Cons. Stato Sez. VI, Sent., 30-06-2011, n. 3900

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. In data 18 marzo 2009, il presidente della Camera di Commercio di Lecce ha provveduto all’affissione all’albo camerale dell’avviso di avvio della procedura di rinnovo del consiglio camerale, per consentire alle organizzazioni imprenditoriali, sindacali e alle associazioni di consumatori interessate alla ripartizione dei seggi all’interno dei vari settori di effettuare le prescritte comunicazioni, ai sensi dell’art. 2, comma 2 del DM 501/96, relativamente alla natura e finalità di tutela perseguita, nonché all’ampiezza e diffusione delle strutture operative, ai numeri delle imprese iscritte e al numero degli occupati nelle stesse.

Nei successivi 50 giorni, le imprese e associazioni interessate hanno fatto pervenire al Presidente della Camera di commercio di Lecce i dati e le notizie necessarie alla rilevazione del grado di rappresentatività, nella circoscrizione territoriale di appartenenza.

Il 6 maggio 2009, la Confcommercio, la Confesercenti, la Confartigianato, la Casartigiani, la CNA e la Claai hanno presentato una dichiarazione di apparentamento per concorrere alla assegnazione dei seggi nei settori commercio, turismo e servizi alle imprese.

In data 7 maggio 2009 l’associazione ricorrente ha comunicato e fornito alla Camera di Commercio i dati necessari per l’assegnazione dei seggi in proprio favore, nei settori del commercio, turismo e servizi e a seguito di successiva richiesta di regolarizzazione della documentazione trasmessa da parte del presidente della Camera di commercio, con nota prot. 0136 del 19 maggio 2009, l’associazione ricorrente ha rettificato il numero totale degli occupanti da un errore di calcolo nelle domande presentate in precedenza.

Con nota del 27 maggio 2009, il presidente della Camera di commercio ha trasmesso alla Regione Puglia in originale i dati e i documenti acquisiti nell’ambito delle procedure relative alla composizione del consiglio camerale di Lecce, precisando che la relativa documentazione era stata sottoposta a regolarizzazione dal punto di vista formale e allegando alla stessa una scheda riepilogativa dei suddetti fascicoli, in cui veniva indicato il valore aggiunto per addetto a ciascun settore economico, secondo quanto previsto dall’art.2 DM 501/96, comma 6.

Con DPGR n. 788 del 31 luglio 2009, il Presidente della Giunta Regionale della Puglia, recepita la documentazione trasmessa dal presidente della camera di commercio di Lecce, ha rilevato il grado di rappresentatività di ciascuna organizzazione imprenditoriale, cui ha contestualmente assegnato i relativi seggi, e in particolare assegnando alla associazione ricorrente un seggio per il settore commercio e un seggio per il turismo (senza soddisfare la sua pretesa, in quanto volta ad ottenere più seggi, in ragione della sua rappresentatività).

Il decreto è stato trasmesso alle associazioni partecipanti alla procedura di assegnazione, con l’invito a nominare entro 10 giorni i propri rappresentanti nel consiglio camerale.

Con la nota del 20 agosto 2009, l’associazione ricorrente ha indicato alla regione Puglia i nominativi per il settore turismo e commercio, riservandosi, tuttavia, ogni azione avverso gli atti in questione.

L’associazione ha conseguentemente proposto il ricorso di primo grado.

2. Il TAR ha rigettato il ricorso, rilevando innanzitutto che l’equazione in forza della quale il riconoscimento di un maggior grado di rappresentatività alle associazioni controinteressate si sarebbe risolto in un automatico vulnus inferto alla associazione ricorrente non sembra fondata.

La ricorrente, infatti, pur contestando il numero dei seggi attribuiti alle controinteressate sotto il profilo dei requisiti per partecipare alla procedura di rinnovo del consiglio camerale, non ha dimostrato di avere titolo ad un numero maggiore di seggi, ossia non ha fornito la prova di essere titolata a sedere in consiglio camerale per mezzo di un numero più elevato di propri rappresentanti.

3. L’Associazione ha prodotto appello, deducendo che:

"il c.d. vulnus inferto alla ricorrente, a seguito dell’errato grado di rappresentatività attribuito alle contronteressate, non è meramente potenziale, ma risulta pacifico nella fattispecie e deriva dalla normativa del d.m. 1996/501, posto che la determinazione del numero dei rappresentanti di ciascuna organizzazione e/o associazione nel settore di appartenenza viene determinato tenuto conto dei posti previsti per ciascun settore economico dallo statuto camerale, dividendo il grado di rappresentatività di ogni organizzazione per 1,2,3,4 ed oltre sino alla concorrenza del numero dei seggi disponibili per il relativo settore economico disponendo di quozienti cosi ottenuti in una graduatoria decrescente, in un numero pari a quello dei seggi da attribuire".

"Ne consegue che se talune associazioni, tra quelle indicate, fossero legittimamente state escluse, l’associazione, ai sensi dell’art. 5 DM 501/96 avrebbe conseguito senza dubbio il riconoscimento di un maggiore grado di rappresentatività e dunque la reale certezza di sedere nel consiglio camerale con uno o più rappresentanti sia nel settore commercio che dei servizi, come ampiamente illustrato nel ricorso introduttivo".

Inoltre, l’appellante ha lamentato va violazione della circolare ministeriale del 24 dicembre 2001, n. 3536, poiché le dichiarazioni non sarebbero state autenticate.

4. Ritiene la Sezione che le censure così riassunte vadano respinte.

In primo luogo, risultano inammissibili tutte le censure riguardanti la violazione della circolare ministeriale del 24 dicembre 2001 e la mancata autenticazione delle dichiarazioni presentate in sede amministrativa.

Infatti, esse sono state formulate in primo grado dall’interveniente.

L’appellante può riproporre in grado d’appello le censure ritualmente formulate in primo grado, ma non può chiedere in grado d’appello l’esame delle censure con cui l’interveniente irritualmente abbia inteso ampliare il thema decidendi.

Peraltro, le medesime censure risultano anche infondate.

La richiamata circolare ha disposto che "le dichiarazioni rese sotto forma sostitutiva di atto notorio devono essere ritenute valide fino a prova di falso, con onere a carico della parte ricorrente".

Ciò comporta che, nel corso del procedimento, l’amministrazione regionale deve attribuire rilevanza probatoria agli atti notori, salve le responsabilità individuali nel caso di commissioni di falsi e salvi gli eventuali accertamenti istruttori che le autorità competenti intendano porre in essere.

Risultano altresì infondate le residue censure.

Rientra infatti nell’ambito della discrezionalità tecnica dell’amministrazione il riscontrare la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi e, in particolare, la riferibilità delle associazioni ai singoli settori.

Nella specie, nessuna illogicità vi è, né è stata specificamente comprovata, in ordine alla riferibilità della Casartigiani e Cllai al settore commercio.

Inoltre, in assenza di espressi divieti, e in applicazione dell’art. 4 del decreto ministeriale 24 luglio 1996, n. 501, l’amministrazione ha ben potuto attribuire rilievo agli apparentamenti, che di per sé comportano l’aggregazione di realtà di cui si può ben tener conto nel corso del procedimento.

Infatti, sono risultati i relativi presupposti, e cioè il formale impegno a partecipazione unitaria con dichiarazione apparentamento, nonché l’appartenenza al medesimo settore (secondo le valutazioni rientranti nell’ambito della discrezionalità tecnica e basate sugli accertamenti in fatto eseguiti)

5. Va infine respinto l’appello incidentale proposto dalla Federazione Nazionale Imprese di Pesca (FEDERPESCA), con il quale pure si censura la sentenza impugnata per omessa pronuncia sulla ritualità del suo atto di intervento.

Infatti, gli eventuali profili di lesione per la medesima Federazione, riferibili al provvedimento impugnato in primo grado, sotto tale profilo avrebbe consentito la proposizione di un rituale ricorso principale, sicché va richiamato il pacifico e tradizionale orientamento per cui il soggetto legittimato all’impugnazione non può assumere la qualità di interventore e, comunque, non può contestare sotto ulteriori profili il provvedimento impugnato, così ampliando il thema decidendi.

6. Per le ragioni che precedono, l’appello principale va respinto, così come quello incidentale

Le spese del secondo grado seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello n. 8129 del 2010, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Respinge l’appello jncidentale

Condanna l’associazione ricorrente principale al pagamento della somma di tremila euro a favore della Regione Puglia, di 3.000,00 euro a favore della Camera di commercio, industria, agricoltura e artigianato (CCIAA) di Lecce, di tremila euro a favore del Consorzio Pesca Salento, e, per un totale di 3.000 euro, a favore di Confesercenti -Sede di Lecce, Ascom – Confocommercio -Sede di Lecce, Confartigianato Imprese – Sede di Lecce, Cna – Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, Claai – Confederazione Libere Associazioni Artigiane Italiane – Sede di Lecce. Compensa le spese tra le altre parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 30-11-2011, n. 25503 Accertamento

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione (successivamente depositando memoria illustrativa) nei confronti della Pyramid s.r.l.

(che resiste con controricorso proponendo altresì ricorso incidentale e depositando successiva memoria) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per Irpeg e Ilor relativo all’anno di imposta 1994, la C.T.R. Lazio confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso della contribuente.

In particolare, i giudici d’appello – premesso che, con sentenza n. 157 del 24.10.2008 (da ritenersi integralmente richiamata) la sezione n. 20 della medesima C.T.R., a seguito di consulenza tecnica, aveva respinto l’appello dell’Ufficio proposto in analoga vertenza relativa all’anno di imposta 1995 – sostenevano che le affermazioni del predetto Ufficio circa la non corrispondenza tra documenti, contabilità e movimentazioni finanziarie nonchè le considerazioni in ordine alle movimentazioni bancarie apparivano non condivisibili in quanto non suffragate da idonea documentazione, mentre la documentazione prodotta dalla società consentiva "di esprimersi favorevolmente". Quanto ai versamenti sul conto corrente, i giudici d’appello affermavano che era "ragionevole ritenere" che gli stessi fossero "riconducibili ai versamenti dalla cassa alla banca conseguenti agli incassi dei corrispettivi derivanti dall’attività alberghiera". 2. Deve innanzitutto disporsi la riunione dei ricorsi siccome proposti avverso la medesima sentenza.

Prima di esaminare il ricorso principale, occorre rilevare che la società controricorrente – rilevato che nella sentenza d’appello si afferma, tra l’altro, che, con sentenza n. 157 del 24.10.2008 (da ritenersi integralmente richiamata) la sezione n. 20 della medesima C.T.R., a seguito di consulenza tecnica, aveva respinto l’appello dell’Ufficio proposto in analoga vertenza relativa all’anno di imposta 1995 – deduce l’inammissibilità del ricorso per cassazione dell’Agenzia e di ciascuno dei suoi due motivi per omessa indicazione e considerazione dei contenuti della sentenza richiamata per relationem e difetto di autosufficienza sul punto, nonchè per omessa impugnazione delle ragioni esposte nella suddetta sentenza n. 157, da ritenersi parte integrante della sentenza impugnata in questa sede.

Le esposte ragioni di inammissibilità non sussistono.

Con riguardo a sentenza motivata per relationem la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha avuto modo di pronunciarsi in relazione a decisioni che, al di là del rinvio per relationem, non erano assistite da una motivazione idonea a sostenere il decisum e pertanto in relazione alla legittimità del rinvio e dei suoi effetti, dovendo in mancanza ritenersi la nullità della sentenza per totale mancanza di motivazione.

La diversa ipotesi in cui (come nella specie) la sentenza sia in ogni caso assistita da una motivazione esplicitata, da sola sufficiente a sostenere il decisum e si deduca dunque non la nullità di tale sentenza bensì l’inammissibilità dell’impugnazione che abbia investito la ratio decidendi in essa esplicitata e non anche quella ivi non esposta ma da ritenersi ugualmente parte integrante della motivazione della medesima in forza del suddetto rinvio per relationem, non differisce da ogni altra in cui il giudice debba valutare se nella sentenza impugnata sia ravvisabile, in fatto e in diritto, una ratio decidendi diversa ed ulteriore rispetto a quelle considerate dall’impugnante e fatte oggetto di impugnazione.

Nella decisione impugnata in questa sede si afferma che, con sentenza n. 157 del 24.10.2008 (da ritenersi integralmente richiamata), la sezione n. 20 della medesima C.T.R., a seguito di consulenza tecnica, aveva respinto l’appello dell’Ufficio proposto in analoga vertenza relativa all’anno di imposta 1995. E’ pertanto innanzitutto necessario interpretare tale espressione per valutare se, nonostante l’inciso "da ritenersi integralmente richiamata", sia ravvisabile un effettivo rinvio per relationem e non piuttosto – considerato anche che la sentenza è sostenuta da una autonoma motivazione, la quale peraltro ricalca in parte, anche nelle espressioni verbali, alcuni passaggi della c.t.u. riportati nella sentenza n. 157 e fatti propri dal giudice – la semplice informazione a fini motivazionali del fatto che diversa sezione della medesima C.T.R., a seguito di consulenza tecnica, aveva respinto l’appello dell’Ufficio proposto in analoga vertenza relativa all’anno di imposta 1995.

Peraltro, anche ove si ritenga che di reale e legittimo rinvio per relationem si tratti, occorre in ogni caso che la sentenza richiamata per relationem contenga effettivamente rationes decidendi diverse ed ulteriori rispetto a quelle espresse nella sentenza impugnata e fatte oggetto di impugnazione, circostanza che nella specie non risulta, dovendo distinguersi le mere argomentazioni dalle rationes decidendi e considerarsi che anche l’esposizione dei contenuti della consulenza tecnica (effettuata nella sentenza richiamata per relationem) non costituisce di per sè espressione di autonoma e compiuta ratio decidendi. Peraltro, neppure la controricorrente ha evidenziato con chiarezza, al di là delle differenze nella esposizione e nelle argomentazioni delle due sentenze, una ratio decidendi diversa e ulteriore nella sentenza n. 157 rispetto a quelle esplicitate, sia pure in maniera meno argomentata ed assai più concisa, nella sentenza impugnata in questa sede.

Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e art. 2697 c.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici d’appello hanno sostenuto: che le affermazioni dell’Ufficio circa le movimentazioni bancarie e la mancata corrispondenza tra contabilità e documentazioni finanziarie apparivano non condivisibili in quanto non suffragate da idonea documentazione; che la documentazione prodotta dalla società consentiva di esprimersi favorevolmente; che era ragionevole ritenere che i versamenti sul conto corrente fossero riconducibili ai versamenti dalla cassa alla banca conseguenti agli incassi derivanti dall’attività alberghiera. Secondo la ricorrente così argomentando i suddetti giudici sarebbero incorsi nelle violazioni delle norme sopra enunciate, le quali (siccome interpretate dalla giurisprudenza di legittimità) prevedono, in ordine ai dati emergenti dagli accertamenti bancari, una presunzione legale a carico del contribuente con conseguente inversione dell’onere della prova, in forza della quale il contribuente è tenuto a giustificare, in maniera precisa e specifica, i vari movimenti bancari e dimostrare che essi sono estranei al suo reddito ovvero che di essi si è tenuto conto nella contabilità.

Le censure sopra riportate, nei termini esposti e nei limiti di cui in prosieguo, risultano ammissibili e fondate.

In proposito, occorre evidenziare che, secondo la costante giurisprudenza di questo giudice di legittimità, alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (v. tra le altre cass. n. 18081 del 2010 e n. 4589 del 2009).

I giudici della C.T.R. hanno pertanto errato nell’affermare che le considerazioni dell’Ufficio sulle movimentazioni bancarie, non essendo supportate da documentazione probante, non potevano essere condivise, posto che l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo quanto sopra esposto, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti bancali, senza bisogno di ulteriore "documentazione probante".

Inoltre, limitandosi a richiamare genericamente la documentazione prodotta dalla parte e la possibilità di "esprimersi favorevolmente" su di essa nonchè ad affermare che è ragionevole ritenere che i versamenti in conto corrente siano riconducibili ai versamenti dalla cassa alla banca conseguenti agli incassi derivanti dall’attività alberghiera, i giudici d’appello hanno omesso di verificare in maniera precisa ed analitica la prova contraria offerta dal contribuente.

In proposito occorre precisare che questo collegio non condivide il precedente di questo giudice di legittimità (cass. n. 25365 del 2007) secondo il quale alla presunzione legale relativa posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 "va contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice", sia perchè la prova per presunzioni è ad ogni effetto una prova, sia perchè, salvo espresse previsioni legislative in contrario, vige nel nostro ordinamento il principio di libertà dei mezzi di prova, sia infine perchè non risulta ricavabile dal sistema un principio in base al quale la prova contraria ad una presunzione legale non possa essere fornita per presunzioni. La presunzione legale costituisce una (rilevante) eccezione al principio del libero apprezzamento delle prove da parte del giudice ed alla regola dell’onere della prova, non è pertanto ipotizzarle che, in mancanza di una espressa previsione del legislatore e per via interpretativa, si apporti un ulteriore vulnus ai principi che regolano la prova nell’ordinamento (e segnatamente al principio di libertà delle prove) ritenendo che la prova contraria ad una presunzione legale non possa essere costituita da una presunzione semplice.

E’ peraltro appena il caso di rilevare che, in tema di presunzione (ex art. 1147 c.c.) di buona fede nel possesso da parte dell’acquirente "a non domino" di bene mobile, la giurisprudenza di legittimità ha affermato ripetutamente che colui che rivendica il bene, al fine di escludere in favore del possessore gli effetti di cui all’art. 1153 cod. civ., può fornire la prova della malafede o della colpa grave del possessore medesimo al momento della consegna anche mediante presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, e tali da prevalere sulla suddetta presunzione legale (v. tra le altre cass. n. 4328 del 1997).

La possibilità che la prova contraria alla presunzione legale di cui al citato articolo 32 sia costituita da presunzioni semplici non esonera tuttavia il giudice da una verifica precisa e analitica degli indizi offerti dal contribuente in relazione ad ogni movimento bancario contestato e dalla valutazione espressa della gravità, precisione e concordanza di essi in relazione a ciascun movimento, valutato nei suoi tempi, nel suo ammontare e nel suo contesto.

Ancorchè presuntive (anzi, a maggior ragione per questo) le prove devono essere sempre sottoposte a verifica dal giudice non potendo ritenersi che una precisa e specifica valutazione della prova (presuntiva o meno) offerta dal soggetto gravato dal relativo onere possa essere (come nella specie) sostituita da affermazioni generiche, sommarie e "cumulative" o da semplici considerazioni di verosimiglianza.

Col secondo motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente principale sostiene, tra l’altro (anche in relazione a quanto riportato nel momento di sintesi), che i giudici d’appello, limitandosi ad affermazioni apodittiche e generiche, avrebbero omesso di considerare, nella valutazione della prova liberatoria offerta dal contribuente relativamente a ciascuna operazione, quanto in proposito specificamente risultante dal p.v.c. della G.d.F. ed evidenziato nell’atto d’appello dell’Ufficio.

La censura che precede, nei termini esposti e nei limiti di cui in prosieguo, risulta ammissibile e fondata, posto che, dalle generiche affermazioni della sentenza in ordine alla valutazione "favorevole" della documentazione offerta dalla contribuente, non risultano in alcun modo prese in considerazione le deduzioni espresse dall’Ufficio nell’atto d’appello circa la mancata giustificazione, anche in sede contenziosa, dei movimenti bancari contestati, nè i rilievi contenuti nel p.v.c. della G.d.F. circa la mancata corrispondenza tra i movimenti bancari e risultanze della documentazione contabile (atti entrambi riportati in ricorso nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione).

Col primo motivo di ricorso incidentale la società contribuente, deducendo violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 346 del 1992, art. 53 comma 2, ultimo periodo sostiene la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia della inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia, notificato nel luglio 2008 a mezzo di messo autorizzato della stessa Agenzia, ritenendo possibile il mancato deposito di copia dell’atto di gravame presso la segreteria del giudice a quo, come questa Corte dovrebbe verificare in atti.

La censura è infondata, e ciò a prescindere dalla sua proposizione eventuale – ossia in caso di insussistenza del deposito di cui all’art. 53 citato, comma 2 la cui verifica è stata demandata dal ricorrente incidentale a questo giudice – nonchè dall’accertamento in ordine alla effettiva insussistenza di tale deposito.

In proposito è infatti da rilevare che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 4, nel prevedere che "l’ufficio del Ministero delle finanze e l’ente locale provvedono alle notificazioni anche a mezzo del messo comunale o di messo autorizzato dall’amministrazione finanziaria, con l’osservanza delle disposizioni di cui al comma 2 – il quale prescrive, per quanto qui rileva, che "le notificazioni sono fatte secondo le norme dell’art. 137 e ss. c.p.c."- mette a disposizione dell’amministrazione finanziaria e degli enti locali una particolare, ulteriore modalità di notificazione degli atti del processo tributario, consistente nella possibilità di avvalersi di messi comunali o di messi autorizzati, strumentale rispetto al principio ispiratore dell’intera normativa sul processo tributario di merito, la quale mira a semplificarlo, ad accelerarlo e a farlo svolgere senza gravare, proprio in tema di notificazioni, sull’ufficio ausiliario ordinario dell’autorità giurisdizionale costituito dall’ufficiale giudiziario, e deve pertanto ritenersi, anche in virtù del richiamo alle norme del codice di procedura civile in materia, che il legislatore, quanto alle notificazioni nell’ambito del processo tributario, abbia inteso equiparare il messo all’ufficiale giudiziario a tutti gli effetti (v. sul punto cass. n. 3433 del 2008 con specifico riguardo alla fede privilegiata delle attestazioni inerenti le formalità della notifica compiute dal messo notificatore).

Occorre poi ulteriormente evidenziare che la ratio del D.L. n. 203 del 2005, art. 3 bis, comma 7, (convertito nella L. n. 248 dei 2005) è la stessa sottesa all’art. 123 disp. att. c.p.c., cioè’ quella di assicurare al segretario del giudice a quo di avere tempestiva conoscenza dell’impugnazione e di eseguire l’annotazione dell’impugnazione sull’originale della sentenza, prescritta dal comma 2 della norma anzidetta (cfr. Corte cost., sent. n. 321 del 2009 e ord. n. 43 del 2010).

E’ tuttavia da evidenziare che, come nel caso di notifica a mezzo di ufficiale giudiziario quest’ultimo è tenuto, all’anzidetto fine, in base al citato art. 123, comma 1, a darne immediato avviso scritto al cancelliere del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, così analogo adempimento è posto a carico del messo notificatore, attesa la sua equiparazione all’ufficiale giudiziario a tutti gli effetti, come sopra evidenziata. Sul punto la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), affermando il principio con riguardo all’avvocato che si avvale della facoltà di eseguire la notifica ai sensi della L. n. 53 del 1994, ha evidenziato che l’art. 9 di tale legge stabilisce appunto che, nei casi in cui il cancelliere sia tenuto all’annotazione dell’impugnazione sull’originale della sentenza, "il notificante provvede, contestualmente alla notifica, a depositare copia dell’atto notificato presso il cancelliere del giudice che ha pronunciato il provvedimento", dovendo pertanto ritenersi che la comminatoria di inammissibilità dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, non riguardi gli atti di appello notificati per posta ai sensi della menzionata L. n. 53 del 1994, ma si riferisca alle semplici raccomandate previste dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma (v. da ultimo cass. n. 6811 del 2011).

Col secondo motivo la ricorrente incidentale deduce la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia della inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia determinata dalla erronea e comunque parziale rappresentazione della sentenza impugnata e dalla mancanza di specifici motivi di impugnazione in ordine ad una autonoma e pregiudiziale ratio decidendi espressa nella sentenza di primo grado, non avendo in particolare l’Agenzia impugnato il principio posto dai primi giudici a base della sentenza e sufficiente a sorreggere il decisum, secondo il quale "le verifiche effettuate sui conti correnti bancari, non unite a gravi irregolarità nella documentazione contabile della società non possono determinare accertamenti induttivi" e "i movimenti bancari non possono da soli provare l’esistenza di ricavi".

La censura è infondata.

Occorre in proposito rilevare che, secondo quanto riportato dalla stessa ricorrente incidentale nella parte del controricorso dedicata al "fatto", l’Agenzia nell’atto d’appello tra l’altro dava atto che l’adita C.T.P., accogliendo le doglianze della ricorrente, aveva affermato che i riscontri documentali di parte ricorrente "dimostravano l’illegittimità del metodo induttivo adottato dall’Amministrazione finanziaria", precisava inoltre che:

"l’elemento indultivo-presuntivo tanto contestato nel ricorso introduttivo ….e disatteso dalla C.T.P. non si presenta – allo stato degli atti di causa – per nulla illegittimo, ma anzi, doverosamente da applicare al caso in esame" ed in conclusione chiedeva di "riformare in toto l’illegittima pronuncia dei giudici di prime cure" e di "confermare lo scrupoloso ed attento operato dei vari organi dell’Amministrazione finanziaria". Tanto premesso, e considerato il tenore complessivo dell’atto d’appello in esame, deve ritenersi che con esso l’Agenzia non abbia inteso soltanto censurare la sentenza di primo grado nella parte in cui i primi giudici avevano ritenuto "giustificati" i movimenti bancali ma abbia inteso ribadire la legittimità dell’avviso opposto siccome basato sugli accertamenti bancari, implicitamente affermando la legittimità dell’utilizzazione di essi (e quindi la sussistenza dei relativi presupposti), nonchè delle conseguenze che, nelle condizioni date, l’amministrazione aveva tratto dai medesimi, e pertanto censurare tutte le rationes decidendi espresse nella sentenza impugnata.

E’ peraltro appena il caso di evidenziare che questa Corte, con riguardo ai poteri-doveri del giudice d’appello, ha affermato che quando dal complesso delle deduzioni e delle conclusioni contenute nell’atto di appello risulti la volontà di sottoporre l’intera controversia al giudice dell’impugnazione, questi è tenuto a riesaminare anche quelle parti della sentenza di primo grado che non abbiano, a differenza di altre, formato oggetto di specifica trattazione nel suddetto atto, in quanto comunque coinvolte nell’integrale impugnazione della prima pronuncia (v. da ultimo cass. n. 17013 del 2010).

Col terzo motivo di ricorso incidentale, deducendo nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 276 e 345 c.p.c. nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 23, 35, 46 e 57 oltre che dell’art. 2697 c.c., la ricorrente incidentale censura la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici della C.T.R. non hanno dichiarato parzialmente inammissibile l’appello dell’Agenzia per "novità" della domanda di conferma di quanto accertato con l’avviso opposto e non hanno limitato la materia del contendere alla sola minor pretesa formulata dall’Agenzia nelle controdeduzioni al ricorso introduttivo.

La censura è infondata.

Giova innanzitutto rilevare che è configurabile domanda nuova inammissibile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1 quando mutino uno o più elementi identificativi dell’azione, avendo riguardo alla domanda introdotta da chi agisce in giudizio, laddove deve ritenersi specificamente riferibile alla posizione di chi resiste in giudizio il divieto di proporre nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio previsto dal citato art. 57, comma 2 secondo il quale non possono essere proposte in appello eccezioni diverse da quelle proposte in primo grado per contrapporsi alla domanda attorea.

Nella specie pertanto deve escludersi che l’amministrazione resistente in primo grado, chiedendo la conferma dell’avviso opposto, abbia proposto una domanda (e tantomeno una eccezione) nuova.

E’ inoltre da rilevare che nella specie non è neppure configurabile un parziale difetto di interesse dell’Agenzia all’impugnazione per il solo fatto che l’amministrazione nelle controdeduzioni in primo grado aveva ritenuto giustificata parte degli importi contestati con l’avviso opposto, atteso che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’interesse all’impugnazione si desume dall’utilità giuridica connessa (per l’impugnante) all’eventuale accoglimento del gravame, alla luce della sua sostanziale soccombenza nel precedente giudizio, intesa come effetto pregiudizievole derivante dalle statuizioni (idonee a passare in giudicato) contenute nella sentenza impugnata, e non già come mera divergenza tra quelle statuizioni e le conclusioni rassegnate dallo stesso impugnante (v. tra le altre cass. n. 1902 del 2002, nonchè cass. n. 3859 del 1978 – la quale ha riconosciuto ammissibile l’appello dell’amministrazione che, convenuta dal contribuente con domanda di restituzione di imposta, aveva in primo grado riconosciuto fondata l’interpretazione di una norma di esenzione invocata dall’attore, ma poi proposto appello avverso la sentenza di accoglimento della domanda, al fine di sostenere una contraria interpretazione della norma medesima, a sè favorevole – e anche, tra le altre, SU 1558 del 1986 – che hanno ritenuto ammissibile l’impugnazione della sentenza di cessazione della materia del contendere da parte dell’Inps la quale, in controversia proposta per il conseguimento della pensione di invalidità, abbia riconosciuto in primo grado il fondamento della pretesa avversaria, ove in sede di impugnazione sia stato contestato il diritto prima riconosciuto sotto un profilo giuridico prima non trattato).

Il semplice fatto del totale o parziale riconoscimento delle ragioni di controparte in primo grado non comporta dunque ex se l’inammissibilità (totale o parziale) dell’appello. Ciò non esclude ovviamente che il giudice investito dell’impugnazione debba tenere conto nel giudizio di fatto, ove necessario, delle non contestazioni e (a fortiori) delle ammissioni delle parti, ma ciò attiene alla valutazione della fondatezza nel merito dell’impugnazione (non alla sua ammissibilità) e nella specie il giudice d’appello ha nel merito ritenuto di disattendere in toto le pretese dell’amministrazione, senza perciò dover di distinguere quelle per le quali era in primo grado intervenuto il parziale riconoscimento delle giustificazioni della contribuente dalle altre.

La ricorrente incidentale, inoltre, in ipotesi di accoglimento del ricorso principale e rigetto del ricorso incidentale, chiede che la Corte di cassazione dia atto del giudicato interno formatosi per omessa impugnazione (ovvero per impugnazione priva di specifici motivi) del capo autonomo della sentenza di primo grado la quale statuiva che le sanzioni dovevano essere considerate un unicum essendo le eventuali mancanze ripetute per più esercizi. All’uopo evidenzia che l’Agenzia delle Entrate non aveva appellato specificamente anche tale autonomo capo della sentenza di primo grado, benchè il gravame si concludesse con una generica richiesta di annullamento della sentenza in relazione alla impugnazione prodotta dalla società avverso l’avviso opposto, con contestuale declaratoria di piena legittimità dell’avviso medesimo.

In subordine, la ricorrente incidentale chiede che la Corte pronunci sulla domanda, rimasta assorbita nel giudizio di appello, di declaratoria di illegittimità della irrogazione delle sanzioni, trattandosi di violazioni della stessa indole commesse in più periodi di imposta consecutivi.

Le richieste sopraesposte sono inaccoglibili.

I giudici di merito hanno deciso su questione assorbente (la debenza o meno della pretesa fiscale) e pertanto non hanno avuto necessità di decidere nè sulla questione assorbita (calcolo delle sanzioni) nè, preventivamente, sulla esistenza di una (ammissibile) impugnazione sul punto, quindi sulla formazione o meno di un giudicato interno. In assenza di un decisione del giudice d’appello non c’è spazio per una pronuncia del giudice di cassazione investito della impugnazione sulla sentenza d’appello, e dovrà pertanto il giudice del rinvio pronunciare sul punto, a meno che non sussistano gli estremi per una decisione nel merito da parte del giudice di cassazione, circostanza da escludere nella specie, attesa, tra l’altro, la necessità, secondo quanto sopra esposto, di una analitica valutazione degli elementi offerti in prova contraria dalla contribuente. In proposito, giova rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, nel giudizio di cassazione è inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa nel giudizio di merito sollevi questioni che sono rimaste assorbite, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio (v. tra le altre cass. n. 3796 del 2008 e n. 4808 del 2007).

La ricorrente incidentale, infine, in ipotesi di accoglimento del ricorso principale e rigetto del ricorso incidentale con cassazione senza rinvio della sentenza impugnata chiede che la Corte tenga conto del riconoscimento da parte dell’Ufficio impositore, in grado d’appello, della avvenuta giustificazione, in corso di giudizio, di larga parte della movimentazioni bancarie in contestazione, e, anche in ipotesi di cassazione con rinvio, chiede a questa Corte una statuizione ricognitiva o dichiarativa della rimodulazione in diminuzione della domanda dell’appellante ufficio impositore.

La richiesta sopra esposta è inaccoglibile.

La corte di cassazione pronuncia sulle censure proposte avverso la sentenza impugnata e decide nel merito solo ove non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto. Nella specie è mancato il giudizio di merito ogni accertamento in fatto circa il preteso riconoscimento (nonchè i relativi limiti e termini), da parte dell’Ufficio appellante, della giustificazione di alcune delle movimentazioni bancarie in contestazione, pertanto, prescindendo da ogni altra considerazione, non c’è spazio alcuno per una decisione nel merito e quindi, a fortiori, per una statuizione ricognitiva o dichiarativa della Corte in proposito, essendo la relativa decisione rimessa al giudice del rinvio.

3. Alla luce di quanto sopra esposto, il ricorso principale deve essere accolto nei limiti di cui sopra e il ricorso incidentale deve essere rigettato. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alle censure accolte con rinvio ad altro giudice che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso principale per quanto di ragione e rigetta l’incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Lazio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 19-12-2011, n. 27314 Conclusione del contratto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La controversia è nata dall’addebito, fatto da Bancapulia s.p.a., sul conto corrente intestato all’avvocato C.E., fideiussore della società Mediterraneo 2, della somma di L. 10.928.197, pari al debito della società per saldo di chiusura di conto corrente. Il Tribunale respinse la domanda proposta dal correntista nei confronti della banca per ottenere l’accredito in conto corrente della somma addebitata.

2. La Corte d’appello di Lecce, con sentenza 9 dicembre 2004, ha respinto l’appello dell’attore. La corte ha ritenuto che la banca avesse fatto legittimo esercizio della facoltà di compensazione tra rapporti e conti diversi tra le stesse parti, ad essa conferita dall’art. 1853 c.c.. Il C. era stato tempestivamente informato dell’operazione, e il credito portato in compensazione era divenuto liquido ed esigibile a seguito del recesso della banca esercitato a norma dell’art. 1845 c.c.. La corte escluse che l’appellante avesse la qualità di consumatore in base alla previsione dell’art. 1469 bis c.c. (persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale).

3. Per la cassazione della predetta sentenza notificata il 24 ottobre 2005 ricorre l’avvocato C. per tre motivi.

Bancapulia s.p.a. resiste con controricorso.

4. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell’art. 275 c.p.c., perchè la corte territoriale non ha sospeso il giudizio sull’obbligazione fideiussoria in attesa della definizione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, proposto dall’odierno ricorrente e da Medeterraneo2 nei confronti della medesima banca, avente ad oggetto la sussistenza del credito garantito dalla fideiussione.

5. Dalla sentenza impugnata non risulta che fosse stata allegata la pendenza di un giudizio sull’accertamento del credito garantito, nè quindi che vi fosse una richiesta dell’appellante di sospensione del giudizio in attesa della definizione di quello pregiudiziale. Una tale richiesta non figura nelle conclusioni dell’appellante riportate in epigrafe della sentenza. Il ricorrente, del resto, allega in modo estremamente generico di aver formulato questa richiesta nel giudizio di appello, facendo riferimento alle pagine 2 e 3 di una "replica" 4 maggio 2004, senza riportarne il contenuto, come richiesto dal principio di autosufficienza del ricorso.

Il motivo è pertanto inammissibile.

6. Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 1853 e 1243 c.c. e un vizio di motivazione. Secondo il ricorrente, l’art. 1853 c.c. consente alla banca soltanto la compensazione tra i saldi passivi di un rapporto di conto corrente ed i saldi attivi di altri rapporti o conti dello stesso cliente con la medesima banca, ipotesi che non ricorrerebbe nella fattispecie giudicata. Sostiene inoltre il ricorrente – con inammissibile mescolanza di questioni di fatto e di diritto totalmente disarticolate – che la corte del merito avrebbe dovuto riconoscere la vessatorietà della clausola n. 5 del contratto di conto corrente – peraltro non riprodotta nel ricorso – e sarebbe caduta in contraddizione negando all’avvocato C., sol perchè fideiussore di una società commerciale, la qualità di consumatore e l’applicabilità dell’art. 1469 bis c.c..

7. Il motivo, per la parte in cui è ammissibile, è infondato. E’ stato accertato nel giudizio di merito, e non è contestato nel presente giudizio di legittimità, che la banca ha annotato a debito del correntista, sul conto corrente in corso, il credito vantato nei suoi stessi confronti, in forza della fideiussione da lui prestata, e divenuto esigibile a seguito della chiusura del conto garantito facente capo al debitore principale. Trattandosi di compensazione tra credito (della banca, per escussione della fideiussione) e debito (della stessa banca, per saldo di conto corrente) – obbligazioni entrambe liquide ed esigibili, tra le medesime parti – la compensazione mediante regolamento in conto corrente era pienamente legittima, e il meccanismo previsto dall’art. 1853 c.c. non era se non applicazione particolare, mediante regolamento in conto corrente, di principi generali in materia di compensazione legale.

Quanto alle altre doglianze, è sufficiente rilevare che il giudice di merito ha puntualmente applicato i principi di diritto costantemente enunciati da questa corte. S’è infatti ripetutamente osservato che, quanto al requisito soggettivo di applicabilità della disciplina delle clausole abusive, introdotta dalla L. 6 febbraio 1996, n. 52, la qualità del debitore principale (nella fattispecie in esame: società commerciale a responsabilità limitata) attrae quella del fideiussore ai fini dell’individuazione del soggetto che deve rivestire la qualità di consumatore (Cass. 13 maggio 2005 n. 10107; conforme alla precedente pronuncia 11 gennaio 2001 n. 314).

8. Con il terzo motivo si censura la motivazione con la quale la corte territoriale ha respinto il motivo d’appello vertente sulla dichiarata inefficacia, nella sentenza di primo grado, del provvedimento cautelare emesso dal pretore.

9. Il motivo, vertente sul merito della pretesa cautelata, è inammissibile nel presente giudizio di legittimità, non potendo più la misura cautelare svolgere alcuna funzione, a seguito dell’accertamento negativo del diritto da cautelare.

10. Dalle considerazioni che precedono discende il rigetto del ricorso. Le spese del giudizio sono a carico del soccombente e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 1.400,00, di cui Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 25-03-2011) 17-08-2011, n. 32163 Sequestro preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Ricorre per cassazione P.L. – quale indagato del reato di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2 lett. c), per aver condotto, in data (OMISSIS), l’autovettura BMW, tg. (OMISSIS), di sua proprietà, benchè versasse in stato di ebbrezza accertato tramite alcooltest, in 1.84 g./l., alla prima prova ed in 1,79 g./l., alla seconda – avverso l’ordinanza 8 ottobre 2010 con cui il Tribunale di Ancona – Sezione del riesame respingeva l’appello dallo stesso proposto, ex art. 322 bis cod. proc. pen., in veste di avente diritto alla restituzione delle cose sequestrate,nei confronti dell’ordinanza 15 settembre 2010 con la quale il GIP dello stesso Tribunale aveva rigettato la richiesta di revoca del Decreto 15 marzo 2010, di sequestro preventivo del surrichiamato autoveicolo.

Il Tribunale, pur affermando che, dopo la modifica normativa introdotta con la L. n. 120 del 2010, non è più possibile procedere al sequestro preventivo del veicolo di proprietà e condotto dal trasgressore, in quanto la confisca obbligatoria, tuttora prevista, è stata trasformata in sanzione amministrativa accessoria, ha tuttavia ritenuto legittimo il mantenimento della misura cautelare reale, adottata prima della richiamata modifica normativa, sulla base dell’assorbente rilievo che doveva farsi applicazione della previgente normativa siccome più favorevole al reo, ex art. 2 c.p., comma 4. Deduce al riguardo, il ricorrente:

1. Violazione dell’art. 322 – bis e art. 310 cod. proc. pen. in relazione all’art. 127, commi 1 e 5, artt. 161 e 163 cod. proc. pen..

L’istante non ha partecipato all’udienza in camera di consiglio, conclusasi con l’adozione del provvedimento impugnato, a cagione della nullità della notifica del relativo avviso eseguita nel domicilio precedentemente eletto,ma poi revocato e sostituito con nuova elezione in altro luogo, come comunicato all’A. G. procedente con racc. ricevuta in data 6 maggio 2010. 2. Violazione degli artt. 322 – bis e 310 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 186 C.d.S., e art. 321 cod. proc. pen..

Il Tribunale,preso atto della sopravvenuta diversità tra la disciplina della confisca del veicolo, vigente all’epoca della commissione del fatto e quella novellata dalla L. n. 120 del 2010, al fine di giustificare il mantenimento della misura, ha richiamato il disposto dell’art. 2 cod. pen., comma 4 onde affermare che la vecchia normativa era più favorevole al reo. Ha tuttavia compiuto una comparazione meramente astratta tra le normative succedutesi nel tempo, in base alla misura delle pene detentive previste, peraltro limitatamente ai minimi edittali.

Mentre invece,per pervenire alla caducazione del disposto sequestro preventivo sul presupposto delle più favorevoli disposizioni successivamente introdotte, sarebbe stato sufficiente richiamare, all’esito di una valutazione complessiva e più articolata, l’intervenuta introduzione della norma sostanziale di cui all’art. 186 C.d.S., comma 9 – bis nonchè il disposto dell’art. 213 C.d.S., laddove si prevede che, se il lavoro di pubblica utilità viene svolto positivamente, non solo si riduce alla metà la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida, ma il reato viene dichiarato estinto con elisione della confisca amministrativa del veicolo.

Insta quindi il ricorrente per l’annullamento della impugnata ordinanza.

Con memoria depositata in cancelleria in data 18 marzo 2011, il ricorrente, nel richiamare le conclusioni formulate con il ricorso od in subordine invocando la rimessione della questione alle Sezioni Unite ex art. 618 cod. proc. pen.. Sul presupposto dell’esistenza di contrasti giurisprudenziali, deduce altresì in sintesi:

– una volta ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità che la novella del 2010 ha introdotto una disciplina più favorevole non foss’altro perchè la confisca è qualificata sanzione amministrativa accessoria in luogo della confisca quale sanzioni penale, pur in difetto di una disciplina transitoria atta a regolare le questioni di diritto intertemporale concernenti la sorte dei sequestri preventivi dei veicoli confiscandi ex art. 186 C.d.S., comma 2, lett. c), non può che farsi luogo alla revoca dei sequestri preventivi, a sensi dell’art. 321 cod. proc. pen., comma 3 in difetto delle condizioni di applicabilità di detta misura cautelare, non potendosi condividere gli orientamenti interpretativi suggeriti, in senso contrario, dalla giurisprudenza di legittimità.

– la prima opzione giurisprudenziale della Sezione 4^ della Corte di Cassazione, secondo cui si era statuita la caducazione del sequestro preventivo, mediante l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato, mantenendosi però in vita il vincolo sul bene siccome disposto, in nome del principio tempus regit actum, in conformità alla disciplina all’epoca vigente implica un’inaccettabile conversione del sequestro preventivo in amministrativo (divenendo questo in tal modo impugnabile ex artt. 224 – ter e 205 C.d.S.) al di fuori delle uniche ipotesi previste dall’art. 323 cod. proc. pen.;

– l’altra tesi interpretativa fatta propria dalla stessa Sezione – 4^, secondo il ricorrente si pone in contrasto con il principio sancito dalla L. n. 689 di 1981, art. 1 – che esclude l’applicazione retroattiva della legge che istituisce un sanzione amministrativa a violazioni commesse prima della sua entrata in vigore – essendosi affermato che il mantenimento dei sequestri preventivi discende, in nome del principio della perpetuatio jurisdictionis, non solo dall’esser stati adottati in base alle normativa all’epoca vigente, ma dalla verifica della conformità sostanziale dei parametri già sanciti in precedenza con quelli previsti dalle nuove disposizioni, attesochè la confisca anche nella disciplina novellata, consegue comunque ad un reato (rientrante nella cognizione del giudice penale) al pari delle altre sanzioni amministrative accessorie.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso è inaccoglibile.

In violazione del principio di autosufficienza, non risulta in atti alcuna prova (nè risulta alcun documento allegato al ricorso od inserito nel testo dello stesso) della comunicazione del mutamento della precedente elezione di domicilio dall’indagato P. L., in quella ulteriore, di (OMISSIS), presso il dr. P.F., asseritamente resa nota all’Autorità Giudiziaria procedente con raccomandata ricevuta il 6 maggio 2010. Ne discende l’insussistenza della dedotta nullità della notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale, eseguita nel precedente domicilio eletto.

Quanto alle altre censure proposte (ed ai rilievi illustrativi introdotti con successiva memoria) – da trattarsi congiuntamente attesa la sostanziale unitarietà delle prospettate questioni interpretative – ritiene il Collegio di far proprio il più recente orientamento seguito, in subiecta materia, da questa stessa Sezione, di cui alle sentenze n. 44903 del 27 ottobre 2010 e n. 40523 del 4 novembre 2010 sì da evitare (o comunque risolvere in radice) ogni prospettato contrasto giurisprudenziale da rimettersi alla cognizione delle Sezioni Unite. Com’ è noto, la L. 29 luglio 2010 n. 120, oltre ad apportare ulteriori modifiche al testo degli artt. 186 e 187 C.d.S., ha introdotto ex novo, nello stesso corpus normativo, l’art. 224 – ter che enuncia la speciale disciplina applicativa delle sanzioni amministrative accessorie della confisca amministrativa e del fermo amministrativo, conseguenti a fattispecie di reato.

La suddetta novella non ha dettato alcuna normativa transitoria in riferimento ai sequestri eeesee(OMISSIS)r già disposti ed eseguiti nella vigenza delle disposizioni precedenti ed in particolare di quelli disposti dal GIP ex art. 321 cod. proc. pen., comma 2, in previsione della sottoposizione alla confisca dei veicoli guidati in stato di ebbrezza da coloro cui appartenevano. Nè ha, d’altra parte, escluso la codice della strada in precedenza in vigore, il giudice penale è tenuto comunque ad irrogare a seguito della commissione di taluni reati.

La novella ha sostanzialmente "depenalizzato" la sola sanzione accessoria specificamente introdotta per la prima volta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito dalla L. 24 luglio 2008, n. 125 e già ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità a valenza sanzionatoria penale, al di là dell’inquadramento sistematico tra le misure di sicurezza patrimoniali. Nulla invece si è innovato o mutato quanto alla natura di illecito penale delle fattispecie contravvenzionali (artt. 186, 186 – bis e 187 C.d.S.) che fungono da presupposto per l’applicazione della stessa misura. Non vengono quindi in gioco i principi stabiliti dall’art. 2 cod. pen., comma 4 (che concerne la successione nel tempo di leggi penali) e dalla L. n. 689 del 1981, come analizzati ed interpretati dalle Sezioni Unite penali con la sentenza n. 7394 del 1994 attesochè si è trasformata in amministrativa solamente una sanzione accessoria, in precedenza penale, non annoverata tra le pene principali nè tra le pene accessorie ( artt. 17 e 19 cod. pen.).

Ed invero l’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. c) (nel testo sul punto, non novellato) stabilisce che, con la sentenza di condanna o con quelle emessa ex art. 444 cod. proc. pen. "è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato" (ovviamente non potendo che demandare l’incombente al giudice penale), disponendo tuttavia in chiusura che "ai fini del sequestro si applicano le disposizioni di cui all’art. 224 ter". Identica disposizione enuncia il testo dell’art. 187, comma 1. L’art. 186 – bis comma 6 fa diretto rinvio all’art. 186, comma 2, lett. c).

A’ sensi dell’art. 224 ter, comma 2 – "nei casi previsti dal comma 1 del presente articolo" (ovverosia: nelle ipotesi di reato per le quali è prevista la sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo in cui ha avuto luogo la prodromica sottoposizione del veicolo stesso al sequestro disciplinato dall’art. 213 cod. strada ad iniziativa dell’agente o dell’organo accertatore), il prefetto, ricevute le sentenze od i decreti penali di condanna, applicativi della misura, divenuti irrevocabili ex art. 648 cod. proc. pen., dispone "la confisca amministrativa ai sensi delle disposizioni dell’art. 213 C.d.S., in quanto compatibili".

Disposizione di identico contenuto risulta enunciata dall’art. 224 ter C.d.S., comma 4, in ordine al fermo amministrativo.

Tale disciplina induce pertanto a ritenere che l’"intervento" del prefetto giochi un ruolo di natura sostanzialmente esecutiva di statuizioni preventivamente adottate dal giudice penale, una volta accertata la sussistenza dei reati cui consegue detta sanzione amministrativa. Depone indiscutibilmente nello stesso senso, contrariamente agli assunti del ricorrente, la disposizione enunciata dal comma 7 del citato articolo dovendo il prefetto far luogo alla restituzione dei veicolo all’intestatario in caso di sentenza irrevocabile di proscioglimento. Nè potrebbe valere a dimostrare il contrario – ed a smentire la tesi che qui si sostiene – il caso marginale (art. 224 ter C.d.S., comma 6) della "riserva" di discrezionalità in capo al prefetto in caso di "estinzione del reato per altra causa", tenuto a "verificare la sussistenza o meno delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria", trattandosi comunque di intervento previsto per casi residuali e comunque sempre "subordinato" alla declaratoria di estinzione del reato, demandata esclusivamente al giudice penale.

L’art. 186, commi 9 – bis e art. 187 C.d.S., comma 8 – bis, come novellati, stabiliscono che il giudice penale (una volta affermata la sussistenza delle contravvenzioni de quibus e riconosciuta la penale responsabilità dei conducenti dei veicoli) "revoca la confisca dei veicoli sequestrati, in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità". Siffatte disposizioni, lungi dal configurare "uno spiraglio residuale n.d.r. di intervento dell’autorità giudiziaria" (come si legge nella succitata memoria della difesa) valgono al contrario a ribadire che al solo giudice penale è demandato (anche una volta divenuta la confisca sanzione amministrativa accessoria) pronunziare sulla stessa, applicandola o revocandola, con diretta proiezione del provvedimento stesso in ambito esecutivo. Non pare quindi al Collegio possa dubitarsi, alla stregua della prospettata "lettura" coordinata e sistematica delle richiamate disposizioni dell’applicabilità del principio della perpetuatio jurisdictionis, in capo al giudice penale, quanto ai procedimenti già iniziati sotto il vigore delle precedenti disposizioni ed aventi ad oggetto la verifica della legittimità dei provvedimenti cautelari reali prodromici alla confisca de qua pur nella mutata qualificazione giuridica dell’istituto.

L’elaborazione di tale principio della perpetuatio jurisdictionis, cui è approdata la giurisprudenza di legittimità in talune pronunzie di seguito richiamate, si sviluppa prevalentemente nell’ambito della definizione di questioni attinenti alla competenza, allo scopo di individuare la disciplina normativa regolatrice di specifiche fattispecie, sulla base di due fondamentali presupposti concettuali:

1. successione di leggi processuali nel tempo, regolata, in difetto di disciplina transitoria, dal principio tempus regit actum che incontra il proprio limite nell’altro principio del cd. fatto esaurito "secondo il quale la norma che disciplina in modo diverso una fattispecie processuale non può applicarsi se i relativi presupposti di fatto si sono realizzati ed esauriti prima della entrata in vigore della nuova norma (Cass. Sez. 5 ord. n. 2883/2000;

Cass., Sez. 2, n. 2823/1992)";

2. irretroattività della legge ( art. 11 preleggi), quale principio generale dell’ordinamento, secondo cui, in difetto di disposizioni espressamente dichiarate retroattive, le "nuove" norme non possono che disciplinare fattispecie verificatesi dopo la loro entrata in vigore.

In sintesi può quindi sostenersi che, in base al principio della perpetuano jurisdictionis, salvo che la legge successivamente entrata in vigore non detti una disciplina transitoria applicabile alle fattispecie sorte nel vigore delle precedenti norme, resta ferma, in capo al giudice già investito della questione, la "competenza in prorogano" a pronunziarsi alla stregua della normativa antecedentemente in vigore (cfr. Sez. 1 n. 4351 /1992; Sez. 6 n. 10373 /2002; Sez. 1^ n. 28545/2004; Sez. 1 n. 12148/2005).

Nel caso di specie, (in cui, come si dirà in prosieguo, si deve unicamente procedere alla mera delibazione della legittimità del disposto sequestro preventivo in raffronto alla "nuova" disciplina amministrativa) non può quindi sfuggire, a conforto dell’applicabilità del richiamato principio, che fuori discussione resta anche nella disciplina novellata della confisca amministrativa (cui è prodromico il sequestro) la competenza al riguardo, del giudice penale, come pacificamente già accade in materia di irrogazione delle sanzioni amministrative accessorie della sospensione e della revoca della patente di guida.

Ed a dimostrazione della sussistenza della perpetuano jurisdictionis del giudice penale (in nessun caso messa in discussione dal novellato art. 224 – ter C.d.S., ed anzi semmai, nella sostanza "riaffermata") deve porsi l’accento sull’ancor più stretta connessione, su di una sorta di quasi interdipendenza (pacificamente ricavabile dalla normativa novellata, cui testè si è fatto cenno) tra la confisca "disposta" dal giudice penale e l’applicazione della misura ablativa in sede meramente esecutiva ad opera del prefetto, solamente alla stregua e subordinatamente alla formazione del titolo "esecutivo", una volta sopravvenuta l’irrevocabilità della sentenza penale di condanna o di "patteggiamento" o del decreto penale, di guisa da doversi ritenere precluso al prefetto, in difetto della statuizione del giudice penale, l’adozione in via "esecutiva" ed autonoma della confisca amministrativa, a differenza di quanto previsto in materia di sospensione della patente di guida.

Nè ha pregio l’ulteriore obiezione della difesa secondo cui la tesi propugnata dal Collegio quanto all’applicazione a fatti pregressi, della sanzione amministrativa accessoria della confisca de qua, introdotta dalla citata novella ( L. n. 120 del 2010), ad opera del giudice penale, si porrebbe in aperta violazione del principio di irretroattività sancito dalla L. n. 689 del 1981, art. 1, in difetto di disciplina di diritto intertemporale. Come già chiarito da questa stessa Sezione 4^ con la sentenza n. 45365 del 2010, la lettera del citato art. 1 sancisce l’irretroattività dell’applicazione delle sanzioni amministrative a "violazioni amministrative" commesse anteriormente alla entrata in vigore della legge che le ha introdotte, mentre la "violazione" in questione si riferisce all’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. c), che integra, al contrario, un reato la cui natura è e rimane immutata benchè ad "essa si applichi anche una sanzione che ha ora natura amministrativa: la confisca".

A conclusione di tali osservazioni di ordine preliminare, sembra doversi comunque convenire con l’assunto del ricorrente secondo cui, in nome del principio del favor rei la disciplina amministrativa risulta per definizione più favorevole all’imputato, come peraltro già evidenziato da questa Corte con la citata sentenza n. 40523/2010. Ne discende che i sequestri prodromici alla confisca dei veicoli, appartenenti ai responsabili dei succitati reati commessi successivamente all’entrata in vigore della novella, dovranno quindi eseguirsi in via amministrativa ex art. 224 ter C.d.S., e art. 213 C.d.S., giusta il suddetto, espresso rinvio, fatta comunque sempre salva l’applicabilità del disposto dell’art. 321 cod. proc. pen., commi 1 e 3 – bis in caso di pericolo di reiterazione o di agevolazione della commissione dei reati ed in casi di assoluta urgenza di provvedere.

Quanto della concreta fattispecie, va rilevato che il ricorrente contesta la legittimità delle statuizioni del Tribunale del riesame che ha rigettato la richiesta di revoca del sequestro preventivo dell’autovettura, con cui si assume dal P.M. commesso il reato previsto dall’art. 186 C.d.S., comma 2; sequestro disposto dal GIP ex art. 321 cod. proc. pen., comma 2, in data 15 marzo 2010 e preceduto dal sequestro disposto dalla stessa P.G. ex art. 321 cod. proc. pen., comma 3 bis, il 19 febbraio 2010 (ovvero lo stesso giorno del fatto) a quanto può desumersi a fgl. 7 della memoria dep. il 18 marzo 2011 e dalle deduzioni rese dallo stesso ricorrente nel ricorso introduttivo (fgl. 56) di altro analogo procedimento n. 43514/2010, promosso ex art. 325 cod. proc. pen. pure trattato in data odierna da questo stesso Collegio.

Deve pertanto osservarsi che il sequestro risulta legittimamente adottato dal GIP ex art. 321 cod. proc. pen., comma 2, ovvero in conformità alla normativa vigente al 15 marzo 2010, (tempus regit actum), in previsione della confisca dell’autoveicolo una volta acclarato il fumus commissi delicti della contravvenzione di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2 lett. c); confisca cui resta comunque prodromico il sequestro, anche alla stregua della disciplina dell’istituto successivamente introdotta, fatta salva unicamente la mutata natura – da penale in amministrativa -della sanzione accessoria, ad effetto ablativo, del veicolo stesso. Ne discende che, per il richiamato principio della perpetuatio jurisdictionis e sul presupposto dell’eadem ratio che pacificamente sottende la competenza dello stesso giudice penale ad irrogare anche la sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo (al pari, ad esempio, della sospensione della patente di guida) conseguente ex lege alla commissione della contravvenzione di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. c) (della quale il ricorrente risulta indagato atteso il riscontrato tasso alcoolemico pari a gr./l. 1,84, alla prima prova ed a gr./l. 1,79, alla seconda, mentre era alla guida dell’autovettura de qua, il 19 febbraio 2010) deve ritenersi consentito al giudice penale di effettuare la mera delibazione della persistente legittimità del sequestro, alla stregua della sopravvenuta normativa di natura amministrativa e non più penale.

Ebbene detta verifica altro non concerne – à sensi del vigente art. 224 ter C.d.S., comma 1 – che la presumibile sussistenza del fumus commissi delicti in relazione alla surrichiamata contravvenzione prevista dall’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. c), come attestato dall’ordinanza impugnata; verifica già compiuta dallo stesso GIP ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare di cui all’art. 321 cod. proc. pen., comma 2, preceduto, peraltro, nel caso di specie, come testè osservato, dal sequestro disposto in via d’urgenza, d’iniziativa della stessa P.G. à sensi dell’art. 321 cod. proc. pen., commi 1 e 3 – bis così di fatto, realizzandosi ante litteram quanto espressamente ora prescritto dall’art. 224 ter C.d.S., comma 1.

In conclusione, sarà possibile affermare che i sequestri eseguiti nella vigenza della precedente normativa di ordine generale, possono ritenersi attualmente "sopravvissuti" – nonostante la recente novella – nel caso in cui risultino legittimamente adottati anche sotto il profilo amministrativo e quindi a condizione che sussista il presupposto dell’accertata configurabilità della contravvenzione di guida in stato di ebbrezza prevista dall’art. 186 C.d.S., comma 2 lett. c): presupposto speculare alla sussistenza del fumus commissi delicti necessariamente da delibarsi ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare di cui all’art. 321 cod. proc. pen., comma 2.

Il ricorso, alla stregua delle considerazioni che precedono, deve infine esser rigettato, anche alla luce del jus superveniens, con il conseguente onere del pagamento delle spese, a carico del ricorrente ex art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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