T.A.R. Lazio Roma Sez. II ter, Sent., 03-01-2012, n. 53 Demolizione di costruzioni abusive

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso, notificato in data 26.4.2002 e depositato in data 6.5.2002, i ricorrenti hanno impugnato la determinazione dirigenziale del Comune di Roma-Municipio XIII n. 284 del 18.2.2001, con la quale è stata ordinata la demolizione delle opere edilizie abusive ivi descritte, deducendone l’illegittimità per i seguenti motivi di censura:

1- Eccesso di potere per travisamento dei fatti e disparità di trattamento.

L’immobile in questione rientrerebbe in una zona già ampiamente edificata che, e pertanto, non potrebbe più essere considerata zona vincolata, ma solo da recuperare.

2- Violazione di legge ed eccesso di potere.

Il manufatto sarebbe, comunque, stato realizzato da tempo e , pertanto, l’amministrazione avrebbe dovuto soprassedere.

3- Eccesso di potere per difetto di dionea motivazione.

L’amministrazione avrebbe illegittimamente omesso l’indicazione delle ragioni che l’hanno indotta a decidere per la demolizione.

4- Eccesso di potere.

Sarebbe, comunque, mancata da parte dell’amministrazione, altresì, la comparazione degli interessi coinvolti nella vicenda, tenuto conto che trattasi dell’unica abitazione a disposizione del nucleo familiare.

Il comune si è costituito in giudizio con comparsa di mera forma in data 9.5.2002.

Con l’ordinanza n. 2657/2002 del 23.5.2002 è stata respinta l’istanza di sospensione.

I ricorrenti hanno depositato documentazione concernente la vicenda in data 28.12.2010.

Il comune ha depositato, in data 5.5.2011, memoria difensiva con la quale ha dedotto l’infondatezza nel merito del ricorso del quale ha chiesto il rigetto.

Alla pubblica udienza dell’1.12.2011 il ricorso è stato trattenuto per la decisione alla presenza degli avvocati delle parti come da separato verbale di causa.

Il ricorso è infondato nel merito per le considerazioni che seguono.

In primo luogo la circostanza che su di una zona assoggettata a vincolo paesaggistico si sia nel tempo realizzata una edificazione abusiva diffusa non comporta di per sé il venir meno del vincolo stesso.

In secondo luogo, in caso di ordine di demolizione delle opere abusive, non è necessaria la previa comunicazione dell’avvio procedimentale di cui all’articolo 7 della L. n. 241 del 1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato; inoltre l’ordine di demolizione di una opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione della accertata abusività dell’opera stessa (Consiglio di Stato, sez. IV, 12 aprile 2011, n. 2266) e, proprio in quanto atto vincolato, il suddetto ordine non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Consiglio di Stato, sez. V, 11 gennaio 2011, n. 79).

Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto siccome infondato nel merito.

Considerata la particolare situazione in fatto, si ritiene, tuttavia, di compensare tra le parti costituite le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 dicembre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Maddalena Filippi, Presidente

Maria Cristina Quiligotti, Consigliere, Estensore

Daniele Dongiovanni, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., 14-01-2011, n. 299

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il ricorso in esame, il ricorrente impugna:

la determinazione datata 18 novembre 1996 con la quale il Ministero della difesa ha inflitto allo stesso la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari e la conseguente destituzione dal servizio;

gli atti del procedimento disciplinare della commissione di disciplina, deducendo i seguenti motivi di ricorso:

1)violazione di legge ed eccesso di potere:

1.1)il provvedimento impugnato e le conclusioni della commissione di disciplina sono carenti di motivazione sotto il profilo della logica, dell’adeguatezza, della ragionevolezza, della congruità della sanzione in riferimento ai suoi presupposti;

1.2)l’abnormità del provvedimento risalta dal raffronto con lo stato di servizio dell’ex appuntato ed i suoi precedenti di carriera;

1.3)l’amministrazione non ha proceduto alla sospensione dal servizio limitandosi ad assegnarlo ad altro incarico;

1.4)nell’aprile del 1995 egli ha conseguito, addirittura, la promozione da carabiniere Scelto ad Appuntato;

1.5)i fatti presupposti alla sanzione ed alla destituzione risultano essere di ben altra entità rispetto alla valutazione operata dalla amministrazione, ove tenuto conto delle condizioni di disagio in cui si era venuto a trovare il ricorrente;

1.6)non risulta valutato il contenuto delle giustificazioni fornite dal dipendente né la sua personalità;

1.7)l’art. 60, c. 1, n. 6 della L. n. 599/1954 non specifica con esattezza le fattispecie che comportano l’irrogazione della rimozione con conseguente cessazione dal servizio, lasciando libero arbitrio all’amministrazione;

1.8)anche le norme del regolamento di disciplina militare, di cui ha fatto applicazione l’amministrazione nel caso di specie, prevedono una contestazione generica di violazione dei doveri di ufficio;

1.9)sono stati violati i principi di gradualità e proporzionalità della sanzione;

1.10)sussiste manifesta sperequazione tra la sanzione inflitta in sede penale e quella comminata in sede disciplinare;

1.11)il ricorrente ha restituito spontaneamente quanto aveva indebitamente percepito;

1.12)l’amministrazione non può fare riferimento ai fatti del procedimento penale per irrogare la sanzione disciplinare ma ha l’obbligo di valutarli autonomamente;

1.13)non si è tenuto in considerazione che il militare era rimasto a tutti gli effetti in servizio permanente nonostante il fatto che il reato prevedesse la rimozione del grado e, pertanto, l’adozione del provvedimento cautelativo di sospensione dal servizio;

1.14)non ci sono stati fattori di turbamento sull’attività regolare dell’amministrazione;

1.15)il provvedimento è basato su una disparità di trattamento alla luce di altri casi analoghi già definiti, per prassi consolidata del ministero, con sospensioni disciplinari dal servizio o dall’impiego;

1.16)non è stato applicato l’art. 42, c. 3 della L. n. 1168/1961 secondo cui il Ministro della difesa può discostarsi dal giudizio della commissione di disciplina a favore del militare;

1.17)la sanzione della destituzione non può essere comminata quando il giudice penale ha concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena (art. 4, L. n. 19/1990);

1.18)è stato violato il termine di 180 gg. per l’avvio del procedimento disciplinare, decorrente dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza di condanna.

Si è costituita l’amministrazione resistente.

Le parti hanno depositato memorie e documenti.

All’udienza del 3 dicembre 2010 la causa è stata trattenuto per la decisione.
Motivi della decisione

Con il ricorso in esame, il ricorrente chiede l’annullamento, in uno con gli atti del presupposto procedimento disciplinare, della determinazione datata 18 novembre 1996 con la quale il Ministero della Difesa gli ha inflitto la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari e la conseguente destituzione dal servizio.

Il ricorso è infondato.

In via generale, il Collegio osserva che i reati dei quali si è reso colpevole il ricorrente (truffa pluriaggravata e violazione di dispacci) sono così palesemente idonei ad incidere sul contenuto minimo del rapporto fiduciario che deve intercorrere fra l’Istituzione militare ed i suoi dipendenti nonché sui rapporti esterni con la collettività (decoro, immagine, prestigio, lealtà) da rendere inutile una giustificazione particolarmente diffusa del provvedimento di destituzione, dovendo anzi essere adeguatamente giustificata la decisione di non applicare la sanzione più grave al militare che si sia reso colpevole dei reati in questione.

Ciò posto, le censure sono comunque tutte destituite di giuridico fondamento.

Il ricorrente lamenta il difetto di motivazione in rapporto all’iter logico seguito per arrivare all’irrogazione della sanzione massima. Si duole della incongrua valutazione dei fatti rispetto alla misura della sanzione che avrebbe dovuto essere – alla stregua dei principi di gradualità della pena disciplinare, di discrezionalità del giudizio sulla gravità delle infrazioni nonché di proporzionalità – quella più lieve di sospensione dalla qualifica di cui all’art. 9 della L. n. 1168/1961.

La censura è infondata.

Al riguardo, appare anzitutto utile riassumere brevemente, in punto di fatto, la vicenda sottesa alla inflizione al ricorrente della censurata sanzione disciplinare e della destituzione.

Dagli atti di causa emerge che:

con comunicazione di notizia di reato datata 9 novembre 1994 il comandante del reparto comando della scuola allievi carabinieri di Roma deferiva alla procura militare presso il tribunale di Roma il carabiniere in s.p. Mauro Missaglia per avere indebitamente eseguito, in un lasso temporale compreso tra luglio e ottobre dello stesso anno, variazioni stipendiali a proprio beneficio, approfittando del contingente incarico di addetto all’inserimento dati delle variazioni stipendiali per il CED preso il servizio amministrativo della scuola, tali da determinare un ingiusto profitto quantificabile nella soma di Lire 9.341.400;

con sentenza n. 172, datata 13 marzo 1996, il giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale militare di Roma disponeva a carico del Missaglia, con sentenza divenuta irrevocabile in data 25 aprile 1996, l’applicazione della pena di mesi 6 di reclusione militare, con sospensione di cinque anni dell’esecuzione sotto le comminatorie di legge in forza della accolta prevalenza delle attenuanti generiche (per il reato di truffa pluriaggravata e violazione dei dispacci);

con lettera datata 4 settembre 1996, l’ufficio di segreteria e personale della scuola allievi carabinieri di Roma disponeva che il graduato fosse sottoposto a formale procedimento disciplinare in conformità alle indicazioni della L. n.1168/1961;

l’addebito contestatogli era compendiato ne: l’avere apportato con successive e deliberate azioni esecutive, nei mesi di luglio, settembre ed ottobre 1994, durante il servizio presso il reparto comando della scuola allievi carabinieri di Roma, modifiche all’elaborazione di dati riferiti alle competenze stipendiali gestire in collegamento con il relativo CED materializzando la registrazione, a proprio profitto, di emolumenti illegittimi per una somma complessiva di Lire 9.341.400 in danno dell’amministrazione militare manifestando, pertanto, un comportamento deontologicamente in contrasto con l’etica e le finalità dell’istituzione.

l’inquisito rinunciava esplicitamente e formalmente sia alla ulteriore richiesta o produzione di atti che a presentare per iscritto proprie deduzioni difensive finali;

l’ufficiale incaricato dell’accertamento valutava il comportamento del ricorrente come "indice di una posizione etica in palese e stridente contrasto con i più elementari e sacri requisiti morali ascrivibili a qualsiasi carabiniere, formalmente compendiati nella formula del Giuramento, coincidente con il più solenne impegno assunto nei confronti dell’Istituzione e dei suoi appartenenti. L’aver tratto ingiusto profitto dalla contingente opportunità di accesso all’inserimento dati per il CED è ineluttabilmente espressione di solidità morale claudicante al punto da aver ingenerato quello stato di confusa anomia, fertile humus nel cui ambito hanno trovato agevole possibilità di sviluppo, quali subdoli parassiti della mente, gli intendimenti successivamente materializzati. L’appuntato Missaglia ha manifestato, nella circostanza in disamina, una lucida propensione verso scelte deliberatamente informate alla palmare inosservanza del codice deontologico che deve peculiarizzare ciascun appartenente all’Arma";

l’ufficiale incaricato dell’accertamento, all’esito dei reiterati colloqui avuti con l’inquisito nel corso dell’istruzione dell’accertamento disciplinare e delle informazioni assunte presso il reparto di appartenenza e di impiego, delineava del ricorrente "l’immagine di possibile vittima di momentanea flessione morale e transitoria vulnerabilità psicologica retaggio di contingenti traversìe familiari; circostanze che avrebbero motivato il fronteggiamento di una situazione di disagio altresì sul piano economico, tale da aver fatto vacillare la propria integrità morale" e prendeva atto, altresì, che "a distanza di un biennio dagli avvenimenti in parola, (egli) si professa intimamente conscio della gravità degli eventi cagionati come del vilipendio che essi hanno rappresentato per l’uniforme indossata e per la dignità dell’intera istituzione, dichiarandosene profondamente contrito";

a fronte delle tali circostanze e considerazioni, il ricorrente veniva proposto per la sottoposizione a giudizio di una commissione di disciplina finalizzata alla decisione circa l’idoneità o meno alla permanenza nel grado;

l’ 8 ottobre 1996 l’appuntato veniva deferito al giudizio di una commissione di disciplina e reso edotto di tutte le garanzie procedimentali e di difesa di cui egli avrebbe potuto avvalersi;

il 5 novembre 1996 si riuniva la commissione di disciplina; nel corso della seduta il ricorrente, all’uopo invitato, non presentava propri scritti difensivi né produceva nuovi documenti, ribadendo a voce che quel gesto era stato compiuto perché attraversava un brutto periodo familiare (separato ed in cattive condizioni economiche);

la difesa tecnica veniva assolta pienamente dal tenente Lorenzon Nicola che illustrava le ragioni del gesto ed il pentimento manifestato dal proprio assistito;

all’esito della riunione, la commissione esprimeva il seguente giudizio: "l’appuntato M.M. NON è meritevole di conservare il grado";

il 18 novembre 1996, il Ministero della difesa infliggeva al ricorrente la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari e la conseguente destituzione dal servizio; questa la motivazione:

"Ritenuto:

che le presunte (e non documentate) cattive condizioni economiche conseguenti alla separazione dal coniuge non possono giustificare né attenuare la gravità della mancanza commessa consistente nella fraudolenta sottrazione di somme, in via crescenti, in danno dell’amministrazione;

la mancata adozione del provvedimento cautelare della sospensione dal servizio ha un’unica logica spiegazione ed è che una volta scoperto l’artifizio, il Missaglia non avrebbe avuto modo di reiterare il proprio comportamento fraudolento;

Condivise le conclusioni della commissione di disciplina, tenuto conto della gravità degli addebiti ed atteso che l’inquisito con il suo comportamento contrario ai doveri derivanti dal suo status di carabiniere e altamente lesivo dell’immagine dell’Istituzione, ha evidenziato carenze morali e di carattere che rendono incompatibile la sua ulteriore permanenza nell’Arma;… DETERMINA…".

Ebbene, nella fattispecie, non vi è chi non veda che la sanzione disciplinare inflitta al ricorrente e la pedissequa destituzione sono esenti da manifesta irrazionalità e/o sproporzione. Esse, altresì, risultano assistite da idonea istruttoria, adeguata valutazione dei fatti, corretto svolgimento del procedimento disciplinare e congrua motivazione.

La determinazione impugnata è stata coerentemente motivata e logicamente graduata alla luce delle risultanze istruttorie e della accertata condotta riprovevole; altrettanto correttamente essa è stata ricondotta sotto il paradigma degli artt. 12, lett. f) e 34, n. 6 della L. n. 1168/1961.

In particolare, risulta per tabulas che nel procedimento disciplinare si è tenuto esplicito conto: delle giustificazioni fornite dal ricorrente; delle (presunte e, peraltro, non documentate) condizioni economiche che avrebbero indotto il ricorrente a commettere le infrazioni; del grado di rilevanza delle mancanze commesse rispetto al danno causato all’immagine, al decoro, al prestigio ed alla dignità dell’Istituzione e dell’uniforme indossata; della fraudolenza e degli artifizi utilizzati nella consumazione dell’illecito.

Patente, dunque, l’autonoma valutazione dei fatti e del comportamento, del tutto avulsa da qualunque condizionamento del giudizio penale.

L’amministrazione ha spiegato le ragioni per le quali non ha ritenuto sussistenti i presupposti per la sospensione precauzionale dal servizio: il ricorrente non lo è stato semplicemente perché, scoperto l’artifizio, egli non avrebbe potuto reiterare l’illecito.

La sospensione è, in questi casi (sottoposizione a procedimento penale in qualità di indagato) atto discrezionale (l’amministrazione "può", non "deve"), la cui adozione soggiace ad una valutazione dei fatti rispetto all’opportunità di mantenere in servizio l’indagato (non ancora imputato). L’amministrazione ha compiuto siffatta ponderazione di interessi e la sua decisione appare immune da macroscopici vizi di logicità e/o ragionevolezza. Il Collegio non ravvede, nella mancata sospensione dal servizio, un insanabile contrasto con la successiva, impugnata determinazione né percepisce una illogicità valutativa per contraddittorietà tra atti e comportamenti.

Neppure, poi, possono assumere rilevante consistenza, ai fini della asserita illegittimità dei provvedimenti impugnati, talune circostanze addotte dal ricorrente, come la disparità di trattamento, il suo pentimento, la sospensione condizionale della pena, il contrasto tra il giudicato penale e la misura disciplinare sotto il profilo della accertata gravità dei fatti.

Le elencate circostante non dequotano le mancanze sanzionate.

Ritiene il Collegio, che la valutazione dei fatti contestati e la scelta della sanzione disciplinare da infliggere al militare è espressione dell’ampia discrezionalità di cui è titolare la pubblica amministrazione ed è quindi sottratta al sindacato di legittimità, salvi i macroscopici casi di contraddittorietà e/o di evidente sproporzione tra i fatti contestati e la sanzione inflitta (C.d.s. sez. IV, 20 gennaio 2006, n. 142). Nel caso in esame, l’obiettiva consistenza dei fatti in contestazione appare sorreggere congruamente la valutazione che di essi ha fatto l’amministrazione e la scelta che ne è conseguita, e ciò indipendentemente da ogni (per vero generico) raffronto con altri soggetti le cui (ignote e non documentate) posizioni – presumibilmente valutate dall’amministrazione rispetto a circostanze e situazioni anche storicamente diverse – sono ontologicamente non comparabili con quella del ricorrente.

La circostanza di avere risarcito il danno all’erario, come anche il proprio pentimento, operano come attenuanti nel giudizio penale ma costituiscono, nel diverso procedimento disciplinare, elementi rimessi alla valutazione discrezionale dell’amministrazione procedente nella graduazione della sanzione. E nel caso di specie, non pare al Collegio che l’amministrazione, nell’applicare la sanzione di "stato" abbia fatto – alla stregua di quanto sopra argomentato – mal governo di questa sua discrezionalità.

Va considerato, in proposito, che i fatti in questione furono commessi a distanza di più di un anno dalle vicende familiari che videro coinvolto, suo malgrado, il ricorrente; la circostanza temporale non è di poco conto nell’economia generale della valutazione compiuta dall’amministrazione.

In ordine al lamentato stato fisico della propria moglie, che lo avrebbe esposto ai creditori, si tratta di una circostanza emersa per la prima volta in sede processuale, mai portata prima all’attenzione della commissione disciplinare; essa, pertanto, è del tutto irrilevante.

Quanto al rapporto (id est, asserito contrasto) tra entità della pena inflitta dal giudice penale e misura disciplinare, l’autonomia dei due procedimenti rende improponibile qualsivoglia comparazione tra le due pronunce in termini di contraddittorietà, contrasto ed incoerenza valutativa sulla gravità dei fatti.

Immune da vizi di macroscopica irrazionalità valutativa s’appalesa anche il giudizio di relazione tra i fatti e le conseguenze che l’amministrazione ne ha tratto. Si ribadisce che la valutazione dei fatti contestati ad un militare, ai fini della loro rilevanza disciplinare, appartiene alla sfera di discrezionalità dell’Amministrazione stessa, sicché, fatte salve le ipotesi di manifesta irrazionalità o sproporzione, non vi è spazio per il sindacato del giudice amministrativo in ordine alla scelta di comminare una determinata sanzione disciplinare.

Il ricorrente ha anche censurato la violazione dei termini procedimentali sospettando che l’amministrazione abbia promosso il procedimento oltre il 180mo giorno dalla avuta notizia della sentenza di condanna.

La censura è infondata.

La sentenza di condanna del G.U.P. (n. 172 del 13 marzo 1996) è divenuta irrevocabile in data 25 aprile 1996 (circostanza che si evince dagli atti dell’amministrazione, non confutata dal ricorrente che nella sua memoria del 7 aprile 1997 fa riferimento, erroneamente, alla data di deposito della sentenza). Posto che questo sia stato anche il giorno in cui l’amministrazione ha avuto notizia della pronuncia definitiva (ipotesi temporale più remota ed a vantaggio del ricorrente), il procedimento disciplinare scontava il dies a quo del successivo 21 ottobre.

Or bene, dagli atti risulta che esso è stato avviato, mediante notifica al militare della nota di avvio dell’inchiesta formale (art. 38 della L. n. 1168/1961), il 25 settembre 1996. Ne consegue, per tabulas, che Il termine in questione è stato ampiamente rispettato.

Le conclusioni non mutano ove anche il dies a quo di avvio del procedimento disciplinare lo si volesse far decorrere dal deferimento del militare alla commissione di disciplina (8 ottobre 1996); ed invero, anche in questo caso non risulterebbe superato il computo del termine di avvio del procedimento disciplinare.

Nessuna rilevanza assume, poi, la circostanza che la data e firma di notifica della suddetta nota di contestazione compaiono nella copia della difesa erariale e non nell’originale in possesso dell’interessato. Se il ricorrente intendeva, con questo rilievo, revocare in dubbio la veridicità e/o attendibilità del documento avrebbe dovuto proporre, contro di esso, querela di falso civile.

Il ricorrente sostiene che l’intimata amministrazione non avrebbe tenuto conto, nel determinarsi sulla entità della sanzione, dei precedenti di carriera, dello stato di servizio e del brillante curriculum del ricorrente.

Il Collegio non coglie elementi di contraddittorietà e/o illogicità tali da fondare un ragionevole sospetto di abnormità e/o sproporzione della sanzione inflitta.

Come ammesso dallo stesso ricorrente a pag. 4 del ricorso, egli è stato giudicato costantemente "superiore alla media" (mai un "buono", un "ottimo", un "eccellente"). Addirittura nel periodo precedente la sanzione (tra il 1994 ed il 1995), ha avuto un abbassamento di qualifica a "nella media". Con tutto lo sforzo possibile, il Collegio proprio non riesce a cogliere elementi di fatto in grado di corroborare i sospetti avanzati dal ricorrente. Anzi, scorrendo il foglio matricolare si scopre che il Missaglia ha subito anche una sanzione di "corpo" perché: "Eseguiva il servizio alla porta carraia con l’uniforme in disordine". Niente di particolarmente grave, ma la circostanza non depone, sicuramente, a favore dell’interessato e rappresenta, semmai, un ulteriore tassello a supporto della non implausibilità della motivazione licenziata dall’amministrazione.

Il ricorrente, per supportare la censura di illogicità e contraddittorietà, evidenzia che, in pendenza dei fatti, egli è stato promosso al grado di "Appuntato".

L’interessato trascura la circostanza che le valutazioni propedeutiche alle promozioni scontano le annotazioni riportate sullo stato matricolare del militare. Ebbene, alla data della promozione (13 giugno 1994) al ricorrente ancora non era stata inflitta né la condanna penale (del 13 marzo 1996) né la sanzione disciplinare (del 18 novembre 1996); ecco perché di esse l’amministrazione, correttamente, non ne ha affatto tenuto conto.

Il ricorrente sostiene che l’art. 60, c. 1, n. 6 della L. n. 599/1954 non specifica con esattezza le fattispecie che comportano l’irrogazione della rimozione con conseguente cessazione dal servizio, lasciando libero arbitrio all’amministrazione. Egli sospetta della illegittimità costituzionale della norma per violazione degli artt. 25, c. II e 97 Cost..

Stesse argomentazioni (genericità delle fonti normative di riferimento) sono state svolte, sul piano, però, della illegittimità amministrativa, avuto riguardo agli artt. 9, 10, 14 e 36 del Regolamento di disciplina militare approvato con DPR n. 545/1986.

Il Collegio osserva che l’evocato paradigma normativo dell’art. 60, L. n. 599/1954 non costituisce il corretto parametro di riferimento. Le disposizione di cui ha fatto applicazione l’intimata amministrazione sono gli artt. 34, n. 6 e 12, lett. f) della L. n. 1168/1961 (legge abrogata a seguito dell’entrata in vigore del D.Lvo 15 marzo 2010, n. 66).

Identica, però, la ratio tra le citate disposizioni normative (quella indicata dal ricorrente e quelle applicate alla fattispecie), il Collegio ritiene di poterne trattare, comunque, il merito.

La Corte costituzionale, con sentenza 30 ottobre 1996, n. 363 ha dichiarato costituzionalmente illegittimi l’art. 12, lett. f), e l’art. 34, n. 7, della l. 18 ottobre 1961 n. 1168 nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio continuativo per perdita del grado, conseguente alla pena accessoria della rimozione.

Nel caso di specie, il procedimento disciplinare è stato regolarmente instaurato e la sanzione è stata inflitta all’esito del medesimo.

Tanto premesso, il Collegio osserva che la stessa Corte costituzionale, in numerose pronunce, ha chiarito che è costituzionalmente legittimo il potere di cui dispone l’amministrazione in sede disciplinare nell’apprezzare e rapportare la sanzione alla oggettiva gravità dei fatti commessi. Indeclinabile è, per il giudice delle leggi, l’instaurazione di un procedimento disciplinare necessario sia per consentire, all’amministrazione, la valutazione e l’apprezzamento della gravità dei fatti, ed all’inquisito la facoltà di difendersi; sia per svolgere, nella appropriata sede, il giudizio di relazione tra quei fatti, così come apprezzati, e la sanzione inflitta.

Ebbene, nel caso di specie, l’amministrazione si è determinata sulla scorta di un procedimento disciplinare regolarmente avviato e portato a termine, nel corso del quale essa ha compiutamente valutato ed apprezzato tutti gli elementi della fattispecie, giungendo ad una conclusione che, sul piano logico e della coerenza intrinseca, non ha palesato alcuna disarmonia tra potere, fatti, comportamenti, norma e sanzione.

La censura appena sopra scrutinata s’appalesa, pertanto, infondata.

Il ricorrente sostiene che illegittimamente non è stato applicato l’art. 42, c. 3 della L. n. 1168/1961 secondo cui il Ministro della difesa può discostarsi dal giudizio della commissione di disciplina a favore del militare.

In realtà, il comma è il quarto che così recita: "Il Ministro può discostarsi dal giudizio della Commissione di disciplina a favore del militare".

Anche questa censura non ha pregio.

L’art. 42 l. 18 ottobre 1961 n. 1168 ("Norme sullo stato giuridico dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri"), nella parte in cui prevede che il ministro (ora dirigente militare) possa discostarsi dal parere della commissione di disciplina in casi di particolare gravità, non attribuisce al ministro un ordinario potere di revisione delle deliberazioni adottate nella precedente istanza collegiale, ma si riferisce ad ipotesi del tutto eccezionali o "extra ordinem", nel contesto delle quali al decidente è consentito di valorizzare elementi o presupposti di ordine prospettico generale non tenuti adeguatamente presenti dall’organo istruttorio.

Si tratta, a tutta evidenza, di una facoltà riservata al ministro (ora dirigente militare) che, nella specie, l’organo competente (già il dirigente militare) non ha ritenuto di dovere esercitare.

Le motivazioni sottese al provvedimento impugnato danno ampiamente conto delle ragioni per le quali il dirigente ha ritenuto meritevole di condivisione la proposta dell’organo collegiale.

Semmai, un puntuale obbligo di motivazione si sarebbe reso necessario nel caso in cui il dirigente avesse ritenuto di doversi scostare dalle conclusioni dell’autorità deliberante non potendo egli limitarsi a sostituire la propria all’altra valutazione di merito, ma dovendo invece concretamente individuare le circostanze in base alle quali la proposta formulata dall’organo competente, all’esito del giusto procedimento e con la piena garanzia del contraddittorio, non era meritevole di condivisione

Il ricorrente sostiene che la sanzione della destituzione non può essere comminata quando il giudice penale ha concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena (art. 4, L. n. 19/1990).

La censura è destituita di giuridico fondamento.

L’art. 4 della L. n. 19/1990 ha modificato l’art. 166 Cod. penale che ora così recita:

"La sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie.

La condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l’applicazione di misure di prevenzione, né d’impedimento all’accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa".

Orbene, nel caso in esame l’amministrazione non si è determinata per l’avvio del procedimento disciplinare sulla scorta della sentenza di condanna, come se questa avesse costituito la ragione unica e fondante della sanzione espulsiva.

Il fatto illecito commesso dal ricorrente ha avuto una sua propria rilevanza disciplinare all’interno dell’apparato istituzionale militare a cagione delle norme regolamentari e primarie violate dal militare. Inconferente, pertanto, è l’evocazione dell’art. 4 della L. n. 19/1990 atteso che la fattispecie in esame si colloca al di fuori del suo campo oggettivo.

Ad ogni modo, e a tutto concedere, va osservato che la disposizione in esame (comma secondo), come si evince per tabulas, non si applica ai "casi specificamente previsti dalla legge". Tra questi, non v’è dubbio che rientri la disciplina dettata per il personale militare, quest’ultimo destinatario di una normativa specifica e peculiare a cagione della delicatezza dei compiti svolti e del particolare status posseduto.

In conclusione, per tutto quanto sopra esposto ed argomentato, il ricorso in esame non è meritevole di accoglimento e va, pertanto, respinto.

Le spese processuali, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge

Condanna il ricorrente alla refusione delle spese processuali a favore dell’amministrazione intimata che si liquidano in Euro 2.000,00 (duemila,00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Silvio Ignazio Silvestri, Presidente

Franco Angelo Maria De Bernardi, Consigliere

Giuseppe Rotondo, Consigliere, Estensore
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 31-01-2013) 25-09-2013, n. 39864

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 13 gennaio 2012, la Corte d’appello di Catanzaro, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’opposizione proposta da T.G., in qualità di terzo interessato, avverso l’ordinanza, da essa emessa de plano il 17 giugno 2011 e reiettiva della richiesta di revoca della confisca dell’immobile sito in (OMISSIS), località (OMISSIS), disposta L. n. 356 del 1992, ex art. 12-sexies con sentenza della stessa Corte del 19 giugno 2009, che aveva confermato nei confronti di L.R.A. la sentenza del 17 gennaio 2008 del G.u.p. del Tribunale di Catanzaro.

1.1. La Corte premetteva che:

– l’immobile, costituito da terreno con soprastante fabbricato, era stato ritenuto dalla indicata sentenza solo formalmente intestato all’opponente, perchè oggetto di fraudolenta interposizione fittizia e di fatto riconducibile alla disponibilità di L.R.A.;

– l’opponente, che aveva richiamato gli atti e gli elementi illustrati nella richiesta di revoca, aveva anche sollecitato un approfondimento istruttorio, nel rispetto del contraddittorio, con riguardo agli elementi di prova dichiarativa e peritale già acquisiti nel procedimento a carico del L.R., chiedendo la rinnovazione d’ufficio della perizia grafica sulla missiva dattiloscritta indicata in atti, ulteriore verifica peritale sulla sua capacità reddituale e alcuni esami testimoniali.

1.2. La Corte, richiamati, quindi, i principi attinenti alla possibile attività istruttoria nella pendente fase incidentale, rilevava, a ragione della decisione, che:

– le richieste difensive di riassunzione della prova testimoniale non sostanziavano alcuna circostanza significativa, non considerata in sede giudiziale, idonea a una seria prospettazione di una rivalutazione critica del contenuto delle sommarie informazioni testimoniali, nè gli argomenti difensivi, che riproponevano i rilievi critici già esaminati in sentenza e ripercorsi, intaccavano le statuizioni definitive di merito;

– non era apprezzabile l’utilità di approfondimenti peritali sulla missiva dell’1 settembre 1994, indirizzata al sindaco di (OMISSIS) a firma del direttore dei lavori del costruendo albergo, fondati sulle rappresentate divergenti conclusioni dei consulenti di parte in ordine alla identificazione del nominativo riportato nel detto documento e poi cancellato, avuto riguardo alle condivise ragioni esposte nell’ordinanza opposta e alla concorde correlazione del dato tecnico con altri elementi indiziari circa la cointeressenza del L. R. nel disbrigo di pratiche comunali relative all’immobile;

– erano di valore neutro le allegazioni difensive volte a screditare i rapporti d’illecita cointeressenza tra l’opponente e il L.R., risultanti dall’episodio della tentata truffa aggravata ai danni dello Stato posta in essere dall’opponente e specificamente descritta;

– le vicende cautelari che avevano attinto l’opponente e l’immobile in questione, in relazione alla imputazione di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12-quinquies non avevano intaccato la contestata fittizietà della intestazione dello stesso immobile in capo all’opponente e la sua riconducibilità alla disponibilità del L. R.;

– la dimostrazione di disponibilità economiche dell’opponente, ulteriori rispetto ai redditi documentati e riportati in sentenza, non assumeva ex se rilevanza decisiva in favore dell’assunto difensivo e faceva apparire irrilevanti ulteriori indagini patrimoniali circa la disponibilità finanziaria dell’opponente a far fronte agli esborsi attinenti alla iniziativa economica in oggetto.

2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo dei difensori, avv. G. V. e avv. N. C., T.G., che ne ha chiesto l’annullamento sulla base di tre motivi.

2.1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto violazione dell’art. 666 c.p.p., comma 5, come risultante dalla illogica motivazione di rigetto delle richieste di integrazione probatoria.

Secondo il ricorrente, che ha richiamato le vicende cautelari, relative all’applicazione di misure personali e di provvedimenti ablatori del bene oggetto della procedura, e ha rilevato che, in sede cautelare, non si sono ritenuti sussistenti indizi a suo carico per il reato di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12-quinquies nè è stato mantenuto il sequestro dell’immobile, invece sequestrato nei confronti di L.R.A., la Corte d’appello è incorsa nella indicata violazione di legge per avere valutato l’assunzione di ufficio di nuove prove secondo il criterio della decisività ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., e non, recuperato il contraddittorio con l’opposizione, secondo il prudente apprezzamento in coerenza al potere probatorio riconosciuto al giudice dell’esecuzione.

Nè, ad avviso del ricorrente, la Corte ha logicamente motivato il rigetto della richiesta di integrazione probatoria, poichè le dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni testimoniali, non sottoposte a una valutazione di resistenza al contraddittorio delle parti essendo stato il L.R. giudicato secondo le forme del giudizio abbreviato, non sono state comparate e valutate unitariamente a quelle assunte dalla difesa, come da verbali ex art. 391-bis cod. proc. pen., versati in atti, omettendo ogni riferimento a esse.

Anche la motivazione resa in ordine al rigetto della richiesta di approfondimento peritale, fondata sulla divergenza delle conclusioni dell’elaborato tecnico della difesa nel procedimento penale a carico del L.R. rispetto a quelle della consulenza del Pubblico Ministero, è illogica e svolta con argomentazioni parziali neppure correlate alle mosse contestazioni, e la superfluità delle integrazioni probatorie è stata affermata perchè è mancato un confronto con il materiale indiziario proposto dalla difesa e con le produzioni documentali offerte.

2.2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto violazione della L. n. 356 del 1992, art. 12-sexies illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), e violazione dell’art. 192 cod. proc. pen..

Secondo il ricorrente, la Corte è incorsa negli indicati vizi per avere applicato all’accertamento della intermediazione fittizia del terzo lo stesso metro previsto per l’accertamento dell’accumulazione illecita del condannato, mentre doveva spiegare le ragioni della ritenuta interposizione fittizia indicando gli elementi dimostrativi del superamento della coincidenza tra titolarità apparente e disponibilità effettiva del bene, e considerare la sua assoluzione dal reato di intestazione fittizia, la genesi dell’acquisto del bene, l’impegno economico profuso per l’ideazione del progetto e la realizzazione della struttura, e la sua capacità economica pure affermata nell’ordinanza.

3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato requisitoria scritta, concludendo per il rigetto del ricorso.

4. L’11 gennaio 2013 il ricorrente ha depositato motivi nuovi e brevi note di replica a firma dell’avv. F. L., nominato suo procuratore speciale, sottolineando che l’estraneità del terzo al giudizio di merito a carico del concorrente necessario imponeva di affrontare nella fase esecutiva la questione della confisca con ampie garanzie della difesa, e denunciando la mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla affermata totale riconducibilità a L.R.A. dell’immobile oggetto di confisca, con richiesta subordinata di approfondimento, in sede di rinvio, di ogni circostanza utile, anche sotto il profilo della capacità patrimoniale, a chiarire in quale misura, eventualmente, il detto immobile fosse riconducibile alla reale titolarità di esso ricorrente.

5. Sono pervenute note difensive del 16 gennaio 2013 a firma dell’avv. G. V., che, in replica alle deduzioni della Procura Generale, ha richiamato e ulteriormente illustrato e puntualizzato le ragioni esposte a fondamento dei motivi del ricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Questa Corte ha più volte affermato che per i soggetti portatori di un interesse meramente civilistico, quali sono i terzi interessati che propongono ricorso contro il decreto che dispone la misura di prevenzione della confisca (Sez. 6, n. 46429 del 17/09/2009, dep. 02/12/2009, Pace e altri, Rv. 245440; Sez. 6, n. 13798 del 20/01/2011, dep. 07/04/2011, B., Rv. 249873; Sez. 2, n.27037 del 27/03/2012, dep. 10/07/2012, Bini, Rv. 253404), o contro il decreto di sequestro funzionale alla confisca per equivalente ai sensi dell’art. 322-ter cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 13154 del 19/03/2010, dep. 08/04/2010, Arango Garzon, Rv. 246692), o contro il decreto di sequestro preventivo disposto dal giudice per le indagini preliminari (Sez. 3, n. 8942 del 20/10/2011, dep. 07/03/2012, P.T.S.r.l., Rv. 252438), o contro l’ordinanza resa nel procedimento di opposizione a un provvedimento di confisca (Sez. 1, n. 10398 del 29/1072012, dep. 16/03/212, L. e altri, Rv. 252925) deve trovare applicazione la regola dettata dall’art. 100 cod. proc. civ. per la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, secondo la quale tali soggetti "stanno in giudizio col ministero di un difensore munito di procura speciale".

La posizione processuale del terzo interessato è, infatti, nettamente distinta, sotto il profilo difensivo, da quella dell’indagato e dell’imputato (la cui posizione è estesa al soggetto sottoposto a misure di prevenzione, ai sensi della L. n. 1423 del 1956, art. 4, u.c.), che, in quanto assoggettati all’azione penale, possono stare in giudizio di persona, avendo solo necessità di munirsi di un difensore che, oltre ad assisterli, li rappresenta ex lege e che è titolare di un diritto di impugnazione nell’interesse del proprio assistito per il solo fatto di rivestire la qualità di difensore, senza alcuna necessità di procura speciale, che è imposta solo per i casi riservati espressamente dalla legge alla iniziativa personale dell’imputato.

Invece, il terzo interessato, che, come i soggetti indicati dal richiamato art. 100 cod. proc. pen., è portatore di interessi civilistici, non può stare in giudizio personalmente, avendo, secondo quanto previsto per il processo civile dall’art. 83 cod. proc. civ., un onere di patrocinio che è soddisfatto attraverso il conferimento di procura alle liti al difensore.

3. Nella specie, T.G., terzo interessato alla restituzione del bene immobile sito in (OMISSIS), località (OMISSIS), al medesimo intestato e ritenuto appartenente a L. R.A., come da decreto di sequestro L. n. 356 del 1992, ex art. 12-sexies e successiva definitiva confisca, ha proposto ricorso avverso l’ordinanza del 13 gennaio 2012 della Corte d’appello di Catanzaro, che ha rigettato l’opposizione da lui avanzata avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca della indicata confisca, a mezzo dei difensori avv. G. V. e avv. N. C., che hanno sottoscritto il ricorso unitamente allo stesso ricorrente.

Detti difensori non risultano muniti di apposita procura speciale, neppure in alcun modo richiamata nel ricorso e nelle note depositate, per proporre il ricorso per cassazione.

3.1. Nè può attribuirsi il valore di procura speciale ai fini della proposizione del ricorso alla nomina effettuata dal ricorrente degli stessi indicati difensori in calce all’atto di opposizione ex art. 667 c.p.p., comma 4, "conferendo a entrambi i legali ogni facoltà di legge ed espressa procura speciale affinchè lo difendano nel procedimento di opposizione avverso la ordinanza del 17.6.2011, con la quale rigettava la richiesta di revoca della confisca disposta con sentenza della Corte di appello di Catanzaro emessa il 16.9.2009".

3.2. Questa Corte, chiamata a risolvere a sezioni unite la questione "se sia legittimato a proporre appello il difensore della parte civile munito di procura speciale (mandato alle liti), che non faccia espresso riferimento al potere del difensore di proporre appello", ha ritenuto sussistente tale legittimazione, poichè "la presunzione di efficacia della procura per un solo grado del processo, stabilita dall’art. 100 c.p.p., comma 3, può essere vinta dalla manifestazione di volontà della parte – desumibile dalla interpretazione del mandato – di attribuire anche un siffatto potere", mentre la detta presunzione deve operare senz’altro "ogni volta che vengono utilizzati termini assolutamente generici o quando la procura si limiti a conferire il potere defensionale senza alcun’altra indicazione" (Sez. U, n. 44712 del 27/10/2004, dep. 18/11/2004, P.C. in proc. Mazzarella, Rv. 229179).

Tale principio è stato richiamato da successive decisioni (Sez. 5, n. 33369 del 25/06/2008, dep. 12/08/2008, Pugliese, Rv. 241392; Sez. 5, n. 42660 del 28/09/2010, dep. 01/12/2010, P.C. in proc. Moretti, Rv. 2493379), riaffermandosi che la manifestazione di diversa volontà espressa nell’atto, che può superare la presunzione di efficacia della procura speciale soltanto per un determinato grado del giudizio, sussiste nel caso di richiamo globale a "ogni grado del giudizio", mentre deve essere esclusa nel caso di procura contenente il semplice generico riferimento a "ogni facoltà di legge", che, in assenza di ulteriori specificazioni, deve essere riportato al solo grado del giudizio in cui il conferimento è stato operato.

3.3. Alla luce di tali condivisi principi, deve rilevarsi che la indicata procura in atti rilasciata in calce all’atto di opposizione ex art. 667 c.p.p., comma 4, del 6 luglio 2011 – peraltro preceduta da altra procura speciale, conferita il 28 aprile 2011, in calce alla richiesta di revoca della confisca, all’avv. Giovanni Vecchio "perchè lo difenda nel procedimento volto alla revoca della confisca … e alla restituzione del bene" – non contiene alcun dato che consenta di ritenere manifestata la volontà del ricorrente di conferire ai nominati difensori il potere di proporre impugnazione, non essendovi alcun riferimento ai gradi successivi di giudizio.

4. La inammissibilità del ricorso, che consegue alla mancata osservanza delle forme previste dall’art. 100 cod. proc. civ. e riguarda la stessa legittimazione processuale del ricorrente e come tale ha carattere originario, preclude l’esame delle ragioni di doglianza svolte con il ricorso e con le note di replica, presentate anche a mezzo dell’avv. F. L. nominato dal ricorrente suo procuratore speciale il 15 dicembre 2012 per essere difeso e assistito in questo giudizio di legittimità unitamente all’avv. G. V., già nominato.

5. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè – valutato il contenuto del ricorso e in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità – al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. VI 16-12-2008 (10-12-2008), n. 46296 Mandato d’arresto europeo – Consegna per l’estero – Rispetto dei diritti fondamentali della persona

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

CONSIDERATO IN FATTO E IN DIRITTO
Con un primo motivo di impugnazione la difesa dell’imputato deduce vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento all’art. 18, lett. h); art. 18, lett. v) e art. 19, lett. a), mandato di arresto europeo, sotto il profilo del dedotto mancato rispetto, da parte delle Istituzioni romene, degli standards di garanzia europei previsti per il sistema penitenziario.
In particolare, la difesa contesta la genericità di tale doglianza, quale ritenuta invece nella censurata sentenza, che non avrebbe tenuto conto:
a) che nel settembre 2005 la Commissione parlamentare italiana della Camera dei deputati per i diritti umani aveva rilevato in Romania una grave e generalizzata condizione di degrado, al punto da concludere con la "raccomandazione" di demolizione di un penitenziario;
b) che nel 2007 il Parlamento europeo aveva manifestato preoccupazione in merito al rispetto in Romania dei diritti fondamentali, protetti in particolare dall’art. 3 della C.E.D.U.;
c) che nell’ordinamento romeno non esistono istituti o misure alternative alla detenzione, con un grave "vulnus" alla funzione rieducativa e di risocializzazione della pena, con violazione del disposto dell’art. 18, lett. v), del mandato di arresto europeo.
Con un secondo motivo, che costituisce sviluppo del motivo sub 1 lett. c), si lamenta la mancata richiesta da parte della Corte di appello allo Stato di Romania di una "relazione sullo stato attuale dei penitenziari rumeni" e delle alternative alla sanzione detentiva carceraria.
Entrambi i motivi, per la loro stretta interdipendenza, vanno congiuntamente esaminati, pervenendo comunque ad un finale giudizio di loro infondatezza, come richiesto dal Procuratore generale in udienza.
Come rilevato dalla sentenza impugnata, le censure, svolte dal ricorrente, tendono a prospettare una condizione di complessiva "disumanità del sistema penitenziario" dello Stato richiedente, sotto il doppio profilo di una inadeguatezza di edilizia penitenziaria e di una assenza di risposte giudiziarie, elastiche e adeguate ai profili di risocializzazione e rieducazione del condannato.
In buona sostanza si eccepisce che il trattamento, riservato alla persona richiesta, non è in linea con i modelli di minimalità richiesti dalle norme europee e, pertanto, realizzerebbe una condizione permanente ed ostativa alla consegna, essendovi il serio rischio di trattamenti inumani e degradanti (art. 18, lett. h), in un contesto di disciplina del trattamento carcerario che risulta privo di misure alternative.
Tanto premesso, ritiene il Collegio che le indicazioni offerte dal ricorrente, circa le condizioni di fatto e giuridiche, in Romania, della esecuzione di pene detentive, dopo condanna definitiva, non si sottraggano al giudizio di genericità rilevato dalla Corte distrettuale, tenuto anche conto della risalenza dei riferiti accertamenti (2005 e primi mesi del 2007).
Quanto alla mancata previsione di misure alternative, o di attenuazione della risposta giudiziaria di condanna essa non realizza in alcun modo una realtà che possa legittimare il rifiuto di consegna, il quale è consentito, previo controllo della legislazione straniera (e per reato commesso da cittadino straniero all’estero) in punto di:
a) carcerazione preventiva, laddove la legislazione dello Stato membro di emissione non preveda limiti massimi di durata (art. 18, lett. e);
b) mancanza di equità del processo e del doppio grado di giurisdizione (art. 18, lett. g);
C) omessa previsione di uno specifico favorevole trattamento anche carcerario dei minori di età (art. 18, lett. i);
d) sentenza straniera, per la cui esecuzione è stata domandata la consegna, contenente disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
La non ricorrenza di alcuna di tali condizioni impone quindi il rigetto dell’impugnazione, tenuto conto, per ciò che attiene al punto d), presupposto della consegna per l’estero, in base alla L 22 aprile 2005, n. 69, art. 7, comma 3, è che il reato per il quale essa è richiesta sia punibile in astratto dalla legge dello Stato membro di emissione con una pena o con una misura di sicurezza privativa della libertà personale della durata massima non inferiore a dodici mesi, non rilevando:
– che la pena detentiva sia stabilita in alternativa a una pena pecuniaria, concretamente irrogabile all’esito del giudizio (Cass. Penale sez. 6^, 11598/2007, Rv. 235948, Stoimenovski);
– che la pena detentiva (così come individuata come nella specie in caso di condanna irrevocabile) abbia sviluppi diversi dalla mera esecuzione in ambiente carcerario, in assenza di trattamenti alternativi od altri benefici penitenziari, non previsti nell’ordinamento dello Stato richiedente e non suscettibili di preventivo controllo da parte dello Stato richiesto.
Quanto alla questione del giudizio contumaciale, ripresa nel ricorso in termini di assoluta genericità, va ribadita l’argomentazione della Corte di appello di Milano e cioè che l’ordinamento dello Stato richiedente consente la rinnovazione del giudizio contumaciale e che il beneficio della sospensione condizionale della pena non integra un "diritto" del condannato neppure nel nostro sistema penale.
Il ricorso risulta pertanto infondato e la parte proponente va condannata ex art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.