Cassazione, 18 novembre 2009, n. 44029 Differenza tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

Con sentenza 23.2.07 la Corte d’Appello di Roma confermava la condanna emessa il 22.4.03 dal Tribunale di Cassino a carico di B. A. per il delitto di tentata estorsione nei confronti di D. P. D..

Il B. ricorreva contro detta sentenza, di cui chiedeva l’annullamento per i motivi qui di seguito riassunti:

a) violazione di legge per difetto dell’ingiusto profitto: infatti, premesso che il B. era stato assolto dal concorrente reato di usura, il chiedere che la D. P. onorasse le obbligazioni cartolari (cambiali) assunte integrava lecita pretesa riconosciuta dall’ordinamento giuridico, di guisa che – al più – sarebbe stato configurabile il solo delitto p. e p. ex art. 612 c.p. e non quello di tentata estorsione;

b) al reato in esame era comunque applicabile l’indulto ex lege 31.7.2006 n. 241.

1 – Osserva la Corte che il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.

Quanto al primo motivo, premesso che secondo l’impostazione difensiva del ricorrente il reato configurabile sarebbe – semmai – quello p. e p. ex art. 393 c.p. e non quello di cui all’art. 612 c.p., valga ricordare il costante insegnamento di questa Corte Suprema in virtù del quale “Nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, e, pertanto, non può consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, in presenza delle quali deve, al contrario, ritenersi che la coartazione dell’altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto “ex se” ingiusto, configurandosi in tal caso il più grave delitto di estorsione. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto integrato il delitto di estorsione in un caso nel quale l’imputato, al fine di ottenere l’adempimento di un debito di importo pari inizialmente ad euro 8.676, e poi cresciuto fino ad euro 30.000, aveva minacciato il debitore sia con armi che con esplosivi)” (Cass. Sez. II n. 35610 del 27.6.2007, dep. 26.9.2007, rv. 237992; conf. Cass. n. 14440/07, rv. 236457; Cass. n. 47972/2004, rv. 230709; Cass. n. 10336/04, rv. 228156; Cass. n. 29015/02, rv. 222292).

Nel caso di specie, a fronte di un prestito complessivo di lire 14.400.000 erogato alla D. P., per il quale il B. aveva ottenuto il rilascio di svariati titoli cambiari per importi largamente superiori (in prime cure l’odierno ricorrente è stato assolto dal delitto di usura per incertezza del quadro probatorio in ordine all’enucleazione dei tassi di interesse da lui praticati), il mezzo per ottenere il soddisfacimento del credito vantato è consistito in gratuite minacce di morte e di far saltare in aria il negozio della parte offesa, minacce del tutto sproporzionate e poste in essere con modalità gravemente intimidatorie e sintomatiche dell’intento di andare ben al di là di ogni ragionevole soddisfacimento d’un proprio preteso diritto, di guisa che la coartazione della volontà della D. P. ha assunto ex se i caratteri dell’ingiustizia.

2 – Il secondo motivo di doglianza è manifestamente infondato perché l’indulto ben può essere applicato – ove spettante, sia ben chiaro – in sede esecutiva. L’ometterne l’applicazione è censurabile soltanto ove essa abbia formato oggetto di esplicita richiesta da parte dell’appellante, il che nella fattispecie non è avvenuto né nei motivi d’appello (risalenti ad epoca anteriore alla legge 31.7.2006 n. 241) né nelle conclusioni rassegnate dalla difesa del B. all’esito della discussione di secondo grado (v. verbale d’udienza del 23.2.07).

In proposito è appena il caso di ricordare che l’art. 591 c.p.p., che abilita questa Corte Suprema, in presenza delle condizioni di legge, a provvedere direttamente all’applicazione dell’indulto, senza rinviare il processo al giudice di merito, va correlato al principio devolutivo delle impugnazioni e presuppone, quindi, che la sentenza di appello abbia interloquito al riguardo o abbia omesso di farlo nonostante che fosse stato avanzato apposito motivo di gravame in tal senso, diversamente non avendo il giudice di legittimità poteri di iniziativa per l’applicazione di ufficio del beneficio che va, in ipotesi e sempre concorrendovi tutti i requisiti oggettivi e soggettivi, applicato in sede esecutiva (cfr., ad es. Cass. Sez. IV n. 1995 del 2.12.93, dep. 18.2.94).

3 – All’inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente alle spese processuali ed al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma che stimasi equo quantificare in euro 1.000,00 alla luce dei profili di colpa ravvisati nell’impugnazione, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di euro 1.000,00 alla C delle A.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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