imputato ad un più benevolo trattamento venga parametrato alla funzione dell’istituto della prescrizione e quindi collegato ad un atto interruttivo del suo corso.

All’uopo va puntualizzato che, se la prescrizione implica la rinuncia dello Stato a realizzare la pretesa punitiva a causa del decorso del tempo, di converso ogni atto avente efficacia interruttiva di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 160 c.p., rappresenta esplicitazione e riaffermazione della volontà di accertare fatti e responsabilità, in una prospettiva di ravvisato perdurare dell’allarme sociale (Cass. 22-4-97 n. 6054 Rv. 208089; Cass. 27-11-02 Rv. 226427; Cass. 22-11-07 n. 2113 Rv. 238478).

In altre parole l’interruzione della prescrizione, nell’incidere in modo negativo sul calcolo della prescrizione, si traduce in un elemento di contrasto al verificarsi della causa estintiva e pertanto costituisce un’espressione tipica dell’esigenza di assicurare l’efficacia della giurisdizione e del processo penale.

La sentenza di condanna – quale accadimento che conclude il giudizio di primo grado, nel cui corso si è raccolto il materiale probatorio e quale evento che, consolidando l’accusa, interrompe la prescrizione – è dunque idonea, sia in relazione al momento processuale in cui interviene, sia con riguardo al suo contenuto di verifica fattuale e di imposizione punitiva, a segnare la linea di demarcazione temporale tra la pregressa e la nuova normativa; né può sottacersi che la stessa è stata menzionata dalla Consulta nell’operare richiamo ad atti rilevati a questo fine.

Gli esposti motivi rendono evidente che la situazione di pendenza non può essere determinata dalla proposizione dell’impugnazione ovvero dall’iscrizione del processo nel registro del giudice di secondo grado: tali fatti non sono interruttivi della prescrizione né altrimenti indirizzati a garantire la funzione del processo; a ciò aggiungasi che la soluzione di far dipendere il verificarsi o meno della prescrizione da comportamenti delle parti oppure da adempimenti di carattere amministrativo sarebbe priva di plausibile fondamento.

In conclusione deve affermarsi il seguente principio di diritto:

“ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza del giudizio in appello e vale ad escludere la regola della retroattività delle disposizioni più favorevoli”.

Venendo al ricorso in esame, il primo motivo è infondato poiché, essendo la nuova disciplina entrata in vigore dopo la pronuncia della sentenza di condanna emessa in primo grado, deve applicarsi quella previgente.

In particolare si ribadisce che l’esclusione sancita dall’art. 10 c. 3 L. 251/05 non concerne solo i termini fissati dall’art. 157 c.p., ma tutte le disposizioni che hanno come effetto una loro riduzione: ciò in quanto la norma non distingue tra i vari modi che possono portare a detto risultato, con la conseguenza che nell’ambito della non operatività deve ritenersi compresa anche l’ipotesi in cui la maggior brevità del tempo di prescrizione derivi da una disposizione che incide sulla durata stessa, anticipandone nel tempo la decorrenza, come quella che, eliminando nell’art. 158 c.p. il richiamo alla continuazione, ha determinato che, in caso di reati uniti da tale vincolo, debba aversi riguardo alla commissione di ciascuno di essi e non già dalla data di cessazione dell’attività criminosa (Cass. 14-2-07 n. 15177 Rv. 236813; Cass. 23-2-07 n. 41811 Rv. 237906).

Poiché nella vicenda in esame i fatti delittuosi sono stati addebitati e ritenuti quali realizzati dall’imputato ex art. 81 cpv c.p. sino al omissis, va riconosciuto che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 157, 158, 161 c.p. nella loro originaria formulazione, la prescrizione non si è ancora verificata, poiché il termine massimo si esaurirebbe solo nel novembre del 2016.

Il secondo motivo di ricorso si risolve nell’invocare una valutazione in ordine al contesto probatorio diversa da quella di cui al provvedimento impugnato, senza individuare in questo alcun errore di logica argomentativa rilevante a norma dell’art. 606 c. 1 lett. e) c.p.p.

La Corte territoriale ha evidenziato che le dichiarazioni della D. circa gli abusi sessuali subiti ad opera dell’imputato – rese con specifiche indicazioni agli operatori sociali, all’insegnante e successivamente al P.M. nonché al Gip nel corso dell’incidente probatorio – erano state confermate nel giudizio di primo grado (alle udienze dibattimentali del 23-1-04, del 24-3-05) e ribadite in appello (all’udienza del 6-7-07), avendo la medesima riferito che la pregressa ritrattazione (operata all’udienza del 29-4-03) le era stata richiesta dal padre e che ella l’aveva effettuata nella speranza di riunirsi alla di lui famiglia (stante il cattivo rapporto con la madre), ma che poi era tornata a dire la verità “perché certe cose non si possono dimenticare”. Inoltre è stato segnalato come i periti, nominati in secondo grado, avessero affermato che la persona offesa era esente da carenze concernenti le principali funzioni psichiche (essendo dotata di percezione pronta ed immune da errori, di buona memoria a breve termine e sufficientemente conservata quella a lungo termine, di soddisfacente capacità critica su realtà e verità, di regolari nessi associativi) e che la stessa presentava una struttura di personalità con evidenti segnali di sofferenza emotiva, compatibile con una vita segnata da episodi traumatici sul piano fisico, psichico, affettivo e relazionale.

Rispetto a tali emergenze la conclusione adottata, circa la credibilità delle dichiarazioni della persona offesa – in quanto precise, lucide e ripetute – ed in ordine al carattere non inficiante della ritrattazione – perché dettata dal disperato tentativo di recuperare il rapporto col padre – si palesa del tutto consequenziale e pertanto sottratta a possibilità di sindacato di legittimità.

Né può incidere il richiamo dell’impugnante al fatto che la minore, all’età di omissis anni, avesse confidato alla cugina di avere subito atti di violenza sessuale solo ad opera dello zio (condannato in separato processo) e non anche da parte del padre; del pari non rileva l’ulteriore circostanza invocata dalla difesa, rappresentata dall’avere detta cugina riferito in dibattimento che S. le aveva ripetutamente confessato l’estraneità del padre alle violenze subite: anche questi dati, alla luce delle spiegazioni della vittima e delle risultanze peritali, sono stati ritenuti, in termini del tutto logici, significativi unicamente di originarie remore e dell’intento che, ad un certo punto, la minore aveva avuto di avvicinarsi alla famiglia paterna, dovendosi altresì tenere conto dell’ambivalenza dei sentimenti della stessa verso il padre, caratterizzati da disprezzo e rabbia ma anche da desiderio di affetto e protezione, specie per l’assenza di una figura alternativa nella madre che potesse darle il necessario sostegno.

Per tutte le svolte argomentazioni s’impone il rigetto del ricorso, con condanna dell’imputato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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