Cass. civ. Sez. II, Sent., 11-02-2011, n. 3435 Garanzia per i vizi della cosa venduta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La s.p.a. Immobiliare San Marco conveniva in giudizio la s.r.l. SIE (Società Immobiliare Elsana) chiedendone la condanna al risarcimento dei danni da essa società subiti in conseguenza dei vizi – manifestatisi nei primi giorni del febbraio 1984 e immediatamente contestati – all’impianto di riscaldamento dell’immobile acquistato dalla convenuta con contratto 7/4/1983.

La società convenuta, costituitasi, chiedeva il rigetto della domanda dell’attrice sostenendone l’infondatezza e, assumendo di aver commissionato l’installazione dell’impianto di riscaldamento alla Edil Gima Seconda s.d.f. che a sua volta l’aveva subappaltata alla ditta Bini Tommaso Vasco di (OMISSIS), chiedeva ed otteneva di chiamare in causa le suddette al fine di essere rilevata indenne dalle pretese della attrice.

La Edil Gima Seconda s.d.f. si costituiva eccependo, tra l’altro, la prescrizione ex artt. 1495 e 1669 c.c..

Anche la ditta Bini Tommaso Vasco si costituiva chiedendo il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti e, in via riconvenzionale, la condanna dell’attrice alla rifusione delle spese tecniche e legali sostenute per l’ATP espletato su istanza dell’attrice.

Nel corso del giudizio si costituiva B.A. quale erede di B.T.V. deceduto.

Con sentenza 25/8/2000 l’adito tribunale di Firenze – ritenuto che la denuncia del vizio era avvenuta oltre l’anno dalla consegna (art. 1495 c.c.) e che l’ATP non era utile ad interrompere la prescrizione, mentre l’azione promossa dalla SIE nei confronti dei chiamati in causa e regolata dall’art. 1667 c.c., risultava prescritta – rigettava tutte le domande proposte dall’attrice e condannava quest’ultima al pagamento delle spese in favore della convenuta e dei chiamati in causa.

Avverso detta sentenza la Immobiliare San Marco proponeva appello al quale resistevano la SIE e B.A. mentre la Edil Gima non si costituiva nel giudizio di secondo grado.

Con sentenza 26/2/2004 la corte di appello di Firenze, in riforma dell’impugnata decisione: 1) condannava la SIE al pagamento in favore della Immobiliare San Marco di L. 9.942.786, oltre accessori; 2) condannava la SIE a rimborsare alla Immobiliare San Marco le spese dei due gradi del giudizio; 3) condannava la SIE a restituire alla Immobiliare San Marco la somma di L. 9.132.000 percepita a titolo di rimborso delle spese di lite di primo grado; 4) dichiarava compensate per la metà le spese del giudizio -limitate al primo grado – tra la SIE e la Edil Gima e condannava la prima a rimborsare alla seconda il residuo; 5) dichiarava compensate per la metà tra la SIE e B. A. le spese dei due gradi del giudizio e condannava la prima a rimborsare al secondo il residuo; 6) condannava B.A. e la Edil Gima a restituire alla Immobiliare San Marco le somme loro corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado.

La corte di merito osservava: che aveva errato il primo giudice nel ritenere la prescrizione ex art. 1495 c.c., del diritto di garanzia azionato dalla Immobiliare San Marco posto che nella specie era da applicarsi la disciplina dell’appalto di cui all’art. 1667 c.c., in quanto la venditrice nell’atto 7/4/1983 aveva assunto nei confronti dell’acquirente le garanzie facenti carico per legge al costruttore;

che era infondata la tesi della SIE in ordine alla asserita nullità di tale pattuizione in quanto intesa a modificare la disciplina legale della prescrizione; che, infatti, dal citato atto risultava che la SIE era stata costruttrice e venditrice; che, applicandosi nella specie l’art. 1667 c.c., risultavano infondate le eccezioni di decadenza e di prescrizione sollevate dalla SIE; che, come emerso dalla prova testimoniale, il vizio in questione si era manifestato nei primi giorni del mese di febbraio 1984 ed era stato contestato nel termine di cui al secondo comma del citato articolo alla costruttrice-venditrice con telegramma del 13/2/1984 contenente, come il ricorso per ATP, il riferimento alla "perdita di acqua" dell’impianto idraulico; che razione della Immobiliare San Marco era stata proposta nel termine di due anni previsto dall’ultimo comma dell’art. 1667 c.c.; che il termine di prescrizione era stato interrotto dal menzionato telegramma e dal ricorso per ATP; che andava riconosciuta la fondatezza nell’an della domanda proposta dalla appellante essendo risultato dagli accertamenti peritali che il tubo di andata dell’impianto in questione presentava "un foro rotondeggiante di alcuni millimetri di diametro"; che, in relazione al quantum, andava riconosciuto l’importo di L. 3.769.786 per la spesa sostenuta dalla Immobiliare San Marco per approntare un allacciamento provvisorio; che, quanto alla decurtazione del canone pattuito con la conduttrice per il mancato godimento dell’impianto di riscaldamento mai utilizzato dalla conduttrice, andava liquidata in via equitativa, la somma di L. 5.000.000 dovendosi ritenere verosimile una pattuizione intercorsa tra le parti del rapporto di locazione volta a ridurre il canone di locazione per il mancato utilizzo dell’impianto di riscaldamento per un periodo di almeno sette mesi; che complessivamente, quindi, il danno ammontava a L. 9.942.786; che andava disposta la restituzione delle somme versate dalla Immobiliare San Marco a titolo di rimborso spese in favore dei chiamati in causa nei cui confronti la prima non aveva avanzato alcuna domanda; che la domanda di rilevazione proposta dalla SIE nei confronti dei chiamati in causa era stata ritenuta infondata dal primo giudice con sentenza passata in giudicato perchè non impugnata il che rendeva superfluo l’esame nel merito di detta domanda di rilevazione; che gravava sulla soccombente SIE la condanna alla rifusione delle spese dei due gradi del giudizio in favore della società appellante, oltre alla restituzione a quest’ultima della somma ricevuta a tale titolo in forza della sentenza impugnata; che ricorrevano giusti motivi per dichiarare compensate per la metà le spese tra la SIE e i chiamati in causa gravando il residuo alla prima.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Firenze è stata chiesta dalla SIE con ricorso affidato ad otto motivi illustrati da memoria. Ha resistito con controricorso la Immobiliare San Marco. L’intimato B.A. non ha svolto attività difensiva in sede di legittimità. All’udienza del 9/7/2010 questa Corte ha disposto l’integrazione del contraddittorio mediante notifica del ricorso alla Edil Gima Seconda di Rizzo Angelo e Giuffrida Antonio società di fatto. La SIE ha ritualmente e tempestivamente notificato il ricorso a G.A. ed agli eredi di R.A. ( V.G., R.M. e R.C.) dimostrando documentalmente che la società di fatto Edil Gima Seconda di Rizzo Angelo e Giuffrida Antonio era cessata in data 8/9/1982 – a causa di scioglimento della stessa – e che il socio R.A. era deceduto il (OMISSIS). Gli intimati G. A., V.G., R.M. e R.C. non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso la SIE denuncia vizi di motivazione nella parte in cui la corte di appello ha affermato che essa società ricorrente è la costruttrice dell’immobile per cui è causa. Deduce la SIE che nel rogito 7/4/1983 si dice che essa società ha costruito l’immobile ma non che lo ha costruito direttamente. In realtà, come è pacifico, l’edificio in questione è stato costruito dalla Edil Gima in virtù di contratto di appalto.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione di norme di diritto e vizi di motivazione sostenendo che la corte di appello – nell’ affermare che le parti potevano derogare alla disciplina della prescrizione in virtù del potere di autonomia contrattuale – ha errato e si è posta in contrasto con l’art. 2936 c.c., che vieta i patti diretti a modificare la disciplina legale della prescrizione.

Quindi la clausola contenuta nel contratto 7/4/1983, con la quale essa SIE ha assunto la garanzia del costruttore, è nulla ove interpretata nel senso di una modifica della prescrizione (quella biennale dell’appalto).

I motivi – che possono essere esaminati congiuntamente per l’evidente nesso logico-giuridico che li lega – sono infondati consistendo essenzialmente in una critica (diretta o indiretta) all’interpretazione data dalla corte di appello di una clausola contrattuale e, precisamente, della clausola contenuta nel contratto di compravendita stipulato in data 7/4/1983 dalla venditrice SIE e dall’acquirente Immobiliare San Marco con la quale la prima ha assunto nei confronti della seconda la garanzie facenti carico per legge al costruttore. Ad avviso della corte di appello da tale clausola discende l’applicazione nella specie della disciplina dell’appalto di cui all’art. 1667 c.c.. L’interpretazione data dalla corte di appello alla detta clausola e gli effetti che la corte di merito ha fatto discendere da tale interpretazione non hanno formato oggetto di specifiche contestazione da parte della società ricorrente la quale – con le censure sopra riportate – ha solo denunciato vizi di motivazione (con il primo e con il secondo motivo) e violazione dell’art. 2936 c.c. (secondo motivo) senza far alcun cenno all’applicabilità o meno, nella fattispecie in esame, delle norme relative all’appalto nei rapporti tra venditore (anche se costruttore) e acquirente (pur in assenza di un contratto di appalto tra venditore ed acquirente).

Va altresì aggiunto che non è rilevante se la società SIE abbia costruito l’immobile in questione direttamente o avvalendosi di un appaltatore: quel che conta (secondo la prospettazione della corte di appello non censurata dalla ricorrente) è che la detta società si è dichiarata costruttrice assumendosi contrattualmente nei confronti della acquirente le garanzie facenti carico per legge al costruttore ivi comprese quelle (sempre ad avviso del giudice di secondo grado) dovute dall’appaltatore a norma dell’art. 1667 c.c..

Da ciò l’insussistenza della asserita violazione dell’art. 2936 c.c., atteso che una volta assunte le garanzie del costruttore (nel senso attribuito dalla corte di merito) il termine è quello previsto per tale garanzia.

Con il terzo motivo la SIE denuncia vizi di motivazione nella parte in cui la corte di appello ha affermato che sia il telegramma 7/2/1984 che il ricorso per ATP contengono una chiara contestazione del difetto "perdita d’acqua". Invece con tali atti la San Marco ha inteso solo contestare le saldature a stagno ed il riferimento alla perdita d’acqua riguarda l’occasione che ha consentito alla San Marco di accertare tale fatto.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia vizi di motivazione nella parte in cui la corte di appello ha affermato che il foro rotondeggiante esisteva al momento della consegna dell’immobile.

Detta circostanza è sfornita di qualsiasi prova. Peraltro i testimoni assunti sul punto hanno riferito che le perdite d’acqua si erano verificate la prima volta nel febbraio 1984 e tale circostanza trova conferma nel telegramma 7/2/1984. L’esistenza del foro al momento della consegna dell’immobile nell’estate del 1982 avrebbe determinato le perdite d’acqua al momento dell’accensione dell’impianto di riscaldamento nell’inverno 1982. Inoltre può anche ritenersi che il foro sia stato provocato da azione della San Marco o della società conduttrice.

La Corte rileva l’infondatezza delle dette censure che possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza e che si risolvono tutte, pur se titolate come vizi di motivazione, essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa nonchè in una critica dell’apprezzamento delle prove operato dal giudice del merito (omesso o errato esame di risultanze istruttorie) incensurabile in questa sede di legittimità perchè sorretto da motivazione adeguata, logica ed immune da errori di diritto: il sindacato di legittimità sul punto è limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nell’impugnata sentenza.

Inammissibilmente la società ricorrente prospetta una diversa lettura del quadro probatorio dimenticando che l’interpretazione e la valutazione delle risultanze probatorie sono affidate al giudice del merito e costituiscono insindacabile accertamento di fatto: la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice del merito siano, secondo l’opinione di parte ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione conforme alla tesi da essa sostenuta.

Spetta infatti solo al giudice dei merito individuare la fonte del proprio convincimento ed apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in. discussione, dar prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. Nè per ottemperare all’obbligo di motivazione il giudice di merito è tenuto a prendere in esame tutte le risultanze istruttorie ed a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che egli indichi – come nella specie gli elementi sui quali fonda il suo convincimento dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e tatti che, sebbene non specificamente menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.

Nel caso in esame non e ravvisatale il lamentato difetto di motivazione: la sentenza impugnata e; del tutto corretta e si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto.

Come riportato nella parte narrativa che precede la corte di appello ha proceduto alla disamina delle risultanze istruttorie e, sulla base di tatti qualificanti, è coerentemente pervenuta alle conclusioni sopra riportate nella parte narrativa che precede (dalla ricorrente criticate nei motivi di ricorso in esame) attraverso un iter logico ineccepibile sorretto da complete ed appaganti argomentazioni frutto di un’indagine accurata e puntuale delle risultanze di causa menzionate nella decisione di cui si chiede l’annullamento.

Alle dette vai citazioni la ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice de merito non è certo consentito in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame dei materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione.

In definitiva, poichè resta istituzionalmente preclusa in sede di legittimità ogni possibilità di rivalutazione delle risultanze istruttorie, non può la ricorrente pretendere il riesame del merito sol perchè la valutazione delle accertate circostanze di fatto come operata dai giudice di secondo grado non collima, con le sue aspettative e confutazioni.

Sono pertanto insussistenti gli asseriti vizi di motivazione che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito.

Per quanto poi riguarda le doglianze relative alla valutazione delle risultanze istruttorie (telegramma 7/2/1984, ricorso per ATP, documenti prodotti dalla ricorrente) deve affermarsi che le stesse non sono meritevoli di accoglimento anche per la loro genericità, oltre che per la loro incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito.

Nel giudizio di legittimità il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione) di specificare il contenuto delle prove mai (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo dei lamentato errore di valutazione: solo così è consentito alla corte di cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non o mal esaminate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento si è formato, onde la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di base.

Al riguardo va ribadito che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità logica tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, sì da far ritenere che quella circostanza se fosse stata considerata avrebbe portato ad una decisione diversa.

Nella specie le censure mosse dalla SIE sono carenti sotto l’indicato a-spetto in quanto non riportano il contenuto specifico e completo delle prove testimoniali e documentali genericamente indicate in ricorso e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di dette prove. Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisività dei rilievi al riguardo mossi dalla ricorrente.

Sono pertanto insussistenti gli asseriti vizi di motivazione che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dai giudice del merito.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia vizi di motivazione in relazione alla sussistenza del danno da riduzione del canone. Secondo la San Marco l’immobile in questione è stato concesso in locazione dal 13/12/1983 al 26/6/1986. L’impianto di riscaldamento sarebbe stato acceso per la prima volta nel febbraio 1984 con successiva immediata realizzazione di un impianto provvisorio del costo di L. 3.769.786 come da fattura (OMISSIS). Dell’accordo raggiunto con la conduttrice per la riduzione del canone la San Marco non ha dato alcuna prova. La corte di appello ha quantificato in via equitativa il danno in questione senza tener conto che il contratto di locazione non ha data certa e che non risulta provato il danno effettivo subito dalla conduttrice. Peraltro la San Marco ben avrebbe potuto effettuare le riparazioni necessarie ed evitare così il danno.

Con il sesto motivo la SIE denuncia violazione dell’art. 1226 c.c., per aver la corte di appello liquidato il danno da riduzione del canone di locazione in via equitativa pur non risultando provata l’esistenza di un danno risarcibile.

I motivi – che meritano trattazione congiunta – devono essere disattesi in quanto la corte di appello – al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente – ha correttamente ritenuto provato il danno derivante dalla riduzione del canone di locazione per il mancato utilizzo da parte del conduttore dell’impianto di riscaldamento. Al riguardo la corte di merito ha fornito coerente motivazione di tale convincimento facendo riferimento alla credibilità e verosimiglianza (oltre che rispondente alla prassi commerciale) di una pattuizione intercorsa tra le parti del rapporto di locazione avente ad oggetto la decurtazione del canone per il mancato godimento dell’impianto di riscaldamento.

La corte distrettuale – affermata la sussistenza non contestabile del danno provocato dal mancato funzionamento dell’impianto di riscaldamento con connessa diminuzione della fruizione del bene locato e conseguente riduzione del canone di locazione – ha ritenuto di poter accogliere la richiesta della parte appellante (ossia della Immobiliare San Marco) di liquidare detto danno in via equitativa e di avvalersi a tal fine della determinazione del quantum operata dal c.t.u. e dei criteri da questi utilizzati sia pur riducendo sensibilmente l’importo indicato dal consulente (più che dimezzato).

Ciò posto va evidenziato che, come è noto e più volte affermato nella giurisprudenza di legittimità, è rimesso al potere discrezionale del giudice del merito far ricorso alla valutazione equitativa del danno quando il danno può ritenersi logicamente sussistente come appunto nella specie affermato dalla corte di appello.

In proposito questa Corte ha avuto modo di precisare che l’applicazione dell’art. 1226 c.c., presuppone l’esistenza ontologica del danno, la liquidazione del quale, con valutazione equitativa, è rimessa al potere discrezionale del giudice, che vi procede quando non sia possibile o riesca difficoltosa la sua precisa determinazione (sentenza 21/11/2006 n. 24680).

Con il settimo motivo la ricorrente denuncia vizi di motivazione e violazione dell’art. 2909 c.c., con riferimento alla parte della sentenza impugnata in cui si assume che il tribunale di Firenze ha ritenuto infondata la domanda di rilevazione avanzata da essa SIE nei confronti dei chiamati in causa con formazione del giudicato sul punto. Il tribunale di Firenze si è invece limitato a respingere la domanda della San Marco nei confronti sia dei chiamati in causa che di essa SIE in quanto prescritta senza quindi esaminare la domanda di rilevazione proposta da essa ricorrente nei confronti dei chiamati in causa. Il giudice di primo grado ha implicitamente ritenuto assorbita la detta domanda di rilevazione dal rigetto della domanda della società attrice. Peraltro essa SIE nella comparsa di risposta in appello ha chiesto, in ipotesi di accoglimento del gravame, di essere manlevata dai chiamati in causa: quindi su tale domanda non si è formato il giudicato.

Anche questo motivo, al pari degli altri, non è meritevole di accoglimento sotto diversi profili.

Innanzitutto va rilevato che la ricorrente, oltre a lamentarsi dell’errore commesso dalla corte di appello nel ritenere coperto da giudicato il capo della sentenza del giudice di primo grado relativo all’asserito rigetto della domanda di rilevazione proposta dalla SIE, avrebbe dovuto dolersi dell’omessa pronuncia sulla sua domanda di rivalsa.

Va peraltro segnalato che nel giudizio di appello la SIE avrebbe dovuto riproporre espressamente la richiesta di essere manlevata dai chiamati in causa. Dalla lettura della sentenza di secondo grado non risulta che la detta domanda di rivalsa sia stata espressamente formulata ed al riguardo la SIE nel ricorso si è limitata a dedurre genericamente di aver chiesto in appello di essere manlevata dai chiamati in causa nell’ipotesi di accoglimento del gravame proposto dalla società San Marco.

In proposto va richiamato e ribadito il principio affermato da questa Corte secondo cui qualora l’appellato miri all’accoglimento della propria domanda nei confronti del chiamato in garanzia, per l’ipotesi in cui venga accolta la domanda principale proposta nei suoi confronti dall’attore rimasto soccombente in primo grado, non è sufficiente la riproposizione, ex art. 346 cod. proc. civ., della domanda non esaminata o respinta dal primo giudice, ma deve essere proposto appello incidentale condizionato, poichè la richiesta dell’appellato non mira alla conferma della sentenza per ragioni diverse da quelle poste a fondamento della decisione, ma tende alla riforma della pronuncia concernente un rapporto diverso, non dedotto in giudizio con l’appello principale (in tali sensi sentenze 22/4/2010 n. 9535; 10/3/2006 n. 5249; 4/2/2004 n. 2061). Nella specie tale appello incidentale condizionato non è stato proposto dalla società ricorrente.

Con l’ottavo motivo la SIE denuncia violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., nella parte in cui essa società è stata condannata al pagamento della metà delle spese in favore della Edil Gima relativamente al giudizio di primo grado. La Edil Gima è rimasta contumace nel giudizio di appello per cui non ha riproposto la domanda di condanna di essa SIE al pagamento delle spese di causa: di conseguenza la corte di appello non poteva pronunciare su tale domanda.

Il motivo è palesemente fondato posto che la Edil Gima è rimasta contumace in grado di appello per cui non ha proposto alcuna domanda di condanna della SIE al rimborso delle spese del giudizio di primo grado.

In definitiva devono essere rigettati i primi sette motivi di ricorso ed accolto l’ottavo. La sentenza impugnata va pertanto cassata – in relazione al motivo accolto – e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, va annullato il solo capo n. 4 del dispositivo di detta sentenza rimanendo fermi tutti gli altri capi.

La società ricorrente va condannata al pagamento in favore della società resistente delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.

Nulla per le spese tra la società ricorrente e l’intimato B. A. nei cui confronti la prima non ha formulato alcuna richiesta a modifica di quanto disposto dalla corte di appello.

Va invece disposta la compensazione del giudizio di cassazione tra la ricorrente e gli intimati G.A. (socio della società di fatto Edil Gima) e V.G., R.M. e R. C. (quali eredi di R.A. altro socio della citata società di fatto) in quanto la condanna della SIE al pagamento in favore della Edil Gima delle spese del giudizio di primo grado è frutto di un errore della corte di appello non avendo la detta società formulato alcuna richiesta in tal senso ed essendo anzi rimasta contumace nel giudizio di secondo grado.

P.Q.M.

la Corte: rigetta i primi sette motivi di ricorso, accoglie l’ottavo;

cassa senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto limitatamente al capo 4 del dispositivo di tale sentenza che va annullato rimanendo fermi tutti gli altri capi di detto dispositivo; condanna la società ricorrente al pagamento in favore della società resistente delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 1.550,00 a titolo di ono-rari ed oltre accessori come per legge; nulla per le spese tra la ricorrente e l’intimato B.A.; compensa le spese del giudizio di cassazione tra la ricorrente e l’intimata Edil Gima.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, Sent., 01-02-2011, n. 328 Demolizione di costruzioni abusive Sanzioni amministrative e pecuniarie

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso principale la V. s.r.l. impugna l’ordinanza con cui il Comune di Inverigo le ha ingiunto la demolizione parziale di un balcone ed il pagamento di una sanzione pecuniaria per la volumetria realizzata in eccesso e ritenuta non sanabile e domanda, altresì, il risarcimento dei danni che ha subito in conseguenza della nota prot. n. 17726 del 19.11.2004, con cui il Comune ha diffidato la società concessionaria dal procedere all’allacciamento della rete del gas del Cantiere di Via Alpetto, in considerazione dell’esistenza di un procedimento di accertamento di abusività delle opere.

Con un primo ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente impugna il provvedimento prot. 6933 del 16.5.2006 con cui il Comune ha rigettato l’istanza di accertamento di conformità, poiché la ricorrente ha realizzato una maggiore volumetria (pari a circa 248 mc) rispetto alla volumetria disponibile sul lotto.

Queste le censure dedotte:

I. violazione artt. 3, 10 e 10 bis, l. n. 241/1990; eccesso di potere per carenza e genericità di motivazione e per difetto di istruttoria;

II. violazione dell’art. 36, d.P.R. n. 38072001 anche in relazione all’art. 9, l. n. 122/98, all’art. 2, l.r. n. 22/99 ed agli artt. 1, 2 e 67, l.r. n. 26/95; violazione dell’art. 3, l. n. 241/1990 ed eccesso di potere per incompletezza, contraddittorietà e carenze istruttorie.

Con un secondo ricorso per motivi aggiunti la ricorrente impugna l’ordinanza n. 47 del 18.7.2006 con cui il Comune di Inverigo ha disposto l’annullamento parziale della concessione edilizia n. 41/02 per i seguenti motivi:

I. eccesso di potere per erroneità e carenza di motivazione nonché per genericità e contraddittorietà tra distinte parti dello stesso provvedimento;

II. eccesso di potere per carenza ed erroneità di motivazione e di verifiche istruttorie nonché per contraddittorietà sotto ulteriore profilo anche con riferimento agli artt. 3 e 10, lett. b), l. n. 241/1990 ed al principio del rispetto del giusto procedimento;

III. eccesso di potere per erroneità di motivazione; violazione degli artt. 3 e 10, lett. b), l. n. 241/1990 sotto ulteriore profilo, nonché per mancata applicazione degli artt. 2.11, 6.3 e 13 delle n.t.a. del p.r.g.

IV. violazione e mancata applicazione dell’art. 34, d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 1, c. 2, l. reg. Lombardia n. 19/1992.

L’amministrazione intimata si è costituita in giudizio e, oltre a dedurre l’infondatezza nel merito della domanda, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per acquiescenza, avendo la ricorrente provveduto al pagamento, senza alcuna riserva, delle sanzioni irrogate e per avere essa stessa chiesto, con nota del 3.5.2006, la conversione della sanzione demolitoria in quella pecuniaria.

Questo Tribunale, con sentenza parziale n. 4664 del 16 settembre 2009, ha dichiarato il ricorso principale improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse – in quanto, per effetto della presentazione dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria e del successivo provvedimento di diniego, l’ordinanza di demolizione n. 26/2005 ha perso la propria efficacia lesiva – ed ha respinto la domanda di risarcimento dei danni.

Ai fini della decisione dei ricorsi per motivi aggiunti, questo Tar ha disposto una verificazione per quantificare la misura della volumetria realizzata in eccesso rispetto a quanto autorizzato con permesso di costruire n. 41/2002.

La verificazione è stata affidata, dapprima, alla Direzione Generale Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia e, successivamente – avendo la Regione Lombardia comunicato di non essere in grado di adempiere all’incombente istruttorio – dalla Direzione regionale della Lombardia dell’agenzia del territorio.

Con nota depositata nella segreteria del Tribunale il 18 agosto 2010, l’Agenzia del territorio ha trasmesso la relazione esplicativa, contente l’esito della verificazione.

All’udienza del 17 novembre 2010, il ricorso è stato ritenuto per la decisione.

Va, preliminarmente, respinta l’eccezione, formulata dalla difesa dell’amministrazione resistente, di inammissibilità del ricorso per intervenuta acquiescenza.

Il pagamento delle somme ingiunte può ragionevolmente collegarsi alla volontà della ricorrente di sottrarsi al pregiudizio ulteriore che sarebbe potuto derivare dalla esecuzione forzata posta in essere in base al provvedimento stesso, oltre che di conseguire il certificato di abitabilità. Ciò vale ad escludere che nell’avvenuto pagamento possa ravvisarsi acquiescenza con il conseguente venir meno dell’interesse ad insorgere avverso il provvedimento di diniego di accertamento di conformità ed il provvedimento di annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 41/2002 (cfr. Cons. Stato, sez. V, 30 agosto 2005, n. 4424).

Né determina acquiescenza la dichiarazione contenuta nella nota del 3.5.2006, con cui la ricorrente ha chiesto all’amministrazione l’applicazione della sanzione pecuniaria in alternativa alla demolizione parziale del fabbricati realizzati in violazione della disciplina sulle distanze: tale atto è unicamente finalizzato ad ottenere l’applicazione di una sanzione meno gravosa ma non ha affatto palesato in modo chiaro ed incondizionato la volontà della ricorrente di accettare tutte le conseguenze derivanti dal provvedimento di annullamento parziale del permesso di costruire n. 41/2002, oltretutto, all’epoca, non ancora adottato dall’amministrazione.

Con il primo ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente lamenta l’illegittimità del provvedimento con cui il Comune ha rigettato l’istanza di accertamento di conformità per violazione degli artt. 3, 10 e 10 bis, l. n. 241/1990 in quanto l’amministrazione non avrebbe valutato le istanze e le memorie presentate dalla V. s.r.l. nel corso del procedimento.

La censura è infondata.

A seguito della nota del 22.4.2006, con cui l’amministrazione ha comunicato, ai sensi dell’art. 10 bis, l. n. 241/1990, le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza di accertamento di conformità, la ricorrente ha inviato alla p.a. una nota del 3.5.2006 nella quale ha espressamente affermato di prendere atto del diniego e di non formulare osservazioni al riguardo.

Alcun particolare onere motivazionale incombeva, pertanto, in capo all’amministrazione.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta l’illegittimità dell’atto per violazione dell’art. 36, d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 3, l. n. 241/1990 ed eccesso di potere per incompletezza, contraddittorietà e carenze istruttorie.

Contesta, in particolare, la ricorrente la quantificazione del volume oggetto del diniego di sanatoria che, a suo avviso, sarebbe stato conteggiato erroneamente, non avendo la p.a. preso in considerazione la previsione di cui all’art. 3 delle n.t.a. (secondo cui per il calcolo delle volumetrie può essere assunta, in luogo della quota naturale del terreno, la quota sistemata attorno agli edifici per il dislivello di 1 mt.), l’art. 1.2, l. Regione Lombardia n. 26/1995 sul risparmio energetico, l’art. 9, l. n. 122/1989, l’art. 2, l. Regione Lombardia n. 22/1999 e l’art. 67, l. Regione Lombardia n. 12/2005 (concernenti deroga volumetrica per i box pertinenziali posti al piede dei vari edifici).

Per effetto di tali norme, la difformità volumetrica non sanabile non sarebbe pari a mc 248, come affermato dall’amministrazione comunale, ma si ridurrebbe a soli mc 18,41.

La verificazione effettuata dalla Direzione regionale della Lombardia dell’Agenzia del territorio ha appurato che la volumetria realizzata in eccesso ammonta a complessivi mc 421,98.

Per alcuni edifici (C2, E, F1+F2, G), l’Agenzia del territorio ha però accertato l’identità tra la volumetria realizzata e quella assentita con permesso di costruire n. 41/2002.

Il provvedimento impugnato, nella parte in cui nega il rilascio del permesso di costruire in sanatoria con riferimento a tali costruzioni, è illegittimo, non avendo tali fabbricati una volumetria maggiore rispetto a quella assentita.

Nella restante parte, il provvedimento è invece esente da censure essendo confermato, dagli esiti della verificazione, l’eccesso volumetrico.

Né il Collegio condivide le censure formulate dalla ricorrente in merito all’operato dell’Agenzia del territorio.

È, in particolare, corretta l’applicazione data dall’Agenzia del territorio dell’art. 3 delle n.t.a. (ai sensi del quale "è da intendersi quota naturale del terreno quella originaria preesistente, oppure quella sistemata attorno all’edificio, purché contenuta nel limite del dislivello massimo di 1,00 m rispetto alla quota originaria").

L’Agenzia ha computato la volumetria dei fabbricati A, B, C, D ed H al lordo dei volumi compresi tra la quota originaria del terreno e quella sistemata attorno all’edificio, senza alcuna detrazione, e ciò perché l’altezza media ponderata eccede il limite di 1, 00 m.

Per i fabbricati E, F e G la volumetria è stata computata al netto dei volumi posti sotto la quota sistemata attorno all’edificio in quanto l’altezza media ponderata non eccede il limite di 1,00 m.

Non viola alcun criterio di ragionevolezza ma è, al contrario, pienamente rispettoso della lettera della norma tecnica, considerare, ai fini del computo della volumetria, i volumi compresi tra la quota originaria del terreno e quella sistemata attorno all’edificio, laddove il dislivello ecceda il limite massimo di 1,00 m.

La norma è difatti chiara nel consentire di fare riferimento alla quota sistemata del terreno solo ove il dislivello si mantenga nel limite indicato e non può, dunque, essere letta come volta a prevedere un limite generale di tolleranza di dislivello pari ad un metro.

Attesa, dunque, la correttezza di questo conteggio, il diniego di sanatoria – con riferimento ai fabbricati A, B1+B2, C1, D ed H – è da ritenersi pienamente legittimo: anche ove non si considerasse, nel computo della volumetria, il maggior spessore dei solai, in applicazione delle disposizioni della l. reg. Lombardia n. 26/1995 sul risparmio energetico, non si addiverrebbe, comunque, per nessuno di questi fabbricati, ad un azzeramento dell’eccesso volumetrico (cfr. relazione allegata alla domanda di accertamento di conformità).

Con il secondo ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente impugna l’ordinanza n. 47 del 18.7.2006 con cui il Comune di Inverigo ha disposto l’annullamento parziale della concessione edilizia n. 41/02.

Con ordinanza 15 marzo 2007, n. 23, il Comune di Inverigo ha riconosciuto l’erroneità del richiamo alla distanza tra edifici contenuto nell’ ordinanza n. 47 con riferimento ai due fabbricati I e P ed ha ritenuto di non dover considerare, ai fini della determinazione della sanzione, le superfici relative alle porzioni di tali fabbricati realizzate a distanza inferiore a m. 5 dai confini.

Poiché, quindi, con riferimento a tali fabbricati, dall’annullamento in autotutela del titolo abilitativo non deriva alcuna conseguenza sanzionatoria, va dichiarata, in questa parte, la cessazione della materia del contendere.

Non può, poi, portare all’annullamento dell’atto impugnato la circostanza che nella comunicazione di avvio del procedimento, le opere sono state qualificate come realizzate in difformità rispetto alla concessione edilizia mentre con l’ordinanza impugnata sono state ritenute conformi al titolo abilitativo, che è, però, stato annullato in autotutela per non corretta rappresentazione dello stato dei luoghi.

L’erroneità dell’indicazione fornita dall’amministrazione nella comunicazione di avvio del procedimento non ha comunque impedito alla ricorrente di comprendere le ragioni poste alla base del procedimento né di poter partecipare all’iter procedimentale, avendo la stessa dettagliatamente argomentato in merito alla contestata violazione delle norme sulle distanze, con nota del 3.5.2006.

Non è, parimenti, fondata la censura proposta con il terzo motivo di ricorso: l’amministrazione ha, difatti, adeguatamente dato conto delle ragioni giustificative poste alla base del provvedimento impugnato, richiamando l’erroneità della rappresentazione dello stato dei luoghi nelle planimetrie allegate al titolo edilizio ed indicando, per ogni fabbricato, la violazione contestata e le norme tecniche attuative alle quali ha dato applicazione, senza che fosse, dunque, necessaria una puntuale replica a tutte le osservazioni formulate dalla ricorrente.

È infondata anche la contestazione relativa alle modalità di calcolo della distanza con riferimento agli edifici N ed O.

L’art. 2.11 delle n.t.a., nel prevedere che nel caso di edifici non fronteggianti la distanza si misura tra gli spigoli nella proiezione orizzontale delle parte, attribuisce rilievo alla distanza radiale tra gli spigoli. D’altro canto la stessa ricorrente, nella nota del 3.5.2006, ha utilizzato questa stessa modalità di calcolo ed ha, altresì, riconosciuto che i due fabbricati si pongono ad una distanza inferiore ai previsti 10 m. dagli edifici confinanti (cfr. doc. n. 5 depositato in giudizio dall’amministrazione, all. 5).

Quanto alla censura con cui viene contestata l’applicazione della norma che prevede il rispetto della distanza di m. 10 con riferimento all’edificio A va dichiarata la cessazione della materia del contendere: la stessa amministrazione, in sede di adozione dell’ordinanza 23 del 15.3.2007, ha, difatti, riconosciuto che la confinante costruzione accessoria ha un’altezza fuori terra pari a m. 2,50 e, pertanto, non è soggetta alla distanza minima di 10 m., come dispone l’art. 13, c. 2, lett. a delle n.t.a.

È, infine, infondato l’ultimo motivo con cui la ricorrente lamenta la violazione e mancata applicazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001.

Tale disposizione non trova invero applicazione nel caso di specie: a fronte dell’annullamento in autotutela di un permesso di costruire, il testo unico dell’edilizia prevede che venga irrogata la sanzione prevista dall’art. 38 del d.P.R. n. 380/2001 (Interventi eseguiti in base a permesso annullato) e non quella di cui all’art. 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire).

Per le ragioni esposte, il ricorso va in parte accolto ed in parte respinto; in parte va dichiarata la cessazione della materia del contendere.

In considerazione della reciproca soccombenza, le spese di lite sono integralmente compensate tra le parti.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in parte lo accoglie, in parte lo respinge ed in parte dichiara cessata la materia del contendere.

Per l’effetto, annulla il provvedimento prot. 6933 del 16.5.2006 nei limiti di cui in motivazione.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 25-01-2011) 23-02-2011, n. 6903 Giudizio d’appello rinnovazione del dibattimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 29 gennaio 2009, la Corte di appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza emessa il 4 maggio 2006 dal Tribunale di Lanciano, ha concesso a P.G. l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4 ed ha conseguentemente rideterminato la pena inflitta al medesimo per il reato di estorsione in anni due e mesi tre di reclusione ed Euro 270,00 di multa.

Propone ricorso per Cassazione il difensore il quale lamenta nel primo motivo violazione di legge in riferimento alla mancata rinnovazione della istruzione dibattimentale per procedere alla acquisizione delle registrazioni delle conversazioni raccolte dalla polizia giudiziaria allorchè, come riferito dalla parte offesa, la polizia dotò la medesima di un microfono ed un registratore per captare il contenuto dei colloqui con l’imputato. Si lamenta, poi, vizio di motivazione in ordine alla mancata delibazione della richiesta difensiva di riqualificazione dei fatti come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, avuto riguardo alla versione difensiva, parzialmente non contraddetta dalla persona offesa.

Sussisterebbero, poi, varie incongruenze motivazionali, quali: la insussistenza di riscontro delle dichiarazioni della persona offesa, visto che somme di denaro sono state alla medesima corrisposte proprio dall’imputato; è contraddittoria la motivazione della condotta dell’imputato, visto che mentre si ipotizza un movente di gelosia o di dolore per la interruzione del rapporto sentimentale, poi si opta per la individuazione di una volontà estorsiva;

considerato, poi, che in una richiesta si faceva riferimento alla esigenza di restituzione di un prestito, non si comprende perchè sarebbe stata reputata inattendibile la versione difensiva dell’imputato; la sentenza sarebbe infine illogica, perchè è stata sottovalutata la circostanza che l’imputato aveva effettuato viaggi per accompagnare la vittima, ricevendo dalla stessa un contributo per le spese, sicchè ben poteva giustificarsi la richiesta di denaro per altri viaggi compiuti.

Il ricorso è infondato. A proposito, infatti, della doglianza relativa alla mancata rinnovazione della istruzione dibattimentale per la acquisizione di supposte registrazioni di colloqui intervenuti con la persona offesa, la totale assenza di univoche emergenze alla stregua delle quali ritenere effettivamente esistenti tali registrazioni – solo ipotizzate in via di deduzione dal ricorrente – esclude qualsiasi necessità di provvedere al riguardo, stante anche la indimostrata pertinenza e rilevanza delle relative e sempre ipotetiche risultanze rispetto a quanto già accertato nel giudizio di primo grado. Le restanti doglianze, poi, pur deducendo aspetti di incoerenza nella ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito, si limitano in concreto nel prospettare una lettura alternativa dei vari episodi che hanno cadenzato la intricata vicenda che ha riguardato i contrastati rapporti intercorsi tra l’imputato e la persona offesa, senza additare, peraltro, incoerenze nel tessuto narrativo di quest’ultima di spessore tale da incrinarne l’attendibilità, e senza proporre incongruenze logico-deduttive del tessuto motivazionale di tale rilevanza da assurgere il livello della illogicità manifesta. Ciò vale, ovviamente, tanto sul versante della ricostruzione storica dei fatti su cui si è radicata la imputazione che su quello della relativa qualificazione giuridica, giacchè altro nomen iuris – pur sollecitato dal ricorrente – avrebbe presupposto un diverso incedere argomentativo in punto di ricostruzione della vicenda, che, invece, i giudici a quibus hanno, con motivazione non implausibile, decisamente escluso.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. V, Sent., 04-03-2011, n. 1380 Contratti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

– che l’ARPA del Veneto indiceva una gara ufficiosa per l’acquisizione in economia di un cromatografo con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa;

– che la legge di gara prevedeva 60 punti per il profilo qualitativo e 40 punti per l’offerta economica, stabilendo l’esclusione delle concorrenti che non avessero raggiunto il punteggio minimo di 35 punti per l’offerta tecnica;

– che, a seguito di esclusione per mancato raggiungimento del punteggio minimo, la P. impugnava con ricorso straordinario al Capo dello Stato,poi trasposto in sede giurisdizionale a seguito di opposizione dell’ARPA, il provvedimento di esclusione e gli atti della procedura, assumendo che i criteri di valutazione dell’offerta tecnica prevedevano l’attribuzione di ben 24 punti a caratteristiche dello strumento che si identificavano nell’utilizzo di brevetti industriali nella titolarità della ditta D. s.p.a., risultata aggiudicataria, senza alcun riferimento al principio di equivalenza, così violando il principio dell’art. 68 del Codice dei contratti pubblici, applicabile anche ai contratti sotto soglia;

– che il Tar dichiarava inammissibile il ricorso per mancata tempestiva impugnazione della lettera di invito, sul rilievo che la idoneità dei criteri indicati ad impedire il raggiungimento del punteggio minimo dell’offerta tecnica e la mancanza della clausola di equivalenza erano noti fin da tale atto e che il provvedimento di esclusione si configurava come mera conseguenza dell’applicazione di una previsione di per sé lesiva;

– che l’interessata proponeva appello, sostenendo che la legge di gara non poneva alcuna preclusione esplicita tale da onerare gli interessati di immediata impugnazione, assicurando tuttavia modalità di valutazione tali da produrre un vantaggio assoluto per D.; riproponeva, quindi, il motivo non esaminato dal primo giudice chiedendo, in riforma della sentenza gravata, l’annullamento dei provvedimenti impugnati;

– si costituiva l’ARPA del Veneto, insistendo nella conferma della statuizione di inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione della lettera di invito e dell’aggiudicazione, per mancanza di procura alle liti nel ricorso straordinario, per inammissibilità dei motivi dell’originario ricorso, per mancata notificazione al domicilio reale di ARPAV e, comunque, sosteneva l’infondatezza nel merito del ricorso per non essere state indicati marchi D., ma solo modalità di funzionamento dell’apparecchio, peraltro possedute anche dalla ricorrente, e per essere il criterio di equivalenza sotteso al tipo stesso dei requisiti, di natura funzionale, del tutto ragionevoli.
Motivi della decisione

1. Merita accoglimento il motivo di appello con cui si censura la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per non avere il ricorrente tempestivamente impugnato la lettera d’invito.

In merito alla sussistenza dell’onere di immediata impugnazione del bando o della lettera d’invito, il Collegio non può che richiamare l’ormai consolidata giurisprudenza, a partire dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 2003, per la quale, ricollegandosi l’onere di impugnazione ad una lesione immediata, diretta ed attuale e non solo potenziale dell’atto, esso sussiste solo allorquando il bando contenga clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione. Di conseguenza, le clausole del bando o della lettera di invito che onerano l’interessato ad una immediata impugnazione sono quelle che prescrivono requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara, in riferimento sia a requisiti soggettivi che a situazioni di fatto, la carenza dei quali determina immediatamente l’effetto escludente, configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta.

Applicando tali principi al caso di specie, non può non constatarsi come la prescrizione delle caratteristiche tecniche della "tabella punteggi qualità", contenuta nell’allegato F alla lettera d’invito, non abbia precluso alla ricorrente la partecipazione alla gara, ma le abbia, in fase di valutazione dei profili tecnici del prodotto offerto, impedito di raggiungere il punteggio minimo attribuibile all’offerta tecnica necessario perché potesse essere valutata anche quella economica.

L’effetto lesivo concreto ed attuale è allora da ricollegare direttamente all’esclusione, quale conseguenza del mancato raggiungimento del punteggio minimo, evento che, al momento della partecipazione, alla concorrente poteva non apparire affatto scontato (prova ne è che la concorrente ha riportato il punteggio di 34,5 punti, inferiore di poco al punteggio minimo richiesto, pari a 35 punti).

Ne discende che sulla concorrente non gravava alcun onere di impugnazione immediata della lettera d’invito e che ammissibile e tempestiva può considerarsi la sua impugnazione unitamente al provvedimento di esclusione concretamente lesivo del suo interesse.

2. Quanto alle altre eccezioni di inammissibilità non esaminate dal primo giudice, ma riproposte dall’appellata, esse sono da respingere poiché:

– l’aggiudicazione provvisoria e quella definitiva sono state impugnate con il ricorso di primo grado, sebbene non per vizi propri ma meramente derivati dall’illegittimità della lettera d’invito;

– il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica reca, a margine, la procura speciale all’avv. Della Porta (doc. 7 fasc 1° grado);

– rientra nelle facoltà della difesa la prospettazione del fatto e rispetto a tale profilo i motivi di ricorso straordinario appaiono pienamente ammissibili;

– l’atto di costituzione dinanzi al Tar risulta notificato sia presso la sede dell’ARPA (Padova, Via G. Matteotti, n. 27 e Via Rezzonico,n. 37) sia presso il domicilio eletto presso il difensore.

3. Nel merito, l’appello è fondato.

Dalla dichiarazione di privativa industriale della D., agli atti del fascicolo di primo grado, risulta che alcune delle caratteristiche del prodotto assistite da brevetto sono identiche a quelle ricomprese nella tabella costituente l’allegato F. Ci si riferisce, in particolare, alla caratteristica A6 "Generazione elettrolitica dell’eluente" che la D. descrive come oggetto di privativa industriale; alle caratteristiche racchiuse al punto E "Requisiti del sistema di soppressione", corrispondenti a quelle indicate al terzo punto della dichiarazione di privativa. Pur essendo vero che la descrizione della tabella non contiene alcun riferimento al marchio della D., tuttavia essa riproduce caratteristiche esclusive del suo prodotto.

Ai sensi dell’art. 68, comma 13 del codice dei contratti pubblici, le specifiche tecniche non possono menzionare un procedimento determinato, né fare riferimento ad un tipo, ad un’origine o a una produzione specifica che avrebbe come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti. Una deroga è ammissibile solo quando il riferimento sia indispensabile ad individuare l’oggetto dell’appalto, ma in tale caso la descrizione deve essere accompagnata dall’espressione "o equivalente".

L’indicazione delle caratteristiche deve quindi essere effettuata in relazione ad elementi significativi per distinguere l’oggetto della fornitura, ma non può essere utilizzata con lo scopo di determinare una discriminazione a favore o contro imprese produttrici di determinati beni e quando le specifiche tecniche si riferiscono ad un particolare prodotto (pur senza indicarne il marchio) esse devono essere corrette mediante la puntualizzazione di equivalenza.(Cons. St. sez. V, 24.7.2007, n. 4138; 6.12.2010, n. 8543; Sez. VI, 11.3.2010, n. 1443).

Nel caso che occupa, le specifiche tecniche sono, come visto, per buona parte plasmate su quelle del prodotto coperto da brevetto senza che siano accompagnate dalla clausola "o equivalente".

Ne discende la violazione dell’art. 68, comma 13 del d.lgs. n. 163 del 2006 oltre che dei principi in materia di par condicio e di non discriminazione nelle gare.

L’appello va quindi accolto.

Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare le spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, accoglie l’appello e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado.

Dispone la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.