Cass. pen., sez. I 22-12-2008 (02-12-2008), n. 47529 Notifica all’imputato dell’avviso di conclusione delle indagini – Omissione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
1. Con ordinanza in data 21.11.2007 il Tribunale di Torino in composizione monocratica, accogliendo l’eccezione proposta preliminarmente in tale udienza da gli imputati B.D. e D.L.V., dichiarava la nullità della notifica dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p., ordinando la restituzione degli atti al P.M. per procedere ritualmente all’incombente. In particolare detto avviso era stato notificato inutilmente in altro luogo (presso altra ditta) e quindi mediante consegna al difensore ex art. 161 c.p.p., comma 4, mentre i due imputati avevano entrambi fatto elezione di domicilio.
2. Avverso tale ordinanza, chiedendone l’annullamento, proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Torino che motivava il gravame deducendo violazione di legge ed in particolare l’abnormità dell’impugnata ordinanza in quanto la nullità dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p. sarebbe nullità relativa che gli imputati avrebbero dovuto eccepire, ex art. 181 c.p.p., comma 1 alla prima udienza (tenuta il 09.07.2007) entro il limite di cui all’art. 491 c.p.p., comma 1, e dunque risulterebbe nella fattispecie sanata;
si era così realizzata un indebito regresso del procedimento.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte depositava quindi requisitoria con la quale richiedeva l’annullamento dell’impugnato provvedimento sul rilievo che, effettivamente, la deduzione di nullità dell’avviso di chiuse indagini avrebbe dovuto essere sollevata alla prima udienza davanti al Tribunale (il 09.07.2007) nella quale le difese si limitarono a sollevare la nullità della citazione per quella udienza, così sanando la nullità dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p..
4. La difesa degli imputati in data 12.11.2008 depositava memoria di replica con la quale la stessa rilevava come non potesse essersi verificata sanatoria in quanto alla prima udienza (quella del 09.07.2007) non si era realizzato valido contraddittorio e le difese erano comparse solo per far rilevare la nullità della notifica agli imputati per quell’udienza; in definitiva la verifica, nel caso negativa, della regolare costituzione del contraddittorio impediva l’esplicazione di ogni altra questione preliminare. Peraltro la nullità dell’avviso e art. 415 bis c.p.p. – argomenta detta difesa – doveva comunque essere fatta d’ufficio dal giudice.
5. Il ricorso del Procuratore della Repubblica di Torino, infondato, deve essere respinto.
Va invero, e dapprima, rilevato come "la nullità conseguente all’omessa notifica all’imputato dell’avviso di conclusione delle indagini ex art. 415 bis c.p.p. non integri una nullità assoluta ed insanabile, in quanto non riguarda la citazione dell’imputato stesso, bensì una nullità a regime intermedio con la conseguenza che essa deve essere eccepita, o rilevata d’ufficio, fino alla deliberazione della sentenza di primo grado" ex art. 180 c.p.p. (così, secondo la tesi preferibile e maggioritaria, cfr. Cass. Pen. Sez. 2, n. 13477 in data 06.03.2008, Rv. 239751, Prinno; n. 29931/2006, Rv. 235149;
ecc.). In tal senso va quindi ritenuta infondata la proposizione della ricorrente Accusa secondo cui la difesa sarebbe decaduta dalla possibilità di eccepire la questione, per esservi stata una precedente udienza (circostanza che avrebbe teorico rilievo ove si ritenesse una nullità relativa ex art. 181 c.p.p., da eccepire entro i limiti dell’art. 491 c.p.p., comma 1). Va poi rilevato come, sempre secondo preferibile e più recente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. Pen. Sez. 3, n. 26770 in data 28.05.2008, Rv. 240272, P.M. Amatucci; n. 16212/2005, Rv. 233591; n. 40230/2006, Rv. 235808;
ecc.) "non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice del dibattimento, rilevata la mancata notificazione all’imputato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dichiari la nullità del decreto di citazione a giudizio, disponendo la restituzione degli atti al P.M., dal momento che la dichiarazione di invalidità, ove pure insussistente, è esercizio dei poteri propri del giudice, e dunque non colloca l’atto fuori del sistema processuale". Tanto ritenuto, è di tutta conseguenza che il ricorso debba essere rigettato, in quanto infondato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione Lavoro, Sentenza 21215 del 2010 Il dipendente che non sta bene puo’ tornare a casa su consiglio colleghi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

La Corte d’appello del L’Aquila, pronunciando su rinvio di questa Corte (Cass. 27 febbraio 2004 n. 4061), ha confermato, con sentenza depositata in data 28 dicembre 2005, la decisione di primo grado del Tribunale del lavoro di Larino del 14 giugno 2001, che aveva annullato il licenziamento intimato da [omissis] al proprio dipendente operaio [omissis] con lettera del 12 novembre 1992 (per assenza ingiustificata dal lavoro dal precedente giorno 6 novembre), con le conseguenze di cui all’art. 18 S.L. e aveva condannato la società a pagare al [omissis] determinati importi, a titolo di risarcimento del danno emergente, del danno biologico e del danno morale.

In particolare, quanto al licenziamento, la Corte territoriale ha anzitutto richiamato il principio affermato da questa Corte suprema in sede di accoglimento del secondo motivo del ricorso per cassazione del [omissis], secondo cui “Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato”.

I giudici di appello, valutando conseguentemente gli atti, hanno quindi espresso seri dubbi sulla effettiva gravità della mancanza che aveva condotto al licenziamento del [omissis], ponendo in evidenza:

a) che la società poteva avere interesse ad approfittare dell’assenza del dipendente per liberarsi di lui, che era reduce da una lunga assenza per un grave infortunio sul lavoro imputabile alla responsabilità della datrice di lavoro;

b) che la stessa non aveva dedotto e provato alcun elemento utile per valutare la gravità del fatto, come sarebbe stato suo onere ai sensi dell’art. 2697 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 5;

c) e non aveva esposto le ragioni per cui le mancanze contestate al lavoratore avrebbero cagionato la perdita di fiducia, alla luce delle mansioni affidate al lavoratore e all’eventuale incidenza della sua assenza sulla funzionalità aziendale;

d) che, comunque, il comportamento tenuto nella circostanza dal lavoratore poteva ritenersi giustificato, su di un piano di buona fede, dal fatto che questi era reduce da un grave infortunio e aveva denunciato disturbi in atto, tanto che alcuni colleghi (sia pure non autorizzati a concedergli permessi) gli avevano consigliato di ritornare a casa, sicché egli aveva potuto ritenere di essere in permesso o comunque assente giustificato quel giorno e nei giorni immediatamente successivi, non essendo stato poi avvisato dalla società del fatto che essa lo ritenesse viceversa assente ingiustificato.

Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la società [omissis], con cinque motivi.

Resiste alle domande [omissis] con rituale controricorso.

Motivi della decisione

1 – Col primo motivo di ricorso, la società deduce la violazione dell’art. 132 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza impugnata.

La ricorrente lamenta infatti l’assenza in quest’ultima della indicazione delle conclusioni rese dalle parti in tale sede di riassunzione nonché della data di deliberazione della sentenza stessa.

2 – Col secondo motivo di ricorso, viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonché dell’art. 2697 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 5.

Censurando il fatto che la società non avrebbe dedotto e provato elementi utili per la valutazione della gravità del fatto, la Corte territoriale avrebbe infatti anzitutto violato l’art. 112 c.p.c., in quanto nei precedenti gradi di giudizio mai il lavoratore avrebbe eccepito il mancato assolvimento di un tale onere probatorio.

La censura sarebbe altresì errata in quanto sarebbe stato onere della datrice di lavoro in un caso come il presente, di assenza ingiustificata del lavoratore, dedurre e provare unicamente questa nella sua obiettività, mentre costituirebbe onere del lavoratore dimostrane la possibile giustificazione.

3 – Col terzo motivo, la ricorrente lamenta il vizio della motivazione della sentenza, la quale illogicamente, senza riscontro negli atti di causa e senza indicare le fonti del proprio convincimento, aveva ritenuto, in maniera stringata e meramente assertiva, come di buona fede il comportamento del [omissis] che aveva dato luogo al licenziamento dello stesso.

4 – Col quarto motivo, la società denuncia l’omessa motivazione della sentenza in ordine alla mancata indicazione del titolo, contrattuale o extra contrattuale fatto valere in giudizio per il risarcimento danni, necessaria in ragione della diversa regola relativa alla ripartizione dell’onere probatorio.

Inoltre nella sentenza mancherebbe ogni motivazione in ordine alla mancanza di prova relativamente al danno biologico e morale liquidato dalla sentenza di primo grado, confermata da quella impugnata.

5 – Col quinto motivo, condizionato al rigetto di quelli che investono la ritenuta legittimità del licenziamento, la ricorrente censura l’omessa motivazione della sentenza relativamente all’ordine di reintegra nel posto di lavoro, al risarcimento del danno e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.

La società deduce inoltre che la Corte territoriale non avrebbe fornito alcuna risposta alla deduzione di inidoneità del lavoratore, per ragioni di salute, a riprendere il lavoro, formulata dalla società con una richiesta di C.T.U. disattesa dal giudice di prime cure, al fine di dedurne l’impossibilità della reintegrazione (con conseguente incidenza anche sull’ammontare del risarcimento danni).

Infine la Corte, secondo la ricorrente, avrebbe omesso di accertare l’aliunde perceptum e percipiendum da sottrarre dall’ammontare del risarcimento.

Il ricorso conclude pertanto con la richiesta di annullamento della sentenza impugnata.

6 – Nel controricorso, il [omissis] deduce l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366-bis c.p.c..

Nel merito deduce l’infondatezza del ricorso di cui chiede il rigetto.

7 – Preliminarmente va disattesa la deduzione di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366-bis c.p.c..

Tale norma (oggi abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), con effetto sui ricorsi per cassazione proposti avverso sentenze pubblicate successivamente alla data del 3 luglio 2009, ai sensi dell’art. 58, comma 5 della medesima legge) era infatti applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data del 1 marzo 2006, ai sensi del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, artt. 6 e 27, comma 2.

Poiché nel caso in esame il ricorso è stato proposto avverso una sentenza pubblicata il 28 dicembre 2005, la norma processuale invocata non era ad esso applicabile ratione temporis.

8 – Nel merito, il ricorso è infondato.

Con riguardo al primo motivo di ricorso, costituisce infatti orientamento costante di questa Corte l’affermazione secondo cui “la mancata o incompleta trascrizione nella sentenza delle conclusioni delle parti costituisce, di norma, una semplice irregolarità formale irrilevante ai fini della sua validità, occorrendo, perchè siffatta omissione od incompletezza possa tradirsi in vizio tale da determinare un effetto invalidante della sentenza stessa, che l’omissione abbia in concreto inciso sull’attività del giudice, nel senso di averne comportato o una omissione di pronuncia sulle domande o sulle eccezioni delle parti, oppure un difetto di motivazione in ordine a punti decisivi prospettati” (cfr., per tutte, Cass. 23 febbraio 2007 n. 4208).

Poiché nel caso in esame, come risulterà altresì dall’esame degli ultimi due motivi di ricorso, è esclusa una tale incidenza sull’attività della Corte d’appello, la censura in esame non ha pregio.

Costituisce inoltre orientamento altrettanto uniforme di questa Corte il rilievo secondo cui “Anche nelle controversie di lavoro, l’indicazione della data di deliberazione della sentenza non è (a differenza dell’indicazione della data di pubblicazione, che ne segna il momento di acquisto della rilevanza giuridica) elemento essenziale dell’atto processuale, e la sua mancanza non integra, pertanto, gli estremi di alcuna ipotesi di nullità deducibile con l’impugnazione” (cfr., ad es. Cass. 12 maggio 2005 n. 9968).

Il secondo e il terzo motivo di ricorso vanno esaminati congiuntamente. Le relative censure investono infatti alternative, autonome motivazioni di sostegno alla decisione della Corte territoriale di conferma della valutazione di illegittimità del licenziamento del [omissis] e pertanto il rigetto anche di una sola di esse, rende superfluo l’esame delle altre.

Di tali censure sicuramente infondata è quella di cui al terzo motivo di ricorso, che investe la motivazione della sentenza in ordine alla valutazione dei fatti che avevano condotto al licenziamento e alla loro rilevanza sul piano del rapporto fiduciario in base alla loro rappresentazione in giudizio.

In proposito, va qui ribadito che il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata.

Il vizio di motivazione non può viceversa consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove operato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (cfr., per tutte, recentemente Cass. 26 marzo 2010 n. 7394 e 6 marzo 2008 n. 6064).

Nel caso in esame, la Corte territoriale ha ritenuto, sia pure con motivazione stringata, sulla base delle prove acquisite in ordine ai fatti di causa, che il comportamento del lavoratore di abbandono del lavoro per motivi di salute il venerdì alle ore 14,00 e di prolungamento dell’assenza dal lavoro per i primi tre giorni della settimana successiva poteva ritenersi giustificato su di un piano di buona fede dal fatto che il [omissis] era reduce da un grave infortunio e aveva denunciato al momento dell’abbandono disturbi in atto, tanto che alcuni colleghi (sia pure non autorizzati a concedergli permessi) gli avevano consigliato di ritornare a casa, sicché egli aveva potuto ritenere di essere in permesso o comunque assente giustificato quel giorno e nei giorni immediatamente successivi, non essendo stato poi avvisato dalla società, a conoscenza dell’allontanamento, del fatto che essa lo riteneva viceversa assente ingiustificato.

Un tale accertamento è investito dalla cesura di arbitrarietà, in quanto senza riscontro negli atti di causa e di illogicità, ma tale censura è in realtà svolta enucleando dal materiale istruttorio acquisito elementi che non incidono sulla valutazione dei giudici di merito interrompendone la consequenzialità logica o determinandone una interna contraddittorietà, quali l’aver trascurato o completamente travisato un fatto controverso avente il carattere della decisività in senso opposto a quello ritenuto dalla Corte.

Ne consegue che la censura in esame si risolve nel tentativo di sovrapporre alle valutazioni dei giudici di merito proprie opposte valutazioni, fondate sul medesimo materiale probatorio, in quanto ritenute in grado di spiegare meglio il reale andamento dei fatti e stabilirne la effettiva rilevanza sul piano considerato.

Il che, come già rilevato, non appare consentito proporre al controllo di legittimità delle sentenze, risolvendosi in un diverso apprezzamento dei fatti e delle prove, riservato al giudizio di merito.

Anche gli ultimi due motivi di ricorso sono manifestamente infondati.

In violazione della regola della autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui cfr., anche recentemente, Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09), la ricorrente omette infatti, in alcuni casi, di riferire se ha ritualmente svolto le censure in esame in sede di giudizio di riassunzione e comunque non ne riproduce mai in maniera specifica il contenuto, necessario per consentire a questa Corte di valutare la rilevanza e decisività dei vizi denunciati.

Concludendo, alla stregua delle considerazioni svolte il ricorso va respinto.

L’alternanza di decisioni nelle fasi precedenti al giudizio di cassazione consiglia l’integrale compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese di questo giudizio.

Depositata in Cancelleria il 14.10.2010

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Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-02-2011, n. 3458 Danno

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Svolgimento del processo

La F.lli Staffissi s.n.c., propone ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Perugia dell’11/9/08, notificata il 29/10/08, che ha rigettato il gravame da essa proposto contro la pronuncia di primo grado, che la aveva condannato al risarcimento, in favore di D.V.R., dei danni da questi subiti, liquidati in Euro 118.785, oltre accessori, a seguito di un sinistro avvenuto in Guidonia presso area di proprietà della Luzi S.p.A (poi trasformata in Alstom Ferroviaria S.p.A.), durante le operazioni di sistemazione di un carico di tubi, destinato ad altra ditta, commissionato ad esso vettore dalla Winsider s.r.l.

Resiste con controricorso il D.V.. Si è altresì ritualmente costituita la Alstom Ferroviaria S.p.A., mentre la Wilsider s.r.l. non ha svolto attività difensiva.

In data 2/11/09 la Alstom Ferroviaria S.p.A. ha chiesto l’interruzione del procedimento, rappresentando che la F.lli Staffissi s.n.c. sarebbe stata cancellata dal Registro delle Imprese per cessazione della attività sin dal 5/4/08.

Il Presidente ha dichiarato non esservi luogo a provvedere sull’istanza.

Motivi della decisione

1.- Va ribadito che, nel giudizio di cassazione, dominato dall’impulso d’ufficio, non trova applicazione l’istituto dell’interruzione del processo per uno degli eventi previsti dagli artt. 299 e segg. cod. proc. civ. (SS.UU. 14385/07).

L’eventuale estinzione della società ricorrente è perciò irrilevante.

2.- La controricorrente Alstom Ferroviaria eccepisce preliminarmente l’inammissibilità del ricorso, per difetto di specialità della procura, posta a margine del ricorso.

2.1.- L’eccezione è infondata. Questa Corte ha infatti affermato che il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione, essendo per sua natura speciale, non richiede ai fini della sua validità alcuno specifico riferimento al giudizio in corso, sicchè risultano irrilevanti sia la mancanza di uno specifico richiamo al giudizio di legittimità sia il fatto che la formula adottata faccia cenno a poteri e facoltà solitamente rapportabili al giudizio di merito (Cass. 26504/09).

3.- Con il primo motivo la ricorrente lamenta vizio di motivazione e violazione o falsa applicazione dell’art. 1687 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, senza motivazione riguardo alle censure svolte riguardo alla pronuncia di primo grado, avrebbe ritenuto che tra gli obblighi del vettore vi fosse nella specie anche quello di provvedere allo scarico ed al ricarico della merce trasportata mentre, con il secondo motivo, sotto i profili del vizio di motivazione e della violazione o falsa applicazione dell’art. 1687 c.c., nonchè della L. n. 298 del 1974 e del D.P.R. n. 56 del 1978, come modificati dal D.M. 7 dicembre 1983, assume che la fattura emessa nei confronti della Winsider s.r.l. non comprendeva alcun corrispettivo per carichi e/o scarichi intermedi, a dimostrazione della insussistenza di qualsiasi suo obbligo al riguardo.

3.1.- I due motivi sono inammissibili.

La sentenza impugnata non è infatti fondata solamente sull’assunto – censurato con i due motivi – che il vettore dovesse provvedere al carico e allo scarico della merce trasportata, ma anche (pag. 16) sulla circostanza che il suo autista avesse, "di fatto, assunto la direzione di tutte le operazioni inerenti".

Tale seconda ratio decidendi è del tutto ignorata dalla società ricorrente, il che rende inammissibili le censure relative alla sola prima ratio.

4.- Con il terzo motivo, sotto il profilo del vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui non avrebbe pronunciato riguardo alle argomentazioni di esso appellante circa la divergenza tra le dichiarazioni del D.V., rese in sede di interrogatorio formale, e le deposizioni dei testi C. e P. e comunque riguardo alla inattendibilità dei testi stessi.

4.1.- Il terzo motivo è infondato.

Il giudice – che ha comunque ampiamente motivato sull’attendibilità dei testi P. e C. – non ha l’obbligo di dare specifico conto delle censure mosse ai testi da taluna delle parti e della sua conseguente decisione, essendo questa implicita nell’or di valutazione delle prove.

5.- Il ricorso va pertanto rigettato, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese in favore del D.V. e della Alstom Ferroviaria S.p.A., nella misura per ciascuno di Euro 5.200, di cui Euro 5.000 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore del D.V. e della Alstom Ferroviaria S.p.A., nella misura per ciascuno di Euro 5.200, di cui Euro 5.000 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

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Cass. civ. Sez. III, Sent., 10-03-2011, n. 5700 Societa’ di intermediazione mobiliare

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Svolgimento del processo

La Zeus Sim s.p.a., società di intermediazione immobiliare autorizzata – nel vigore della L. n. 1 del 1991 – a svolgere l’attività di consulenza in materia di valori mobiliari, ha presentato – in data 13 febbraio 1996 – alla Consob istanza di estensione della autorizzazione per essere – in particolare – autorizzata a esercitare anche le attività di cui alle lett. c) (gestione di patrimoni), d) (raccolta di ordini di acquisto o di vendita di valori mobiliari) e f) (sollecitazione del pubblico risparmio) ai sensi della L. n. 1 del 1991, art. 1, comma 2.

Non essendo intervenuta la richiesta autorizzazione, con atto 20 marzo 1997 la Zeus Sim ha convenuto in giudizio innanzi al tribunale di Firenze la Consob chiedendo che, dichiarato illegittimo il comportamento tenuto dalla convenuta, quest’ultima fosse condannata a risarcire i danni subiti consequenzialmente da essa attrice, nella misura ritenuta di giustizia, eventualmente, mediante condanna generica.

Costituitasi in giudizio la Consob ha resistito alle avverse domande chiedendone il rigetto, atteso, da una parte, che non era configurabile una responsabilità ex art. 2043 c.c. della pubblica amministrazione, per avere essa concludente svolto con puntualità e precisione l’esame dei presupposti vantanti dalla Zeus Sim per la concessione della autorizzazione richiesta, dall’altra, che l’inerzia della controparte nell’assumere le iniziative giudiziarie consentite avverso gli atti (o omissioni) della Consob ritenute illegittime non poteva essere superata con l’attribuzione di responsabilità risarcitorie a carico della Commissione, da ultimo e che mancava ogni nesso causale tra i danni lamentati e l’attività istituzionale di essa concludente e che – comunque – non esisteva prova del danno reclamato.

Svoltasi l’istruttoria del caso l’adito tribunale con sentenza 11 gennaio 2002 pur dichiarando la illegittimità del comportamento della Consob ne ha escluso la responsabilità risarcitoria, con rigetto delle domande attrici, compensate le spese di lite.

Gravata tale pronunzia in via principale dalla Zeus Sim s.p.a. e, in via incidentale, dalla Commissione Nazionale per la Società e la Borsa, la Corte di appello di Firenze, con sentenza 1 agosto 2005 ha rigettato l’appello principale, con condanna di parte Zeus Sim al pagamento delle spese del grado.

Per la cassazione di tale ultima pronunzia ha proposto ricorso la Zeus Sim s.p.a., affidato a 6 motivi e illustrato da memoria.

Resiste, con controricorso la Commissione Nazionale per la Società e la Borsa.
Motivi della decisione

1. La richiesta formulata dalla Zeus per la autorizzazione all’esercizio delle attività di intermediazione di cui alla L. n. 1 del 1991, art. 1, lett. c, d e f, – hanno evidenziato i giudici di appello – pervenne alla Consob in data 13 febbraio 1996, ma poichè la stessa era carente del decreto del tribunale di Firenze, di omologazione della deliberazione dell’assemblea straordinaria di modifica dell’oggetto sociale, richiesto dall’art. 8 del regolamento Consob n. 5386 del 1991, ai sensi dell’art. 4, comma 6, lett. C di detto regolamento, il termine di 90 giorni previsto dalla L. n. 1 del 1991, art. 9, comma 11, per l’adozione del provvedimento richiesto ha iniziato a decorrere dalla data di ricevimento del decreto di omologazione del Tribunale, e cioè dal 1 marzo 1996.

Quindi, hanno altresì evidenziato i giudici di secondo grado:

– in data 11 marzo 1996 la Commissione ha richiesto un parere alla Banca d’Italia, e la comunicazione della Consob alla Zeus in data 20 maggio 1996 di essere in attesa, dell’indicato parere ha determinato, ai sensi dell’art. 9, comma 11, della legge indicata, una proroga di 30 giorni del termine di durata del procedimento istruttorie, a far data dalla ricezione del parere, che è stato reso in data 24 giugno 1996, con conferma dei dubbi sul rispetto dei requisiti patrimoniali minimi;

– in data 1 luglio 1996 la- Consob ha comunicato alla Zeus il rigetto dell’istanza.

Deriva da quanto precede – hanno ancora precisato i giudici di appello – che:

– il provvedimento, da ritenere legittimo perchè mai impugnato, ma seguito da altra istanza del 24 luglio 1996, (che nessuna rilevanza può avere ai fini della presente controversia) è stato reso nei termini di legge, che vanno visti nei confronti della Consob e non della Banca d’Italia, come erroneamente ritenuto dal primo giudice;

– con l’ulteriore conseguenza che nessuna responsabilità può essere attribuita alla Consob per l’emissione di un provvedimento negativo, non impugnato, nei termini di legge, e non potendo ottenersi attraverso una domanda di risarcimento danni per comportamento legittimo un risultato analogo a quello che si sarebbe potuto ottenere con la rituale impugnazione del provvedimento ritenuto illegittimo.

Ciò comporta – hanno concluso quei giudici – il rigetto dell’appello, non senza rilevare ulteriormente la carenza di nesso di causalità fra il comportamento della Consob ed il danno pretesamente subito dall’appellante, per la mancata utilizzazione del suo patrimonio informatico e dell’avviamento, ove si consideri che ciò dipende esclusivamente dalla decisione di quest’ultima di porsi in liquidazione, non correlata al comportamento della Consob, poichè la Zeus ben avrebbe potuto continuare a svolgere l’attività di consulenza per la quale era attrezzata e al cui scopo erano stati predisposti patrimonio informatico e avviamento, liberalizzata dallo stesso provvedimento in virtù del quale era stata cancellata dall’albo delle SIM. 2. La ricorrente censura la sentenza impugnata de-nunziando, con il primo motivo, violazione della L. 2 gennaio 1991, n. 1 e, in particolare degli artt. 3 e 9 nonchè del regolamento Consob 2 luglio 1991 n. 5386 e del regolamento della Banca d’Italia 2 luglio 1991 e contraddittoria motivazione su punto essenziale della controversia, atteso, da una parte, che alla data del 1 luglio 1996 allorchè cioè la Consob ha comunicato alla Zeus il rigetto dell’istanza i termini per provvedere erano già decorsi, considerato che non doveva essere sollecitata alcuna opinione della Banca d’Italia, tenuto presente che l’autorizzazione della Consob non è in alcun modo condizionata dalla legge al parere della Banca d’Italia che non ha competenza nella fase della autorizzazione all’intermediazione mobiliare, dall’altra, tenuta presente l’errore della corte di merito nell’affermare che il provvedimento adottato dalla Consob è da ritenere legittimo, perchè mai impugnato, atteso sia che un provvedimento non risulta mai essere stato emanato, sia che esso non potrebbe essere considerato legittimo per il solo fatto di non essere stato impugnato.

3. Il motivo non può trovare, accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

3.1. Quanto, in primis, alle denunziate violazioni di legge si osserva che:

– la L. n. 1 del 1991, art. 3, comma 1, prevede, espressamente – per quanto rilevante al fine del decidere – che la vigilanza sulle società di intermediazione mobiliare è esercitata dalla CONSOB per quanto riguarda gli obblighi di informazione e correttezza e la regolarità delle negoziazioni di valori mobiliari e dalla Banca d’Italia per quanto riguarda i controlli di stabilità patrimoniale;

– la L. n. 1 del 1991, art. 9, comma 11, dispone, ancora, che fatti salvi i diversi termini previsti dalla presente legge e da altre disposizioni di legge, la CONSOB e la Banca d’Italia devono adottare gli atti che per legge o regolamento sono tenute a rilasciare su istanza degli interessati entro novanta giorni dalla ricezione dell’istanza medesima. Detto termine può essere prorogato per non più di due volte e per un massimo di trenta giorni per ciascuna volta a decorrere dalla data di ricezione dei dati e delle notizie richiesti. Quando gli atti di competenza della CONSOB o della Banca d’Italia sono adottati, previo parere di altre autorità, i termini rimangono sospesi tra la data della richiesta di parere e la data di ricezione dello stesso. Gli atti si intendono rilasciati qualora le relative istanze indirizzate alla CONSOB o alla Banca d’Italia non siano espressamente respinte entro i suindicati termini;

– l’articolo 7, della deliberazione della Commissione nazionale per le società e la borsa 2 luglio 1991, n. 5386 (in Suppl. ordinario alla Gazz. Uff. n. 173, del 25 luglio), recante l’approvazione del regolamento di esecuzione di alcune norme della L. 2 gennaio 1991, n. 1 – applicabile nella specie ratione temporis – prevede, infine, in tema di istruttoria della domanda, che la Consob, ricevuta la domanda, provvede all’accertamento dei requisiti previsti dalla legge per il rilascio delle autorizzazioni richieste e per l’iscrizione all’albo, sulla base: … c) degli ulteriori elementi informativi e della ulteriore documentazione che la Consob ritiene di acquisire dalla società richiedente e e) degli ulteriori elementi conoscitivi che la Consob ritiene di acquisire da altri soggetti, anche esteri (comma 1) e che, definita l’istruttoria, la Consob accoglie o respinge la domanda con provvedimento che è comunicato alla società richiedente (comma 3).

Pacifico il quadro normativo (e regolamentare) sopra delineato è palese che i giudici di merito non sono incorsi nelle violazioni di legge denunziate.

Essendo, infatti, indiscusso che la Consob, ricevuta la domanda, provvede all’accertamento dei requisiti previsti dalla legge per il rilascio delle autorizzazioni richieste e per l’iscrizione all’albo, sulla base tra gli altri, degli ulteriori elementi informativi e della ulteriore documentazione che la Consob ritiene di acquisire dalla società richiedente nonchè degli ulteriori elementi conoscitivi che la Consob ritiene di acquisire da altri soggetti è evidente – in contrasto con gli apodittici assunti di parte ricorrente – che la Consob legittimamente ha sollecitato:

– prima, la stessa società ricorrente a integrare (come del resto richiesto dall’art. 8 del regolamento n. 538 6 del 1991) la propria domanda mediante la produzione del decreto del tribunale di Firenze relativo alla omologazione della decisione dell’assemblea straordinaria deliberante la modifica dell’oggetto sociale (fatto pervenire alla Consob il 1 marzo 1996);

– poi (in data 11 marzo 1996), la Banca d’Italia a esprimere un parere sulla domanda di estensione della autorizzazione presentata dalla Zeus.

Sempre al riguardo è pacifico altresì:

– da una parte, che con nota 20 maggio 1996 la Commissione ha comunicato alla Zeus di essere in attesa che quest’ultima fornisse alla Banca d’Italia le sollecitate informazioni, al fine di poter ricevere dall’istituto il richiesto parere;

– dall’altra, che la Banca d’Italia ha provveduto a comunicare il parere in questione il 25 giugno 1996;

– da ultimo, che il 1 luglio 1996 la Consob ha comunicato alla Zeus l’avvenuto rigetto della domanda di ampliamento.

Deve concludersi, pertanto, che il termine di 90 giorni – di cui alla L. n. 1 del 1991, art. 9, comma 11, – decorrente dal 13 febbraio 1996 data nella quale è stata presentata la domanda di ampliamento è stato una prima volta prorogato di trenta giorni con decorrenza dal 1 marzo 1996 (per non avere la Zeus allegato alla domanda il decreto del tribunale di Firenze di omologazione della deliberazione di mutamento del proprio oggetto sociale), mentre, successivamente è rimasto sospeso tra l’11 marzo 1996 e il 25 giugno 1996 in attesa del parere della Banca d’Italia.

Essendo stato adottato il provvedimento finale, di rigetto dell’autorizzazione, il 1 luglio 1996 è palese la infondatezza del primo motivo, prima parte, del ricorso.

3.2. Alla luce di quanto non controverso in giurisprudenza, si osserva che il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza (cfr. art. 366 c.p.c.)- deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. 17 luglio 2007, n. 15952; Cass. 13 giugno 2007, n. 13845).

Non controversi i principi che precedono, è palese che qualora si deduca – come nella specie – che la sentenza oggetto di ricorso per cassazione è censurabile sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per essere sorretta da una contraddittoria motivazione è onere del ricorrente, a pena di inammissibilità, trascrivere, nel ricorso, le espressioni tra loro contraddittorie ossia inconciliabili contenute nella parte motiva della sentenza impugnata che si elidono a vicenda e non permettono, di conseguenza, di comprendere quale sia la ratio decidendi che sorregge la pronunzia stessa.

Poichè nella specie parte ricorrente pur denunziando nella intestazione del motivo in esame "contraddittorietà insanabile della motivazione" si è astenuto, totalmente – nella successiva parte espositiva – dal trascrivere le proposizioni presenti nella sentenza impugnata tra loro contraddittorie, è evidente che nella parte de qua il motivo deve essere dichiarato inammissibile.

4. Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando violazione della L. 2 gennaio 1991, n. 1, art. 9 e dell’art. 4 del regolamento 2 luglio 1991 n. 5586. Violazione della L. 7 agosto 1990, n. 241. Omessa motivazione su punto decisivo della controversia, per avere affermato, che la Consob ha adottato un provvedimento formale di rigetto della propria istanza, totalmente prescindendo dal considerare che la comunicazione inviata, come risulta da due espressioni di questa riportate nel ricorso, hanno contenuto meramente interlocutorio.

5. Il motivo non può trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

5.1. Giusta quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice e da cui senza alcuna motivazione, totalmente prescinde la difesa della parte ricorrente, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata dalla Corte di cassazione).

Viceversa, la allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (in termini, Cass. 5 giugno 2007, n. 13066, nonchè Cass. 20 novembre 2006, n. 24607, specie in motivazione; Cass. 11 agosto 2004, n. 15499, tra le tantissime).

Pacifico quanto precede si osserva che nella specie parte ricorrente pur invocando che i giudici del merito, in tesi, hanno malamente interpretato le molteplici disposizioni di legge indicate nella intestazione del motivo, non solo – in ispregio del precetto di cui all’art. 366 c.p.c. – omette totalmente di indicare quale sia stata la interpretazione data dalla sentenza impugnata delle ricordate disposizioni e quale, in concreto, quella corretta, alla luce degli insegnamento giurisprudenziali e dottrina.

E’ palese, di conseguenza, già per tale aspetto la inammissibilità della censura.

5.2. Anche a prescindere da quanto sopra, comunque, si osserva che il motivo – ben lungi dal prospettare violazioni di legge rilevanti sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, – si esaurisce nel censurare la interpretazione data, dai giudici del merito, delle risultanze di causa, e in particolare della comunicazione del 1 luglio 1996 della Consob, interpretazione a parere della ricorrente inadeguata, atteso che i giudici di merito hanno ritenuto che tale comunicazione contenga un provvedimento di rigetto della loro istanza, mentre, in realtà, è meramente interlocutoria.

E’ evidente, pertanto, anche sotto tale ulteriore profilo la inammissibilità del motivo.

5.3. Quanto all’ulteriore profilo di censura sviluppato nel motivo, e – in particolare – in merito alla interpretazione data dai giudici del merito alla comunicazione 1 luglio 1996, giusta quanto assolutamente pacifico, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice e da cui, ancora una volta, totalmente prescinde la difesa della parte ricorrente si osserva che l’accertamento e la valutazione delle circostanze di fatto, come l’interpretazione degli atti negoziali, al pari dell’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, sono riservati al giudice di merito e censurabili in sede di legittimità solo per vizi di motivazione e per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (Cass. 13 novembre 2007, n. 23569).

Non diversamente, l’interpretazione di un atto amministrativo a contenuto non normativo, risolvendosi nell’accertamento della volontà della P.A., ovverosia di una realtà fenomenica e obiettiva, è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e immune dalla violazione di quelle norme – in particolare, l’art. 1362 c.c., comma 2, gli artt. 1363 e 1366 c.c. – che, dettate per l’interpretazione dei contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi, tenendo peraltro conto della natura dei medesimi nonchè dell’esigenza della certezza dei rapporti e del buon andamento della pubblica amministrazione.

In tale prospettiva, la parte che denunzi in cassazione l’erronea interpretazione, in sede di merito, di un atto amministrativo, è tenuta, a pena di inammissibilità del ricorso, a indicare quali canoni o criteri ermeneutici siano stati violati; e, in mancanza, l’individuazione della volontà dell’ente pubblico è censurabile non già quando le ragioni addotte a sostegno della decisione siano diverse da quelle della parte, bensì allorchè esse si rivelino insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica (in termini, ad esempio, Cass. 23 luglio 2010, n. 17367. Non diversamente, Cass. 10 aprile 2009, n. 8770; Cass. 15 dicembre 2008, n. 29322, tra le tantissime).

In particolare, la interpretazione di un atto negoziale o di un provvedimento amministrativo non normativo, è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c. e segg. o di motivazione inadeguata ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione.

Pertanto onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato.

Con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536).

Pacifico quanto precede si osserva – altresì – che il motivo di ricorso per cassazione con il quale alle sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 deve essere inteso a far valere carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nella attribuzione agli elementi di giudizio di un significato fuori dal senso comune, o ancora, mancanza di coerenza tra le varie ra-gioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi, mentre non può,invece, essere inteso – come ora pretende il ricorrente incidentale – a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggetto della parte e, in particolare, non si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti (cfr. Cass. 27 ottobre 2006, n. 23087).

5.4. Facendo applicazione dei riferiti principi al caso di specie è agevole osservare che parte ricorrente censura la sentenza – quanto alla interpretazione data alla comunicazione 1 luglio 1996 – assumendo che da due proposizioni contenute nella stessa – e non adeguatamente tenute presenti dai giudici di secondo grado – era evidente che la comunicazione non conteneva affatto un provvedimento di rigetto della sua istanza.

In ispregio del principio della autosufficienza del ricorso per cassazione, peraltro, la ricorrente non ha riportato in ricorso tutta la comunicazione 1 luglio 1996 – onde consentire a questa Corte di apprezzare se la mancata denunciata valutazione di due frasi in essa contenute avrebbero condotto, senza dubbio, a una diversa soluzione della lite – ma unicamente alcuni passaggi della comunicazione in discussione ed è palese, di conseguenza la inammissibilità della deduzione.

5.5. Anche a prescindere da quanto precede, comunque si osserva che letta nella sua integrità (e, quindi, non solo nelle parti estrapolate dalla difesa della ricorrente e riportate in ricorso e dalle quali potrebbe, in tesi, trovare conforto quanto invocato dalla stessa difesa) la comunicazione in discussione ha – chiaramente e inequivocabilmente – un significato ben diverso da quello che pretende di attribuirle la difesa della ricorrente.

La comunicazione in discussione, infatti, testualmente, recita:

– la lettera della scrivente in data 20 maggio u.s., oltre ad essere del tutto idonea a prorogare il termine di cui trattasi, era volta ad ottenere l’acquisizione dei necessari elementi relativi alla situazione economico-patrimoniale di codesta società, trattandosi nella specie di valutare l’eventuale autorizzazione all’esercizio di ben tre ulteriori attività;

– peraltro, dalle evidenze agli atti della scrivente, nonchè dal parere della Banca d’Italia qui pervenuto il 25 giugno u.s., risulta che codesta società, a fronte di un capitale sociale sottoscritto e versato di L. 2.320.000.000, ha registrato negli ultimi esercizi perdite a seguito delle quali il patrimonio netto al 31.12.95 è risultato pari a L. 2.050.000.000;

– tale patrimonio netto risulta dunque inferiore all’importo minimo di capitale che, per le attività di cui alle lettere c), d), e) ed j) del citato art. 1, comma 1 deve, essere complessivamente di L. 2.320.000.000, come prescritto dal regolamento emanato dalla Banca d’Italia il 2.7.91;

– stante la descritta situazione, non sussistono i requisiti necessari per l’estensione chiesta da codesta Sim, atteso che detti requisiti sono prescritti in relazione alla autorizzazione oggetto della istanza, e non già all’effettivo esercizio delle attività di cui trattasi".

E’ di palmare evidenza, pertanto, la manifesta infondatezza del motivo.

L’ultima delle espressioni sopra trascritte e, in particolare, la precisazione "stante la descritta situazione, non sussistono i requisiti necessari per l’estensione chiesta da codesta Sim, atteso che detti requisiti sono prescritti in relazione alla autorizzazione oggetto della istanza, e non già all’effettivo esercizio delle attività di cui trattasi» non può che significare che tale comunicazione contiene un non equivoco provvedimento di rigetto dell’istanza.

6. Considerazioni di ordine logico – a questo punto dell’esposizione – impongono di esaminare, con precedenza, rispetto ai restanti, il quarto motivo di ricorso.

Con lo stesso la ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando violazione degli artt. 2043 e 1223 c.c. Violazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 191 c.p.c. e segg. e dell’art. 278 c.p.c., per avere i giudici di appello affermato che non esiste alcun nesso di causalità tra la condotta della Consob e i danni lamentati da essa concludente.

7. Il motivo è inammissibile. Per carenza di interesse.

Giusta quanto assolutamente pacifico – presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, e da cui totalmente e senza alcuna motivazione totalmente prescinde la difesa del ricorrente – l’interesse all’impugnazione, il quale costituisce manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire – sancito, quanto alla proposizione della domanda ed alla contraddizione alla stessa, dall’art. 100 c.p.c. – va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’eventuale accoglimento del gravame e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata.

E’ inammissibile, pertanto, per difetto d’interesse, un’impugnazione con la quale si deduca la violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte, e che sia diretta quindi all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico (Cass. 23 maggio 2008, n. 13377; Cass. 19 maggio 2006, n. 11844; Cass. 26 luglio 2005, n. 15623).

Pacifico quanto precede, non controverso, alla luce delle considerazioni svolte in margine al primo e al secondo motivo che è stato escluso, in radice, sia configurabile una responsabilità della Consob, per la omessa adozione, nei termini, di un provvedimento di rigetto (o di accoglimento) della istanza della Zeus Sim di essere autorizzata a esercitare ulteriori attività oltre quella per la quale già le era stata rilasciata la autorizzazione del caso e che abbia, di conseguenza, un qualche fondamento la pretesa risarcitoria fatta valere dall’odierna ricorrente, è evidente che è inammissibile, per difetto di interesse quanto esposto con il quarto motivo.

E’ certo – infatti – che anche nella eventualità le considerazioni ivi esposte avessero un qualche fondamento non per questo potrebbe mai pervenirsi alla cassazione della sentenza impugnata.

8. Con i restanti motivi la ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando, nell’ordine:

– da un lato, violazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, dell’art. 2043 c.c. della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, all. E e dei principi generali in tema di responsabilità della pubblica amministrazione. Omessa motivazione su punto decisivo della controversia, per avere la Corte del merito disapplicato l’insegnamento della più recente giurisprudenza di questa Corte regolatrice (in particolare la sentenza n. 500 del 1999 nonchè quella pacifica successiva) e per non avere vagliato le censure fatta valere da essa ricorrente, estesamente esposte nel paragrafo 11 della comparsa conclusionale (terzo motivo);

– dall’altro, omessa motivazione su punti decisivi della controversia. Violazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 97 della L. 20 marzo 2248, art. 5, all. E, e dei principi generali in tema di responsabilità della pubblica amministrazione, certo essendo che sussistevano le condizioni per l’accoglimento della proposta istanza di ampliamento delle attività autorizzate (quinto e sesto motivo).

9. Tutti tali motivi sono inammissibili.

Sotto diversi, concorrenti, profili.

9.1. Alla luce quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte, da cui totalmente – e senza alcuna motivazione – prescinde la difesa dei ricorrenti si osserva che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso.

Il singolo motivo, sia prima della riforma introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006, sia successivamente, assume una funzione identificativa condizionata dalla sua formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative di censura formalizzate con una limitata elasticità dal legislatore.

La tassatività e la specificità del motivo di censura esigono, quindi, una precisa formulazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche di censura enucleate dal codice di rito (Cass. 3 luglio 2008, n. 18202).

Certo quanto sopra, certo che – giusta la testuale previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, – "le sentenze pronunciate in grado di appello in un unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione" esclusivamente sotto uno dei profili tassativamente indicati nello stesso comma 1 dell’articolo è evidente che è onere del ricorrente indicare, chiaramente, e senza possibilità di equivoci, per ogni motivo, sotto quale profilo del ricordato art. 360 c.p.c. è proposta la censura.

Ne è consentito al ricorrente rimettere al giudice adito – che ex art. 111 Cost., comma 2, non può che essere terzo e parziale – la scelta del motivo con cui si intende censurare la sentenza impugnata.

Nella specie – pur assumendosi che i giudici di secondo grado sono incorsi nella violazione o falsa applicazione delle molteplici norme di diritto analiticamente indicate nelle rubriche dei vari motivi – è agevole riscontrare – dal confronto tra la parte motiva della sentenza impugnata e degli argomenti sviluppati nei vari motivi, che le censure non riguardano – in realtà – la interpretazione delle ricordate disposizioni normative data dalla sentenza impugnata ma la circostanza – come più chiaramente è indicato nella memoria ex art. 378 c.p.c. – che la sentenza di appello avrebbe omesso di pronunciare su domande sottoposte al suo vaglio.

Certo quanto sopra, è palese la inammissibilità dei ricordati motivi.

Specie tenuto presente che la omessa pronuncia su una domanda, ovvero su un motivo di appello o su specifiche eccezioni fatte valere dalla parte, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4, e, conseguentemente, è inammissibile il motivo di ricorso con il quale la relativa censura sia proposta sotto il profilo della violazione di norme di diritto, ovvero come vizio della motivazione (Tra le tantissime, Cass. 19 gennaio 2007, n. 1196; Cass., sez. un., 27 ottobre 2006, n. 23071; Cass. 6 aprile 2006, n. 8097; Cass. 23 febbraio 2006, n. 4019; Cass. 27 gennaio 2006, n. 1755; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1701; Cass. 11 novembre 2005, n. 22897).

9.2. Anche a prescindere da quanto precede e si ritenga di poter superare la sopra evidenziata causa di inammissibilità dei riferiti motivi non può tacersi che stante il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, allorchè si denunzia – con il ricorso per cassazione – che la sentenza ha omesso di pronunciare su una eccezione o su specifiche domande come, in pratica si addebita nella specie alla sentenza ora impugnata la parte ricorrente non può limitarsi – come ha fatto nel caso concreto la difesa della ricorrente – a riportare, in ricorso, quello che è a suo soggettivo parere era il contenuto dei propri scritti difensivi di merito, ma deve, a pena di inammissibilità, trascrivere, in ricorso le domande e eccezioni introdotte in causa e sulle quali il giudice di merito ha omesso di provvedere.

9.3. A tale ultimo riguardo, inoltre, non può tacersi che perchè sia configurabile il vizio di omessa pronunzia non solo lo stesso deve essere espressamente denunciato (primo profilo di inammissibilità dei motivi di ricorso ora in esame), ma deve essere rilevato tassativamente quale nullità della sentenza o del procedimento e non come violazione di legge, nè quale vizio della motivazione (secondo profilo di inammissibilità), precisando quali siano le domande non esaminate e dimostrando che tali domande erano state introdotte in causa con il rispetto del principio del contraddittorio, e, quindi, sin dal primo grado del giudizio (terzo profilo di inammissibilità).

Certo che nella specie si denunzia (peraltro nella, sola parte espositiva dei vari motivi) l’omesso esame di considerazioni svolte nella comparsa conclusionale d’appello (peraltro non trascritta ma di cui è riportata la soggettiva lettura datane dal difensore) è palesa anche tale ulteriore profilo di inammissibilità.

Come assolutamente pacifico in dottrina come in giurisprudenza, infatti, la comparsa conclusionale – in primo grado come in appello – ha carattere meramente illustrativo di domande, e eccezioni ove non si tratti di eccezioni rilevabili ex officio già proposte (Cass. 8 luglio 2010, n. 16152; Cass. 18 marzo 2010, n. 6533; Cass. 27 settembre 2007, n. 20319).

E’ di palmare evidenza, pertanto, che era onere del ricorrente – a prescindere da ogni altra considerazione – non limitarsi a censurare l’omesso esame di considerazioni svolte in comparsa conclusionale, ma dedurre -adeguatamente e espressamente – che trattavasi di domande sottoposte all’esame del giudice di appello nel rispetto del principio del contraddittorio (e, cioè, censure, già appartenenti alla causa per essere le stesse fatte valere prima con la citazione introduttiva, successivamente con l’atto di appello), trascrivendo i passaggi dei detti atti nei quali tali domande erano sviluppate e non limitandosi a fare riferimenti alle considerazioni svolte in comparsa conclusionale.

9.4. Le assorbenti considerazioni che precedono assorbono anche l’ulteriore profilo di inammissibilità costituito dall’eccepito (dalla difesa della controricorrente) giudicato interno.

In particolare i giudici di primo grado avevano evidenziato che la società ora ricorrente omise di impugnate nella debita sede giurisdizionale il provvedimento negativo portato a sua conoscenza con la lettera del 1 luglio 1996, scegliendo, viceversa di presentare una istanza modificativa della richiesta originaria, in data 24 luglio 1996, sulla quale è intervenuta archiviazione, essendo ritenuto dalla Commissione .. che l’intervento di una nuova disciplina legislativa che determinava il venir meno nella richiedente della qualifica di società di intermediazione mobiliare con richiedesse un formale provvedimento di reiezione. Provvedimento del pari non impugnato e non la ricorrente – senza ombra di dubbio – non ha censurato, in appello, tali accertamenti.

10. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso, in conclusione, deve rigettarsi con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 12.000,00 per onorari oltre spese prenotate a debito e oltre spese generali e accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.