Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 15-05-2012, n. 7513 Conciliazione in sede sindacale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Rilevato che la Corte d’appello di Firenze, in riforma della sentenza di prime cure, ha dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro con decorrenza 1 ottobre 2003 stipulato da Poste Italiane s.p.a. con G.M.;

per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso; la lavoratrice ha resistito con controricorso;

il Collegio ha disposto che sia adottata una motivazione semplificata;

in corso di causa è stato depositato un verbale di conciliazione in sede sindacale concernente la controversia in esame;

dal suddetto verbale di conciliazione, debitamente sottoscritto dalla lavoratrice interessata, oltre che dal rappresentante di Poste Italiane s.p.a., risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che – in caso di fasi giudiziali ancora aperte – le stesse saranno definite in coerenza con il presente verbale;

ad avviso del Collegio il suddetto verbale di conciliazione si palesa idoneo a dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione, in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U. 29 novembre 2006 n. 25278);

in definitiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse;

tenuto conto del contenuto dell’accordo transattivo intervenuto tra le parti, che ha anche regolato le spese processuali dei giudizi di merito, si ritiene conforme a giustizia compensare integralmente tra le stesse le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; compensa fra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 03-11-2011) 25-11-2011, n. 43759

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza in data 10.01.2011 il Gip del Tribunale di Bergamo dichiarava non doversi procedere nei confronti di B. A. in ordine alla contravvenzione di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4, per intervenuta oblazione.

2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore generale territoriale deducendo violazione di legge, atteso che, trattandosi di fattispecie punita con pena congiunta, detentiva e pecuniaria, l’oblazione non poteva essere ammessa.

3. Il Procuratore generale presso questa Corte depositava quindi requisitoria con la quale richiedeva annullamento senza rinvio dell’impugnato provvedimento.

4. Il ricorso, fondato nei termini di cui alla seguente motivazione, deve essere accolto.

Ed invero l’oblazione può essere ammessa o per le contravvenzioni punite solo con l’ammenda ( art. 162 c.p.) o per le contravvenzioni punite con pena alternativa (art. 162 bis c.p.), dal che discende che l’oblazione non può essere ammessa per le contravvenzioni, come quella L. n. 110 del 1975, ex art. 4, punite con pena congiunta.

Neppure, per giurisprudenza consolidata di questa Corte (v., ex multis, Cass. Pen. Sez. 1, n. 19177 in data 10.04.2008, Rv. 240190, P.G. in proc. Vitale, ecc.), l’oblazione potrebbe essere ammessa nel caso in cui sia riconosciuto il fatto di lieve entità, posto che trattasi di un’ipotesi attenuata e non di reato autonomo. In definitiva, l’impugnata sentenza, che ha dichiarato estinto il reato per oblazione in una fattispecie che non ammetteva tale forma di estinzione, deve dunque essere annullata senza rinvio per violazione di legge. Di conseguenza gli atti devono essere trasmessi al giudice a quo per l’ulteriore corso.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al Gip del Tribunale di Bergamo per il corso ulteriore.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-01-2013) 25-01-2013, n. 4082

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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 29 febbraio 2012 il Magistrato di sorveglianza di Bologna rigettava il reclamo proposto da C.A. avverso la sanzione disciplinare comminata dal Consiglio di disciplina in data 5 novembre 2011, osservando che la contestazione era conseguente al controllo effettuato il 22 ottobre 2011 nella cella occupata dal detenuto e che risultavano rispettati i presupposti per l’esercizio del potere disciplinare e i diritti di difesa dell’interessato che aveva avuto modo di esporre le ragioni a propria discolpa a seguito di regolare convocazione dinanzi al consiglio di disciplina.

2. Avverso il citato provvedimento ha proposto ricorso per cassazione personalmente C., il quale lamenta violazione di legge in relazione all’omesso rispetto dei termini perentori stabiliti dalla legge non solo per la contestazione degli addebiti, ma anche per la decisione.
Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato.

1. La procedura finalizzata all’eventuale irrogazione di una sanzione disciplinare nei confronti della persona detenuta è disciplinata dalla L. 26 luglio 1975, n. 354, artt. 38, 39 e 40, (c.d. legge di ordinamento penitenziario) e dal D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, artt. 78 e 81 (regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).

Le modalità e i termini per la contestazione dell’addebito all’interessato e per l’eventuale applicazione delle sanzioni tassativamente indicate dalla L. n. 354 del 1975, art. 39 devono essere ispirati al rispetto della dignità della persona e ai principio del contraddittorio e s’inquadrano in un più ampio contesto caratterizzato, da un lato, dalla necessità di mantenere l’ordine e la disciplina all’interno dell’istituto penitenziario (L. n. 354 del 1975, art. 1, comma 3) e, dall’altro, dall’esigenza di un trattamento rieducativo rigorosamente informato alla presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva (citata Legge, art. 1, comma 5) e al reinserimento sociale del condannato (citata Legge, art. 1, comma 6).

Al Direttore dell’istituto penitenziario e al Consiglio di disciplina, quali autorità competenti, ex L. n. 354 del 1975, art. 40, a deliberare le sanzioni disciplinari all’esito della procedura delineata, rispettivamente, dalla citata Legge, art. 38 e D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 81 spetta l’obbligo di osservare le leggi e i regolamenti nell’espletamento delle suddette attività d’istituto.

2. Tanto premesso, il Collegio osserva che, nel caso in esame, risultano rispettati i termini perentori (cfr. Sez. 1, n. 48848 del 18 novembre 2003; Sez. 1, n. 40479 del 18 ottobre 2007; Sez. 1, n. 13685 del 14 marzo 2008; Sez. 1, n. 44654 del 15 ottobre 2009) previsti dal D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230, art. 81 sia per procedere alla contestazione dell’illecito disciplinare (avvenuta il 28 ottobre 2011 in relazione ad un fatto verificatosi il 24 ottobre 2011) che per l’irrogazione della sanzione (inflitta il 5 novembre 2011).

4. Al rigetto del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 31-07-2012, n. 13620

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Svolgimento del processo
Gli avvocati C.E., P.M. e G. S., pronunciato in data 19-5-2005 il lodo con il quale avevano definito quali componenti del Collegio Arbitrale la controversia insorta tra la s.r.l. P. dello S. e la s.r.l. C. C., dopo aver comunicato alle parti il suddetto lodo e l’ordinanza del 25-9-2003 con la quale avevano quantificato il proprio onorario in complessivi Euro 120.000,00, chiedevano al Presidente del Tribunale di Messina la liquidazione dei propri compensi nella predetta misura.
Si costituiva in giudizio la società C. C. assumendo che il compenso avrebbe dovuto essere liquidato nella minor somma prevista in base alle tariffe approvate con D.M. 5 ottobre 1994, n. 585.
La società P. dello S. restava contumace.
Il Presidente del Tribunale di Messina con ordinanza del 9-8-2005 liquidava il compenso nella misura richiesta ponendolo in solido a carico delle due suddette società.
Avverso tale ordinanza la società C. C. ha proposto un ricorso articolato in due motivi cui il C., il P. ed il G. hanno resistito con controricorso; la società P. dello S. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
La seconda sezione di questa Corte con ordinanza dell’11-8-2011 ha rimesso il ricorso al Primo Presidente ai fini dell’eventuale rimessione alle Sezioni Unite, sollecitando un ripensamento del convincimento espresso dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza del 3-7-2009 n. 15586 secondo cui l’ordinanza con la quale il Presidente del Tribunale decide sulla domanda da parte di ciascun componente del Collegio Arbitrale di determinazione del compenso ai sensi dell’art. 814 c.p.c., comma 2, secondo la formulazione previgente alla novella di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, è priva della vocazione al giudicato e, dunque, insuscettibile di impugnazione con ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost..
Motivi della decisione
La sopra menzionata ordinanza della seconda sezione civile di questa Corte, a sostegno della prospettata opportunità di una rimeditazione della questione sopra enunciata, evidenzia la perplessità suscitata dal passaggio argomentativo della sentenza delle Sezioni Unite già richiamata con cui si è fatto ricorso all’art. 1339 cediti ordine all’inserzione automatica di clausole, ed all’art. 1349 c.c., in tema di determinazione dell’oggetto del contratto; invero ben diverso è il meccanismo individuato dal codice civile che consente alle parti di rivolgersi al Tribunale per ottenere la determinazione della prestazione che non sia stata effettuata dal terzo cui esse avevano deferito tale compito in contratto, mentre nel dispositivo previsto dall’art. 814 c.p.c. tale potere è sottratto alle parti, e sono gli arbitri, in caso di non accettazione della determinazione del proprio compenso, a rivolgersi al Presidente del Tribunale per ottenere un suo provvedimento; in tal caso i quindi non si profilerebbe un intervento del giudice su richiesta diretta delle parti contraenti al fine di conseguire un arbitraggio, ma si tratterebbe dell’iniziativa del terzo (l’arbitro),quale parte contrapposta al litigante che ha stipulato il compromesso arbitrale, per conseguire il pagamento di una prestazione propria.
Secondo l’ordinanza di rimessione, inoltre, prova della natura contenziosa della determinazione quantitativa affidata all’organo giurisdizionale si desumerebbe anche da un’intima contraddizione della sentenza delle Sezioni Unite, che in un inciso finale lascia aperta agli arbitri la strada alternativa del ricorso all’ordinario giudizio di cognizione per ottenere il medesimo risultato: invero in tal modo si ammette che la determinazione del compenso per gli arbitri sia ancora sottomessa all’intervento giurisdizionale, pur se esercitato nelle forme snelle del procedimento speciale e con i conseguenti rimedi, riconducibili al ricorso straordinario per cassazione, che è invece stato negato dalla pronuncia delle Sezioni Unite, e a conforto di questa seconda ipotesi ricostruttiva si pone la palese configurabilità del contrasto di interessi tra gli arbitri e le parti nei confronti delle quali viene sancito l’obbligo di pagamento con la relativa quantificazione.
L’ordinanza suddetta inoltre rileva che la natura giurisdizionale del procedimento non può essere negata per il fatto che sia stato prospettato un più agile procedimento per ottenere la decisione, atteso che la previsione normativa dell’obbligo di "sentire te parti" è coerente con un procedimento giurisdizionale sommario, finalizzato all’accertamento del diritto al compenso, con contraddittorio semplificato.
Sotto ulteriore profilo l’ordinanza menzionata evidenzia l’ampiezza dell’accertamento sollecitato, posto che la statuizione richiesta al Presidente del Tribunale non può limitarsi alla determinazione quantitativa, lasciando aperte le questioni relative alla spettanza del diritto; infatti il Presidente del Tribunale deve in ogni caso compiere almeno una verifica minima per stabilire se i soggetti che gli si rivolgono siano stati nominati arbitri e se abbiano prestato l’opera, essendo inconcepibile un obbligo di emettere il provvedimento a fronte di una richiesta di sedicenti arbitri non assistita da documentazione; del resto è concettualmente di difficile configurazione un procedimento ex art. 814 c.p.c. che sia applicabile solo in assenza di contestazioni sull’"an debeatur", essendo invece la mancata accettazione da parte dei contendenti l’unico limite alla facoltà degli arbitri di adire il giudice posto dall’art. 814 c.p.c..
Infine l’ordinanza suddetta assume che la natura non contenziosa del procedimento ex art. 814 c.p.c. prospettata dalle Sezioni Unite si porrebbe in contrasto con la necessità di difesa tecnica delle parti.
La richiamata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte, nell’esaminare la questione dell’ammissibilità del ricorso ex art. 111 Cost. avverso l’ordinanza adottata dal Presidente del Tribunale ai sensi dell’art. 814 c.p.c., comma 2 nella formulazione antecedente alla entrata in vigore della nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha preso le mosse dalla individuazione della finalità e, quindi, della natura del procedimento in oggetto, dovendosi accertare se esso riguardi l’accertamento di un diritto di credito ovvero la sola liquidazione del suo ammontare; in tale contesto, premesso che gli arbitri sono parte di un contratto con il quale le controparti attribuiscono loro, che l’accettano, l’incarico di risolvere una vertenza insorta tra le stesse, ha evidenziato la peculiarità della convenzione, nella quale frequentemente le parti, attesa la difficile prevedibilità dell’impegno in termini di attività personale e collegiale necessarie alla risoluzione della vertenza, non possono stabilire e non stabiliscono, in via preventiva all’atto della stipulazione, non tanto l’oggetto dell’obbligazione dei conferenti (che sono la remunerazione dell’attività degli arbitri ed il rimborso delle spese u sostenute), ma piuttosto la loro determinazione quantitativa o i criteri per effettuarla, eventualmente anche tramite deferimento ad un terzo ex art. 1349 c.c., comma 1; orbene in vista di tale frequente evenienza il legislatore, onde fornire agli arbitri un’agevole alternativa di sollecito accertamento del "quantum debeatur" a fronte dell’ordinario giudizio ex art. 2233 c.c., comma 1 altrimenti esperibile, ha previsto, nel primo periodo dell’art. 814 c.p.c., comma 2, che gli arbitri, una volta compiuto l’incarico, possano redigere un atto contenente le proprie pretese di rimborsi e compensi, rispettivamente per spese ed onorari, e, quindi, sottoporlo alle controparti; tale iniziativa risulta configurata dalla norma quale proposta che, lasciando i destinatari liberi d’accettarla o meno, non è per essi vincolante, onde, nell’ipotesi di mancata accettazione, non produce alcun effetto; in tal caso il secondo periodo dell’art. 814 c.p.c., comma 2, prevede che l’ammontare delle spese e dell’onorario sia determinato dal Presidente del Tribunale, con ciò sostanzialmente predisponendo una clausola che automaticamente si inserisce nel contratto di arbitrato ex art. 1349 c.c..
La suddetta sentenza delle Sezioni Unite di questa stessa Corte ha a tal punto rilevato che una interpretazione non solo letterale ma anche sistematica di tale normativa regolatrice del procedimento in esame evidenzia come lo stesso risulti dunque finalizzato non all’accertamento del diritto soggettivo al rimborso delle spese ed alla percezione degli onorari – già riconosciuto "ex lege" e comunque non contestato – bensì alla sola determinazione quantitativa, da parte del Presidente del Tribunale, dell’entità economica delle pretese fatte valere dagli arbitri; l’attività di tale organo risulta pertanto non di natura giurisdizionale contenziosa, bensì di natura essenzialmente privatistica, svolta nell’ambito di un procedimento di giurisdizione non contenziosa, all’esito del quale è espressa, conseguentemente, una manifestazione di volontà priva della vocazione al giudicato, in quanto con essa nè si incide su diritti soggettivi nè viene risolto un conflitto tra le parti; sotto un primo profilo, infatti, deve tenersi presente che oggetto della decisione rimessa al Presidente del Tribunale non è l’accertamento del diritto degli arbitri a percepire il compenso, bensì il semplice interesse di essi alla mera determinazione dell’entità pecuniaria di tale diritto; sotto il secondo profilo è rilevante osservare che il Presidente del Tribunale potrebbe essere direttamente adito dagli arbitri con la sola istanza di determinazione e senza previo esperimento del tentativo d’accordo con le controparti; pertanto il Presidente del Tribunale non è affatto condizionato dall’eventuale predisposizione della parcella predisposta dagli arbitri, i termini della quale possono nella decisione rimessagli trovare confermala anche variazioni in "melius" ovvero in "pejus".
La sentenza in esame ha quindi ritenuto che il provvedimento presidenziale in oggetto non riveste un carattere decisorio, ma ha funzione sostitutiva di un’attività negoziale omessa dalle parti.
Sotto ulteriore profilo, attinente al rito, la pronuncia in oggetto ha affermato che il procedimento disciplinato dall’art. 814 c.p.c. si discosta, al pari di altri numerosi procedimenti camerali non contenziosi, dalle regole formati del processo, non prevedendo la suddetta norma la costituzione di un formale contraddittorio tra le parti, ma solo la partecipazione degli interessati "per essere sentiti", nè sussistendo tra costoro un litisconsorzio necessario, attesa la natura solidale dell’obbligazione da parte del debitore e la parziarietà della stessa da parte del creditore.
In definitiva la sentenza menzionata ha escluso la ricorribilità in cassazione ex art. 111 Cost. dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 814 c.p.c., vertendosi in tema di determinazione stragiudiziale integrativa della volontà delle parti, ad opera del terzo arbitratore, dell’entità economica, non predeterminata contrattualmente, di una prestazione contrattuale già resa, e non di provvedimenti giurisdizionali decisori e definitivi, mentre il titolo di formazione stragiudiziale ex art. 814 c.p.c. può essere utilmente contestato, con tutte le garanzie della giurisdizione, mediante le opposizioni all’esecuzione.
Sulla base di tali premesse deve ritenersi che la suddetta sentenza di questa stessa Corte a sostegno dei convincimento maturato ha offerto una serie di approfondite argomentazioni articolate su diversi profili di lettura dell’art. 814 c.p.c., nella formulazione antecedente alla novella introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di ordine sia letterale sia sistematico, affrontando i vari aspetti di diritto processuale ed anche sostanziale che l’esame della norma in oggetto sollecita all’interprete.
A fronte di tale pronuncia occorre riconoscere che l’opportunità di una rimeditazione della questione in ordine alla ricorribilità o meno ex art. Ili della Costituzione dell’ordinanza del Presidente del Tribunale emessa ai sensi dell’art. 814 c.p.c., segnalata dall’ordinanza di rimessione della seconda sezione civile di questa Corte,è sostenuta da una pluralità di meditati rilievi che ripercorrono in maniera critica tutti i principali passaggi della pronuncia menzionata e che sono certamente degni di attenta disamina.
Nondimeno il Collegio ritiene di dover confermare l’orientamento espresso con la pronuncia del 3-7-2009 n. 15586 per un diverso ordine di considerazioni, attinenti all’esigenza di assicurare un sufficiente grado di stabilità agli indirizzi giurisprudenziali formatisi riguardo alla interpretazione di norme che, come l’art. 814 c.p.c., presentano in proposito dei margini di opinabilità.
Invero, benchè non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello "stare decisis", essa tuttavia costituisce un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente all’ordinamento, in base alla quale non ci si può discostare da una interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione nomofilattica, senza delle forti ed apprezzabili ragioni giustificative.
In tale ottica occorre rilevare che una diversa interpretazione giurisprudenziale di una norma di legge rispetto a quella precedentemente affermatasi non ha ragione di essere allorchè entrambe siano compatibili, come nella fattispecie, con la lettera della legge, essendo da preferire l’interpretazione sulla cui base si è formata una certa stabilità di applicazione.
Tale rilievo appare tanto più pertinente in materia di interpretazione di norme processuali, come appunto nella fattispecie, dove l’esigenza di un adeguato grado di certezza si manifesta con maggiore evidenza, non potendo l’utente del servizio giustizia essere esposto al rischio di frequenti modifiche degli indirizzi giurisprudenziali con evidenti gravi ripercussioni sulla effettiva tutela dei propri diritti pur garantita dall’art. 24 Cost.; in tal senso deve pure considerarsi che la sentenza di questa Corte in ordine alla quale è stata sollecitata una nuova riflessione è stata pronunciata in epoca piuttosto recente.
Infine deve ritenersi che, come affermato anche di recente, la regola dello "stare decisis" è stata valorizzata anche dalla novella di cui alla L. 18 giugno 2009, n. 69 che, nell’introdurre nell’ordinamento L’art. 360 "bis" c.p.c. (che sancisce l’inammissibilità del ricorso quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa), ha accentuato maggiormente l’esigenza di non cambiare l’interpretazione della legge in difetto di apprezzabili fattori di novità (Cass. S.U. 5-5-2011 n. 9847), in una prospettiva di limitazione dell’accesso al giudizio di legittimità coerente con l’esercizio della funzione nomofilattica; è appena il caso di rilevare che il richiamo a tale ultima disposizione, non applicabile nel presente giudizio "ratione temporis", viene valorizzato soltanto per evidenziare un ulteriore elemento di riscontro nell’ordinamento al principio sopra affermato sulla sussistenza di limiti oggettivi alla modificazione degli orientamenti giurisprudenziali del giudice di legittimità.
Pertanto, ritenendosi di dover confermare per ragioni esposte il convincimento espresso con la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte del 3-7-2009 n. 15586, deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese di giudizio, avuto riguardo alla circostanza che il ricorso in oggetto è stato proposto in epoca antecedente alla menzionata sentenza di questa Corte che ha ritenuto l’inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. avverso l’ordinanza del Presidente del Tribunale emessa ai sensi dell’art. 814 c.p.c..
P.Q.M.
La Corte:
Dichiara inammissibile il ricorso e compensa interamente tra le parti le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 19 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2012
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.