Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-07-2012, n. 11658 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza di prime cure che aveva rigettato la domanda, proposta da A.G. nei confronti di Poste Italiane s.p.a., avente ad oggetto la declaratoria dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso fra le parti nel periodo 7 giugno 2006 – 31 ottobre 2006, contratto stipulato ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis.

2. La Corte territoriale riteneva, in particolare, la piena conformità della norma in questione alla normativa comunitaria;

escludeva inoltre la sussistenza di profili di illegittimità costituzionale della norma in esame.

3. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l’ A. affidato a un unico motivo; Poste Italiane s.p.a. resiste con controricorso illustrato da memoria.
Motivi della decisione

4. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, in relazione alla direttiva n. 1999/70/CE con riferimento alla clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro. Deduce l’erroneità della tesi, accolta nella sentenza impugnata, secondo cui la norma in questione non viola la cd. clausola di non regresso di cui all’accordo quadro, in quanto "una reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato non è in quanto tale vietata dall’Accordo quadro quando non è in alcun modo collegata con l’applicazione di questo". Ad avviso del ricorrente siffatta tesi sarebbe in contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Sottolinea che non vi sono, nel caso delle Poste, ragioni oggettive che possano giustificare la non applicazione della clausola stessa.

5. Il ricorso è infondato.

6. Giova premettere che la norma in esame (il D.Lgs. n. 368 del 2001, citato art. 2, comma 1 bis), recita testualmente: Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche quando l’assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell’organico aziendale, riferito al 1 gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma. Il testo della suddetta disposizione non pone problemi interpretativi: esso prevede la possibilità, per le imprese concessionarie di servizi postali, di stipulare contratti a termine, con i limiti e nei periodi ivi previsti, a prescindere dal ricorrere delle condizioni di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e senza la necessità di indicare, in sede di stipulazione del contratto, le ragioni obiettive che giustifichino l’apposizione del termine. Per il resto la natura aggiuntiva della previsione in esame e la sua interpretazione sistematica nel contesto normativo nel quale si colloca, inducono a ritenere che la sua applicazione non esime il datore di lavoro dall’obbligo della forma scritta (D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2) e da quello di consegnare copia dell’atto al lavoratore entro un certo termine (art. 1, comma 3) come pure dall’obbligo di rispettare le altre norme di cui al citato D.Lgs., come, in particolare, quella in materia di divieti (art. 3), in materia di proroga (art. 4), di scadenza del termine e di successione dei contratti (art. 5) e di principio di non discriminazione (art. 6).

7. L’interpretazione della norma in esame accolta da questa Corte di legittimità ha trovato autorevole conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, la quale, premesso che tale norma costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine, ha affermato che con essa il legislatore, in base ad una valutazione – operata una volta per tutte in via generale e astratta – delle esigenze delle imprese concessionarie di servizi postali di disporre di una quota (15 per cento) di organico flessibile, ha previsto che tali imprese possano appunto stipulare contratti di lavoro a tempo determinato senza necessità della puntuale indicazione, volta per volta, delle ragioni giustificatrici del termine. Ad avviso della Corte costituzionale tale valutazione, preventiva e astratta, operata dal legislatore non è manifestamente irragionevole atteso che la garanzia alle imprese in questione, nei limiti indicati, di una sicura flessibilità dell’organico, è direttamente funzionale all’onere gravante su tali imprese di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonchè la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali costituiscono attività di preminente interesse generale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità de servizio). In particolare, poi, in esecuzione degli obblighi di fonte comunitaria previsti dalla direttiva CE da ultimo citata, l’Italia deve assicurare lo svolgimento del cd. servizio universale (il cui contenuto concreto è previsto dal citato D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 3); in particolare, a norma del comma 1, citato art. 3, il servizio universale assicura le prestazioni in esso ricomprese, di qualità determinata, da fornire permanentemente in tutti i punti del territorio nazionale a prezzi accessibili a tutti gli utenti. Sulla base delle suddette considerazioni la Corte ha escluso la sussistenza di un profilo di incostituzionalità del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, rispetto ai principi di cui all’art. 3 Cost. avendo ritenuto non manifestamente irragionevole che, ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato. E ciò è tanto più valido in quanto il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nell’imporre alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzione a termine, prevede un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma.

8. Con la stessa sentenza la Corte costituzionale ha ritenuto la piena legittimità della norma in esame anche con riferimento all’assenza di violazione dei principi di cui agli artt. 101, 102 e 104 Cost., avendo osservato che la norma censurata si limita a richiedere, per la stipula dei contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale (non già l’indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell’organico complessivo) per cui il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale alfine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale.

9. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente la disposizione in esame deve essere considerata pienamente conforme all’ordinamento comunitario. Come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza sopra citata, infatti, essa trova il proprio fondamento e la propria giustificazione nella direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio.

10. Tale approccio ha trovato conferma anche nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (cfr. ordinanza in data 11 novembre 2010), chiamata a valutare la conformità all’ordinamento comunitario dell’art. 2, comma 1 bis, in esame.

11. Anche la Corte di giustizia, infatti, ha valorizzato, ai fini della propria statuizione, l’assunto che l’adozione dell’art. 2, comma 1 bis, era finalizzata a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità allo scopo di garantire l’attuazione della direttiva 1997/67/CE (in tema di sviluppo del mercato interno dei servizi postali), con particolare riferimento allo sviluppo del mercato interno dei servizi postali e il miglioramento della qualità del servizio.

12. Tale disposizione perseguiva, pertanto, ad avviso della Corte, uno scopo distinto da quello consistente nella garanzia dell’attuazione, nell’ordinamento nazionale, dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001. Ciò trova conferma nel fatto che essa è stata introdotta nell’ordinamento dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266 (art. 1, comma 558) che, data la sua natura di legge finanziaria, non era finalizzata a garantire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito dall’accordo quadro e, quindi, ad integrare le misure di recepimento dell’accordo quadro.

13. Sulla base di tale rilievo la Corte di giustizia ha affermato l’irrilevanza di ogni valutazione circa l’efficacia della tutela garantita dall’art. 2, comma 1 bis, rispetto a quella perseguita dall’accordo quadro con riferimento all’assunzione di lavoratori a tempo determinato; ed infatti, secondo la costante giurisprudenza della Corte di giustizia, richiamata nell’ordinanza de qua, (C-144/04 22 novembre 2005, Mangold; C-378/07 23 aprile 2009, Angelidaki; C- 519/08 24 aprile 2009 (ordin.) Koukou) una normativa nazionale non può essere considerata contraria alla clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (ai sensi della quale L’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso) di cui alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 nel caso in cui la reformatio in peius che essa comporta non sia in alcun modo collegata con l’applicazione dell’accordo quadro. Ciò che avviene in tutti quei casi (fra i quali è sicuramente quello in esame) in cui la reformatio in peius sia giustificata non già dalla necessità di applicare l’accordo quadro, bensì da quella di promuovere un altro obiettivo, distinto da detta applicazione.

14. Sulla base dei suddetti rilievi la Corte di giustizia ha affermato il principio secondo cui la citata clausola 8, punto 3 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato di cui alla Direttiva 1999/7O/CE del Consiglio del 28 giugno 1999, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale quale quella prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, la quale consente a un’impresa, quale Poste Italiane, di concludere, rispettando determinate condizioni, un primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato con un lavoratore senza dover indicare le ragioni obiettive che giustifichino il ricorso a un contratto concluso per una siffatta durata, dal momento che questa normativa non è collegata all’attuazione di detto accordo quadro.

15. Con riferimento, infine, al profilo, pure invocato dal giudice del rinvio, della sussistenza di una violazione dei principi della parità di trattamento e di non discriminazione, concernente i lavoratori a tempo determinato assunti da un’impresa postale con riferimento all’insussistenza dell’obbligo di indicare le ragioni oggettive del ricorso ad un primo o unico contratto a termine, la Corte di giustizia, richiamata la propria giurisprudenza secondo cui, nell’ambito dei contratti di lavoro a tempo determinato, il principio di non discriminazione è stato attuato dall’accordo quadro unicamente per quanto riguarda le disparità di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato (C- 307/05 13 settembre 2007 Del Cerro Alonso), ha precisato che le eventuali disparità di trattamento tra determinate categorie di lavoratori a tempo determinato non sono soggette al principio di non discriminazione sancito dall’accordo quadro.

16. Valgono quindi, con riferimento al caso di specie, le conclusioni della Corte costituzionale prima ricordate in tema di insussistenza di una violazione del principio di uguaglianza.

17. La decisione impugnata ha correttamente applicato i suddetti principi, pienamente condivisi da questa Corte di legittimità, e pertanto il ricorso deve essere rigettato.

18. In applicazione del criterio della soccombenza il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 50 per esborsi, oltre Euro 3000 (tremila) per onorari e oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 24-01-2011, n. 494

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Gli appellanti, militari appartenenti, con gradi non superiore a quello di tenente colonnello alle varie Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri) hanno proposto autonomi ricorsi innanzi al TAR per il Lazio volti ad ottenere l’accertamento del loro diritto a vedersi corrispondere, in relazione al servizio svolto all’estero, la speciale indennità di cui all’art.3 della legge 8/7/1961 n.642 nella stessa misura e con la medesima decorrenza previste per il personale militare dirigenziale costituito dai Colonnelli e Generali di Brigata.

L’adito TAR con sentenza n. 9473 del 30/10/2008 rigettava i ricorsi proposti ritenendoli infondati.

Gli interessati, con gli appelli in epigrafe, hanno impugnato tale sentenza, ritenendola errata in relazione alle osservazioni e alle conclusioni ivi contenute.

In particolare a sostegno dei proposti gravami, recanti censure di uguale tenore, con un solo, articolato mezzo di gravame, sono stati dedotti i vizi di violazione dell’art.3 della legge n.642/1961 e di eccesso di potere per illogicità e disparità di trattamento.

Assumono, in sostanza, gli appellanti che la diversa percentuale di rivalutazione attribuita ai Colonnelli e ai Generali, così come la diversa decorrenza non trovano giustificazione alcuna nella normativa disciplinante tale emolumento, che risulterebbe legato unicamente alle condizioni di servizio e non al diverso grado rivestito, di talché nella specie si sarebbe inverata, con la diversificata attribuzione, una illegittima disparità di trattamento operata dall’Amministrazione a danno degli appellanti.

Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni intimate (Ministero della Difesa, Ministero degli Affari Esteri e Ministero dell’Economia e delle Finanze), che hanno contestato la fondatezza dei proposti gravami, chiedendone la reiezione.

All’udienza pubblica del 21 dicembre 2010 la causa è stata trattenuta in decisione.

Tanto premesso, occorre in via preliminare disporre la riunione degli appelli in epigrafe, ai sensi dell’art.335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni proposte contro la stessa sentenza.

Premesso che l’esatta identità delle censure poste a fondamento dei due appelli richiede un’unica loro disamina, ritiene il Collegio che le proposte impugnative, in quanto infondate, vanno rigettate.

L’emolumento oggetto di controversia è previsto dall’art.3 della legge n.642 dell’8 luglio 1961, secondo cui "al personale di cui all’art.1 (personale militare dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica destinato isolatamente presso delegazioni o rappresentanze militari all’estero, per un periodo superiore a sei mesi) può essere attribuita, qualora l’assegno di lungo servizio all’estero non sia ritenuto sufficiente in relazione a particolari condizioni di servizio, una indennità speciale da stabilirsi nella stessa valuta dell’assegno di lungo servizio all’estero".

Con decreti interministeriali del 31 luglio 2003 e del 22 dicembre 2003 è stata disposta la rivalutazione dell’indennità speciale di che trattasi con la previsione di importi differenti a seconda del grado rivestito e tanto sulla base delle decisioni dalla Commissione Permanente di Finanziamento (CPF) di cui ai verbali rispettivamente del 12/12/2002 e del 15/12/2003, facendo decorrere dette rivalutazioni dalla data immediatamente successiva a quella di riunione della Commissione suindicata.

In relazione alle suindicate determinazioni assunte dall’Amministrazione gli interessati sollevano due questioni:

a) contestano il quantum di detta rivalutazione sul rilievo che il riconoscimento di indennità speciali di importo differente a seconda del grado rivestito introdurrebbe una disparità di trattamento non consentita dalla normativa e prima non esistente. Al riguardo sostengono che sulla scorta del l’art.3 della legge n.462/61, l’indennità speciale in questione vada determinata solo in ragione delle particolari condizioni di servizio e non in base al grado rivestito, di talché non sarebbe giustificata la diversa, più vantaggiosa rivalutazione operata in favore degli ufficiali col grado di Colonnello e Generale di Brigata (personale militare dirigenziale) e richiamano a sostegno delle loro tesi il Decreto Interministeriale 15/4/1985, secondo cui le indennità speciali ex art.3 citato erano attribuite in percentuale pari al 40% dell’assegno di lungo servizio all’estero (ALSE);

b) contestano la diversa decorrenza delle rivalutazioni concesse con il D.I del 31/7/2003 e con il D.I. 22/12/2003 che darebbe luogo, anche sotto tale profilo, ad una ingiustificata disparità di trattamento.

Ciò precisato, la pretesa patrimoniale fatta valere in giudizio dai militari interessati, come articolata in primo grado e reiterata in appello, va disattesa, in quanto giuridicamente infondata, meritando le statuizioni del primo giudice integrale conferma.

Invero, con riferimento alla questione sub a) si osserva che l’indennità di che trattasi è collegata ontologicamente all’assegno di lungo servizio all’estero (ALSE), emolumento che, per sua stessa struttura, è attribuito in misura diversa a seconda del grado o della qualifica, per cui, dal momento che l’ALSE varia, relativamente al quantum, in ragione dal grado, anche l’indennità di che trattasi, calcolandosi sull’assegno di lungo servizio, varia a seconda del grado.

Né vale a smentire la "variabilità" dell’indennità per cui è causa il richiamo al D.I. del 15/3/1985, in base al quale "le indennità speciali di cui all’art.3 della legge n.642 del 1961 sono attribuite in percentuale pari al 40% dell’assegno di lungo servizio all’estero", atteso che in realtà con tale decreto ci si è limitati a fissare una percentuale che andava applicata di volta in volta ai diversi ALSE.

Neppure appare condivisibile la tesi della non differenziazione dell’indennità, pure sostenuta dagli appellanti sulla base del ragionamento che l’indennità in questione è ancorata unicamente alle particolari condizioni di servizio e non al grado.

Invero, sulla scorta di un’analisi logicosistematica della norma ex art.3 più volte citata, si può agevolmente rilevare che, con il riferimento alle particolari condizioni di servizio, il legislatore ha inteso indicare solo il presupposto per l’erogazione della indennità, senza che ciò possa, però, determinare una misura unica dell’indennità stessa.

D’altra parte, la differenziazione del quantum operata in relazione alle due fasce di beneficiari, i militari fino al grado di Tenente Colonnello da un lato e quelli col grado di Colonnello e di Generale di Brigata dall’altro lato (corrispondenti questi due ultimi due gradi alla dirigenza militare) appare supportata da una logica giustificazione, avuto riguardo al ruolo, alle responsabilità e alla complessità delle funzioni connesse ai diversi gradi della gerarchia militare, lì dove è indubbio che sulle figure apicali ricadono compiti professionali e organizzativi più gravosi, con maggiori responsabilità rispetto a chi non riveste qualifiche dirigenziali, per cui risponde a criteri di logicità, ma anche di giustizia sostanziale prevedere l’attribuzione di diversa entità dell’emolumento in questione, in rapporto appunto al grado rivestito.

In definitiva non si ravvisa un’errata e/o falsa applicazione delle disposizioni legislative disciplinanti la subjecta materia, perché il dato normativo nella sua lettura logica e sistematica è tale da avallare le determinazioni assunte dall’Amministrazione di attribuire in maniera differenziata l’indennità prevista dall’art.3 legge n.642/1961 e neppure è configurabile il vizio di disparità di trattamento, non rinvenendosi, nella specie situazioni omologhe a fronte di un diversificato trattamento.

Quanto alla questione sub b) vale qui ribadire quanto già correttamente statuito sul punto dal TAR nell’affermare che giustamente è stata prevista la corresponsione delle indennità con decorrenza dal giorno immediatamente successivo a quello in cui da parte della Commissione Permanente per il Finanziamento è stato espresso parere favorevole alla loro rivalutazione, giacché le determinazioni di questo Organismo hanno valenza costitutiva in ordine appunto alla erogazione delle indennità speciali e alla rivalutazione delle medesime.

Conclusivamente, gli appelli proposti si appalesano infondati e vanno, pertanto, respinti.

Quanto alle spese e competenze del presente grado del giudizio, sussistono giusti motivi per compensarle tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), previa riunione degli appelli in epigrafe proposti, definitivamente pronunziando, li rigetta.

Spese e competenze del presente grado del giudizio compensate tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Paolo Numerico, Presidente

Armando Pozzi, Consigliere

Sandro Aureli, Consigliere

Andrea Migliozzi, Consigliere, Estensore

Dante D’Alessio, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. VI – sentenza 18 gennaio 2010, n. 1998. Pagare il primario affinchè effettui personalmente e tempestivamente l’intervento chirurgico integra concussione.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 9 luglio 2005 il Tribunale di Roma dichiarava A.E. colpevole del delitto di cui all’art. 317 c.p., quale (OMISSIS) dell’Ospedale convenzionato "(OMISSIS)", prospettando l’assoluta necessità di un intervento chirurgico sulla colonna di D.R. e l’eventualità di una lunga attesa e degenza nell’Ospedale di (OMISSIS) a fronte dei tempi molto più brevi della Clinica "(OMISSIS)" presso la quale egli operava privatamente e ove tuttavia sarebbe occorsa la somma di lire 35 milioni, e altresì la probabilità che in caso di ricovero presso l’Ospedale (OMISSIS) l’intervento venisse effettuato da altro medico, costringeva o comunque induceva la D. – la quale era convinta di non poter fare a mano della prestazione dell’ A. da molti ritenuta altamente specializzata – a promettere, nel (OMISSIS), la somma di L. 5 milioni perchè l’ A. procedesse personalmente all’operazione, e a consegnargli, dopo che l’operazione aveva avuto luogo, nell'(OMISSIS), L. e 3 milioni in contanti e un quadro della fine dell’800 raffigurante " (OMISSIS)".
La decisione impugnata dall’imputato veniva confermata dalla Corte di appello di Roma con sentenza del 30 ottobre 2008.
Avverso questa sentenza propone ricorso l’ A. a mezzo del difensore, deducendo, col primo motivo, il vizio di motivazione sulle censure sollevate in sede di appello, relative in particolare: – alla scarsa credibilità della parte offesa, in ragione delle plurime iniziative giudiziarie direttamente o indirettamente adottate contro il prevenuto con esito sempre negativo; – al contrasto fra il tenore di una lettera scritta dalla sig.ra C., amica della D., nella quale non si parlava dei soldi dati da quest’ultima all’imputato, e la deposizione resa dalla stessa C. in giudizio; – al contrasto fra la urgenza dell’intervento rappresentata, secondo la parte offesa, dal prevenuto (e smentita in parte dalla stessa C.), e i tempi di effettiva esecuzione dell’intervento medesimo; – alle numerose difformità esistenti fra le dichiarazioni della D. e quelle del suo convivente P..
Col secondo motivo, il ricorrente deduce che i fatti cosi come ritenuti in sede di merito sarebbero riconducibili non al delitto di concussione, bensì a quello di corruzione, vertendosi in una ipotesi di trattativa condotta paritariamente al fine di garantire alla D. che l’intervento fosse eseguito personalmente dall’ A..
Con ulteriori note difensive si è infine eccepita l’intervenuta prescrizione del reato.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato, per i motivi di seguito esposti, e tanto rileva ai fini del mantenimento delle statuizioni civili, posto che, agli effetti penali, il reato ascritto deve essere dichiarato estinto per decorso dei termini massimi di prescrizione: infatti, stante la consumazione del reato alla data del (OMISSIS), il termine massimo di 22 anni e mezzo, allungato di 6 mesi e 4 giorni per sospensioni del processo (dal 24 febbraio al 5 maggio 2003 in primo grado e dal 23 giugno al 17 ottobre 2008 in appello) è scaduto il 19 aprile 2009.
Passando ora a esaminare le censure che il ricorrente muove alla sentenza impugnata, in riferimento alle risposte, omesse o viziate, ai motivi formulati nell’atto di appello, si rileva che:
– la considerazione della Corte d’appello, secondo la quale la conflittualità tra imputato e persona offesa rappresenta una costante del processo penale, sicchè non può determinare nel caso di specie anormali criteri valutativi, non è inficiata da carenza o manifesta illogicità alla luce delle plurime iniziative giudiziarie direttamente o indirettamente adottate contro il prevenuto con esito sempre negativo, posto che le stesse si collocano evidentemente nell’ambito della detta conflittualità, della quale si deve correttamente tener conto ai fini della valutazione delle dichiarazioni accusatorie nel contesto del complessivo esame del materiale istruttorio (come fatto dalla Corte capitolina);
– nella sentenza impugnata si da una spiegazione non manifestamente illogica (volontà di non lasciare tracce pregiudizievoli per un professionista di cui essa poteva aver bisogno) del fatto che nella lettera della C. del (OMISSIS) non si parli delle richieste fatte dall’ A. alla D., evidenziando peraltro che le ragioni che avrebbero poi – secondo la difesa – artatamente indotto la D. ad arricchire successivamente le dichiarazioni della C. col riferimento alle dazioni già sarebbero state presenti al momento della redazione della lettera, posteriore a quello (1988) di presentazione della denuncia da parte della D.; onde anche il non illogico rilievo che, sicura essendo la dazione del quadro, l’eventuale iniziale omessa informativa sulle dazioni (che spiegherebbe il silenzio della lettera sulle stesse, non escluso in sentenza con riferimento al quadro, come asserito in ricorso) significherebbe solo che la D. non volle in un primo tempo parlarne e non che abbia aggiunto, in un momento successivo, alla dazione del quadro, quella dei soldi;
– sul contrasto fra la urgenza dell’intervento rappresentata, secondo la parte offesa, dal prevenuto (e smentita in parte dalla stessa C.), e i tempi di effettiva esecuzione dell’intervento medesimo, la sentenza impugnata ha offerto una spiegazione non manifestamente illogica, dando preciso conto delle ragioni del ritardo della detta esecuzione e rilevando, in maniera che non può considerarsi certo irragionevole, che la prospettazione che essa, non operandosi, sarebbe finita sulla sedia a rotelle, non poteva che derivare da conoscenze tecniche di cui la donna non era fornita, onde non rileva che tale circostanza, confermata anche dal P. (convivente della D. ma non per ciò solo inattendibile), non sia stata riferita anche dalla C. (alla quale anzi – osserva ancora non illogicamente la Corte di merito – la D., se l’avesse artatamente inventata, si sarebbe specificamente preoccupata di raccontarla);
– anche sul preteso contrasto esistente fra le dichiarazioni della D. e quelle del suo convivente P. in ordine alla causale del pagamento, la Corte di merito ha offerto una spiegazione non illogica (e contrastata in ricorso con rilievi di carattere sostanzialmente valutativo), rappresentando come la ragione, addotta dal P., di evitare le paventate intempestive dimissioni della donna riguarda specificamente la scelta del momento della corresponsione ma non contraddice la ragione a monte della promessa, riferita dalla D. e dallo stesso P., relativa all’intervento personale nella operazione dell’ A..
Correttamente e logicamente argomentata dalla Corte d’appello è, infine, la qualificazione del fatto come concussione, alla stregua della ricostruzione della vicenda così come operata, in relazione in particolare allo stato di soggezione in cui la D., sofferente e preoccupata, si trovava rispetto al primario Prof. A.. Valga al riguardo ricordare la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale:
– poichè le persone malate ed i loro familiari si trovano particolarmente indifesi di fronte al medico preposto al pubblico servizio sanitario, dalle cui prestazioni dipende la conservazione di beni fondamentali, quali la salute e, in determinati casi, la stessa vita della persona, anche la sola richiesta di compensi indebiti da parte di detto medico acquista, in tale situazione quell’efficacia quantomeno induttiva sufficiente ai sensi dell’art. 317 cod. pen. per la sussistenza del reato di concussione (Cass. 29 marzo 1995, Azzano);
– risponde del reato di concussione, e non di truffa aggravata, il direttore di un’unità operativa cardiochirurgica di un ente ospedaliere, che prospettando ai pazienti, ricoverati per essere sottoposti a delicati interventi chirurgici, il rischio di essere operati dal medico di turno, privo della necessaria pratica, si faccia consegnare, a titolo di ringraziamento, somme non dovute, per condurre egli stesso l’operazione chirurgica (Cass. 30.09.2005, n. 39955).
P.Q.M.
Visti gli artt. 615, 620 e 578 c.p.p.. annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili;
condanna il ricorrente a rimborsare alla parte civile D.R. le spese sostenute nel grado, che liquida in complessivi Euro 3.500,00, oltre spese generali, iva e cpa come per legge.
Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Corte Costituzionale, Sentenza n. 207 del 2011, In tema di definanziamento delle leggi di spesa statali totalmente non utilizzate negli ultimi tre anni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 31 del 20-7-2011

Sentenza nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’articolo 1 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita’ economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dalla Regione Liguria con ricorso notificato il 28 settembre 2010, depositato presso la cancelleria della Corte il 6 ottobre 2010 ed iscritto al n. 102 del registro ricorsi 2010. Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell’udienza pubblica dell’8 giugno 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta; Uditi gli avvocati Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Liguria e l’avvocato dello Stato Antonio Tallarida per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso notificato il 28 settembre 2010 e depositato presso la cancelleria della Corte il 6 ottobre 2010 la Regione Liguria ha impugnato numerose disposizioni del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita’ economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, prospettando, nell’insieme, la violazione degli articoli 3, 97, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione, nonche’ dei principi di leale collaborazione e di legittimo affidamento. 2. – La Regione, in premessa, ha svolto alcune considerazioni sulla ratio normativa che sottende, a proprio avviso, il complessivo contenuto precettivo del decreto-legge in esame. Si osserva, in proposito, che diverse disposizioni contenute nel titolo primo, la cui rubrica reca «Stabilizzazione finanziaria», non tengono conto delle regole costituzionali in materia di coordinamento della finanza pubblica, in quanto pongono limiti rigidi a voci specifiche di spesa. L’inclusione delle Regioni e degli enti locali tra i destinatari delle norme impugnate avviene, prosegue la ricorrente, o mediante espresso riferimento ad esse, oppure mediante il riferimento generico alle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell’art. 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilita’ e finanza pubblica), cioe’ a quelle elencate annualmente dall’Istat entro il 31 luglio di ogni anno. 3. – Tanto premesso in generale, la Regione Liguria, nel sottoporre al vaglio della Corte, tra gli altri, l’art. 1 del decreto-legge n. 78 del 2010, ha dedotto – quanto ad esso – la violazione dei soli artt. 117, quarto comma, e 119 Cost., nonche’ dei principi di leale collaborazione e di legittimo affidamento. 4. – La ricorrente richiama il contenuto della suddetta norma, inserita nel titolo primo del citato decreto-legge, la cui rubrica reca «Definanziamento delle leggi di spesa totalmente non utilizzate negli ultimi tre anni». Essa prevede che «le autorizzazioni di spesa i cui stanziamenti annuali non risultano impegnati sulla base delle risultanze del Rendiconto generale dello Stato relativo agli anni 2007, 2008 e 2009 sono definanziate. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze da adottare entro il 30 settembre 2010 sono individuate per ciascun Ministero le autorizzazioni di spesa da definanziare e le relative disponibilita’ esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge. Le disponibilita’ individuate sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate al fondo ammortamento dei titoli Stato». 4.1. – Con specifico riguardo alla disposizione impugnata, la ricorrente deduce che vi e’ «il fondato timore» che rientri nella suddetta previsione il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 17 dicembre 2009 (Bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’anno finanziario 2010), nel quale 44 milioni di euro sono stati stanziati per il Fondo nazionale per la montagna. A tale decreto non risulta essere seguito alcun atto di impegno formale da parte degli organi dello Stato. Si tratta, in particolare, degli stanziamenti allocati nel capitolo 7620 del bilancio regionale 2010. 5. – La norma in esame sarebbe illegittima, in quanto inciderebbe sull’autonomia finanziaria delle Regioni (art. 119 Cost.) e sulla loro competenza legislativa piena in materia di comunita’ montane (art. 117, quarto comma, Cost.). Una somma gia’ stanziata nel bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri e gia’ destinata alle Regioni – della quale, dunque, queste avevano tenuto conto nell’impostare il proprio bilancio ed i propri programmi – viene "avocata" allo Stato per un mancato impegno che non dipende da alcuna inerzia o colpa della Regione. Cio’ – oltre a discostarsi dal principio di leale collaborazione tra istituzioni – altererebbe la programmazione gia’ compiuta dalla Regione, violando il legittimo affidamento di questa e condizionando le sue scelte finanziarie e legislative relative alle comunita’ montane. Ne’ potrebbe asserirsi che lo stanziamento di cui al d.P.C.m. 17 dicembre 2009 non abbia una specifica garanzia costituzionale a favore della Regione, in quanto, secondo la ricorrente, piu’ volte questa Corte avrebbe dichiarato l’illegittimita’ di leggi statali che, in una materia costituzionalmente spettante alle Regioni, siano intervenute in modo restrittivo per l’autonomia regionale. Nella specie, l’intervento statale inciderebbe in una materia delicata quale l’equilibrio del bilancio regionale, nel quale legittimamente potevano essere impegnate somme per le quali erano assicurate corrispondenti entrate. Infine, rileva la ricorrente, la procedura di definanziamento, nonostante incida gravemente sull’equilibrio finanziario delle Regioni, non prevederebbe alcuna partecipazione della Conferenza Stato-Regioni, con violazione, anche sotto questo particolare profilo, del principio di leale collaborazione. 6. – Con atto di costituzione del 4 novembre 2010 e’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito l’inammissibilita’ e, comunque, la non fondatezza della questione. In particolare, la difesa dello Stato ha rilevato che l’impugnazione sarebbe tardiva, in quanto la norma del decreto-legge n. 78 del 2010 sarebbe immediatamente lesiva essendo rimasta immutata in sede di conversione in legge. Nel merito, la difesa dello Stato prospetta, in generale – con riguardo all’intero testo normativo in cui si inserisce la disposizione censurata – la sussistenza della potesta’ legislativa statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, e, con specifico riguardo al citato art. 1, di «sistema tributario e contabile dello Stato». 7. – Con memoria depositata il 3 maggio 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito che la norma impugnata, la quale prevede il definanziamento delle leggi di spesa totalmente non utilizzate negli ultimi tre anni, rientra nella suddetta competenza esclusiva dello Stato. 8. – Successivamente, in data 17 maggio 2011, anche la Regione Liguria ha depositato memoria. La ricorrente ha richiamato, a sostegno delle proprie argomentazioni, l’art. 2, comma 40, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2008), relativo al finanziamento del Fondo per la montagna, nonche’ la sentenza di questa Corte n. 326 del 2010, che ha dichiarato la parziale illegittimita’ costituzionale dell’art. 2, comma 187, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2010). La Regione, quindi, ha contrastato le prospettazioni difensive dello Stato, affermando che la disposizione censurata non e’ riconducibile alla materia del sistema tributario e contabile, in quanto non incide su tale ambito. Considerato in diritto 1. – La Regione Liguria ha impugnato numerose disposizioni contenute nel decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita’ economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento, nell’insieme, agli articoli 3, 97, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione, nonche’ ai principi di leale collaborazione e di legittimo affidamento. La presente pronuncia ha ad oggetto esclusivamente la questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 1 del citato decreto-legge – prospettata con riguardo ai soli artt. 117, quarto comma, e 119 Cost., nonche’ ai principi di leale collaborazione e di legittimo affidamento – essendo riservata ad altre pronunce la valutazione delle restanti questioni proposte con il medesimo ricorso. 1.1. – Occorre, peraltro, rilevare che la difesa dello Stato, nel corso della discussione orale, ha posto in rilievo come si imponga una valutazione unitaria di tutte le disposizioni del decreto-legge in questione, oggetto di impugnazione, in quanto esse si inquadrerebbero in una unica e complessa manovra di riduzione della spesa e sarebbero riconducibili nel loro insieme, finalisticamente, alla materia del coordinamento della finanza pubblica. Al riguardo, si deve osservare che, se e’ pur vero che, in linea generale, le disposizioni normative contenute nel decreto-legge e nella relativa legge di conversione perseguono la suindicata finalita’, non e’ men vero che ciascuna di esse ha una propria specificita’, sicche’ deve essere esaminata distintamente dalle altre e per il suo peculiare contenuto normativo. E non e’ senza significato che, nella specie, la difesa regionale abbia censurato l’art. 1 del decreto-legge n. 78 del 2010 solo con riferimento ad alcuni dei parametri costituzionali invocati rispetto alle altre disposizioni del medesimo decreto-legge impugnate con lo stesso ricorso. 1.2. – Tanto premesso, in via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione, sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, di tardivita’ dell’impugnazione, in quanto effettuata solo dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge nei confronti di disposizioni non modificate in sede di conversione. La giurisprudenza di questa Corte, infatti, e’ costante nel riconoscere la tempestivita’ della impugnazione dei decreti-legge anche successivamente alla loro conversione, la quale ne stabilizza la presenza all’interno dell’ordinamento (ex multis, sentenza n. 383 del 2005). 2. – La norma sospettata di illegittimita’ costituzionale prevede che «le autorizzazioni di spesa i cui stanziamenti annuali non risultano impegnati sulla base delle risultanze del Rendiconto generale dello Stato relativo agli anni 2007, 2008 e 2009 sono definanziate. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze da adottare entro il 30 settembre 2010 sono individuate per ciascun Ministero le autorizzazioni di spesa da definanziare e le relative disponibilita’ esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge. Le disponibilita’ individuate sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate al fondo ammortamento dei titoli Stato». La ricorrente, con riferimento alla circostanza che nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 dicembre 2009 (Bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’anno finanziario 2010) era prevista l’allocazione della somma di circa 44 milioni di euro a favore del Fondo nazionale per la montagna, e dunque, a favore anche delle comunita’ montane, e che il definanziamento disposto dalla norma ora censurata ha eliminato detta somma dagli stanziamenti, ritiene che siano stati lesi l’art. 117, quarto comma, Cost. e l’art. 119 Cost., in quanto lo Stato avrebbe inciso sulla competenza legislativa residuale delle Regioni in materia di comunita’ montane e sull’autonomia finanziaria regionale, e avrebbe leso, altresi’, i principi di leale collaborazione tra istituzioni e di legittimo affidamento, per effetto della alterazione della programmazione gia’ effettuata dalla Regione, sulla base degli stanziamenti disposti dallo Stato. 3. – La questione non e’ fondata. 3.1. – Preliminarmente, occorre procedere all’esatta individuazione del thema decidendum. L’articolo impugnato, nel suo primo periodo, prevede il definanziamento delle autorizzazioni di spesa i cui stanziamenti annuali non siano impegnati sulla base delle risultanze del Rendiconto generale dello Stato relativo agli anni 2007, 2008 e 2009. Esso prosegue, quindi, al secondo periodo, indicando le modalita’ attraverso cui attuare tale previsione, e pone, nell’ultimo periodo, un vincolo di destinazione delle disponibilita’ finanziarie in questione, che debbono essere versate all’entrata del bilancio statale per essere riassegnate al fondo ammortamento dei titoli di Stato. 3.2. – Questa Corte, al fine di identificare la materia nella quale trovano collocazione le norme, statali o regionali, sottoposte allo scrutinio di costituzionalita’, con costante orientamento ha affermato che occorre fare riferimento all’oggetto ed alla disciplina stabilita dalle norme scrutinate, per cio’ che esse dispongono, alla luce della ratio dell’intervento legislativo nel suo complesso e nei suoi punti fondamentali, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi delle norme medesime, cosi’ da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato (ex multis, sentenza n. 165 del 2007). 4. – Sulla base del suindicato criterio ermeneutico, puo’ ritenersi condivisibile la deduzione dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale l’art. 1 del decreto-legge n. 78 del 2010 trova la sua fonte legittimatrice nella potesta’ legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., nella materia dell’ordinamento contabile. Assume, innanzi tutto, particolare valore, in questo quadro, la circostanza che si verte in tema di stanziamenti previsti dallo Stato nel proprio bilancio, con destinazione ad una serie molto vasta di interventi, tra i quali vi e’ anche quello concernente il Fondo nazionale per la montagna e, dunque, anche le comunita’ montane. Si tratta, nello specifico, di risorse statali, non ancora utilizzate, che, sulla base di una rinnovata valutazione delle esigenze di finanza pubblica, ricevono nel bilancio dello Stato una nuova destinazione ritenuta piu’ consona in rapporto al mutato quadro di politica economica, con specifico riferimento all’esigenza di attenuazione dell’onere per l’ammortamento del debito pubblico statale. Ne’ la presunta illegittimita’ della norma impugnata, come invece deduce la ricorrente, puo’ desumersi dalla prospettata violazione del principio di leale collaborazione. In particolare, non e’ esatto che la norma in questione vada ad incidere su rapporti consolidati in data anteriore alla propria entrata in vigore. Dal momento che oggetto dell’intervento sono risorse del bilancio dello Stato non ancora impegnate, non e’ sostenibile che esse abbiano dato vita a rapporti gia’ consolidati, mentre proprio la mancanza di concreti atti di impegno, in presenza di risorse assegnate ma non utilizzate in un arco di tempo circoscritto, non breve, giustifica che l’intervento sia stato effettuato proprio su quelle risorse. Inoltre, a parte il rilievo che – per costante giurisprudenza (ex multis, sentenza n. 79 del 2011) – tale principio non puo’ trovare applicazione nell’attivita’ legislativa, si deve ricordare che, nella specie, si versa in una ipotesi di potesta’ legislativa esclusiva dello Stato, per cui non vi e’ concorso di competenze diversamente allocate, ne’ ricorrono i presupposti per la chiamata in sussidiarieta’. Tale conclusione si giustifica in quanto vengono in rilievo somme ancora legittimamente programmabili dallo Stato e, soprattutto, non suscettibili di essere utilizzate dalle Regioni. Sotto altro aspetto, va osservato che questa Corte ha gia’ avuto modo di affermare che non puo’ considerarsi costituzionalmente illegittima la norma legislativa statale che, incidendo su somme iscritte in fondi statali, provveda ad una diversa utilizzazione di risorse «non impegnate o programmate» in un periodo determinato, «disponendo la nuova programmazione di esse per il conseguimento degli obiettivi di rilevanza strategica nazionale» (sentenza n. 16 del 2010); obiettivi, nella fattispecie ora in esame, rappresentati dalla esigenza di ridurre il debito pubblico dello Stato. Pertanto, la disposizione impugnata non e’ lesiva dei parametri costituzionali, evocati dalla ricorrente, di cui agli artt. 117, quarto comma, e 119 Cost. A cio’ e’ da aggiungere, comunque, che non ricorre, nella specie, una ipotesi riconducibile ai principi enunciati da questa Corte con la sentenza, richiamata dalla ricorrente, n. 326 del 2010. Con detta pronuncia e’ stata dichiarata la parziale illegittimita’ costituzionale dell’art. 2, comma 187, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2010). Quest’ultimo, nello «stabilire anche la cessazione del finanziamento statale delle comunita’ in questione tramite il fondo nazionale ordinario per gli investimenti (cui fa espresso riferimento l’art. 34, comma 3, del d.lgs. n. 504 del 1992), palesa una irragionevolezza che si riverbera sulla autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali come ridisegnata dall’art. 119 Cost. e come operante nelle more dell’attuazione del c.d. federalismo fiscale, lasciando privo di copertura finanziaria e, comunque, di una regolamentazione sia pure transitoria, un settore di rilievo, qual e’ quello degli investimenti strutturali a medio e lungo termine effettuati mediante la stipulazione di mutui originariamente "garantiti" dal finanziamento statale». Fermo restando che un intervento di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica, nell’ambito di una piu’ articolata manovra finanziaria e di bilancio, determina necessariamente e funzionalmente, nel tempo, un complessivo riordino e riallocazione delle risorse, non e’ ravvisabile, in ragione della norma oggi censurata, l’incisione diretta di alcun settore di spesa, rientrante nell’ambito delle comunita’ montane, proiettato in una pluralita’ di esercizi finanziari e garantito in origine da risorse statali. D’altronde, questa Corte ha gia’ avuto modo di chiarire (sentenze n. 79 del 2011 e n. 105 del 2007) che non sussiste alcun obbligo dello Stato di procedere al finanziamento di attivita’ rientranti nelle competenze legislative regionali. In particolare, con la sentenza n. 79 del 2011 si e’ affermato che la decisione statale di revocare il finanziamento di un’opera, in un ambito rientrante nella potesta’ residuale della Regione, non incide sulle competenze legislative e amministrative della stessa, in quanto non impedisce a quest’ultima di realizzarla con fondi propri. Ne’ e’ ravvisabile un intervento unilaterale nella sfera regionale, come potrebbe avvenire, ad esempio, nell’ipotesi di spostamento delle risorse su altre opere, non concordate. 5. – In conclusione, alla luce delle considerazioni che precedono, deve escludersi che la disposizione impugnata, in ragione del suo contenuto precettivo, sia lesiva della potesta’ legislativa residuale delle Regioni in materia di comunita’ montane. Cio’ in quanto l’ambito delle comunita’ montane, come conferma, altresi’, il carattere meramente ipotetico della deduzione relativa al Fondo nazionale per la montagna, viene in rilievo solo indirettamente, nel quadro della manovra di bilancio effettuata dallo Stato con le disposizioni di cui al titolo primo del decreto-legge n. 78 del 2010. 6. – In proposito, comunque, e’ opportuno ricordare come questa Corte abbia avuto modo di chiarire, che, se e’ pur vera la circostanza secondo la quale numerose leggi statali abbiano disposto nel tempo finanziamenti a favore delle comunita’ montane, tuttavia le sopravvenute esigenze di contenimento della spesa pubblica nella finanza locale possono giustificare interventi legislativi di riduzione e razionalizzazione delle erogazioni dello Stato in favore delle Regioni e degli enti locali, nel medesimo settore, nel segno di una diversa allocazione delle risorse in vista di un riequilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari (sentenze n. 326 del 2010 e n. 237 del 2009). 7. – Neppure viene in rilievo, nella specie, il principio di legittimo affidamento, al quale ha fatto riferimento la ricorrente, atteso che la disposizione impugnata ha inciso su stanziamenti statali di tre anni precedenti, per i quali non sono stati posti in essere ne’ programmi, ne’ atti di impegno. E’ evidente, pertanto, che la ricorrente non avrebbe potuto fare legittimo affidamento sullo stanziamento in questione prima che le relative somme fossero concretamente rese disponibili mediante l’adozione di tali atti.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni
di legittimita’ costituzionale promosse dalla Regione Liguria, con il
ricorso indicato in epigrafe, nei confronti del decreto-legge 31
maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e di competitivita’ economica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122;
Dichiara non fondata la questione di legittimita’ costituzionale
dell’articolo 1 del suddetto decreto-legge n. 78 del 2010,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, promossa
dalla Regione Liguria, in riferimento agli articoli 117, quarto
comma, e 119 della Costituzione, nonche’ ai principi di leale
collaborazione e di legittimo affidamento, con il ricorso indicato in
epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2011.

Il Presidente: Quaranta

Il redattore: Quaranta

Il cancelliere: Melatti

Depositata in cancelleria il 13 luglio 2011

Il direttore della cancelleria: Melatti

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