Cons. Stato Sez. V, Sent., 15-12-2011, n. 6587 Carriera inquadramento Rapporto di pubblico impiego

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il ricorrente originario aveva stipulato con la Regione Campania una convenzione in base all’art.60 della legge n.291/1981, in forza della quale aveva assunto funzioni di supporto al gruppo di lavoro per il coordinamento degli interventi nelle zone terremotate.

Il rapporto convenzionale era stato più volte prorogato, finché, ai sensi della legge n.730/1986, ne veniva disposta l’immissione nel ruolo speciale ad esaurimento a seguito del superamento di apposita procedura concorsuale.

In un primo tempo la Regione inquadrava il ricorrente nella settima qualifica funzionale. Successivamente, con la delibera impugnata la Regione procedeva al riesame dell’ originario inquadramento e attribuiva l’ottava qualifica funzionale, fissando la decorrenza giuridica del nuovo inquadramento dal 18/4/1990, data di immissione nel ruolo speciale, mentre fissava quale dies a quo, ai fini della decorrenza del trattamento economico, il giorno della successiva sottoscrizione del contratto di lavoro.

Il ricorrente chiedeva, con il ricorso di prime cure, che anche la decorrenza economica dell’inquadramento venisse ancorata alla data dell’ instaurazione del rapporto convenzionale e, in via subordinata, a quella dell’approvazione della graduatoria concorsuale di cui alla legge n.730/1986 ovvero, ancora, dell’immissione nei ruoli regionali.

A sostegno del gravame l’interessato deduceva profili di violazione di legge e di eccesso di potere.

Il Giudice di prime cure accoglieva il ricorso ritenendo che la pretesa fosse fondata limitatamente alla decorrenza dal 18.4.1990, data di immissione nel ruoli speciali della Regione.

La Regione Campania ha impugnato la sentenza sostenendone l’ erroneità sotto svariati profili.

Nel costituirsi l’appellato ha chiesto la reiezione del gravame.

Le parti hanno affidato al deposito di apposite memorie ai fini dell’illustrazione delle rispettive tesi difensive.

La causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione all’ udienza del 22 novembre 2011.

2. L’appello è infondato.

2.1. Non è fondata, in primo luogo, l’eccezione di difetto di giurisdizione con la quale l’Amministrazione deduce che, trattandosi di domanda inerente ad un rapporto di lavoro pubblico, e segnatamente di inquadramento disposto successivamente al 30 giugno 1998, la giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario.

Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dall’ orientamento, già espresso dalla Sezione con riferimento a controversie analoghe alla presente (cfr. decisioni nn. da 89 a 94 dell’11 gennaio 2011), secondo cui il legislatore, in base all’art. 45, comma 17, d.lg. n. 80 del 1998 (le cui disposizioni sono ora contenute nell’art. 69, T.U., approvato con d.lg. 30 marzo 2001 n. 165), nel trasferire al giudice ordinario la cognizione delle questioni relative ai rapporti di impiego pubblico interessati dalla privatizzazione, ha posto il rammentato discrimine temporale avendo riguardo non al momento di instaurazione della controversia o, ancora, a quello di adozione degli atti amministrativi oggetto di contestazione ma, in coerenza con i caratteri di un giudizio imperniato su un rapporto di matrice privatistica, al dato storico costituito dall’avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze poste a base della pretesa avanzata. Ciò che in definitiva rileva, affinché la domanda possa essere proposta davanti al giudice amministrativo, è che il fatto generatore della pretesa si collochi in un torno di tempo anteriore al 30 giugno 1998, purché presentata non oltre il 15 settembre 2000.

Nel caso di specie il periodo di maturazione dei crediti azionati è anteriore al 30 giugno 1998 mentre le date di compimento degli atti di gestione del rapporto non assumono rilievo, alla stregua delle ragioni esposte, con riferimento ad un petitum sostanziale che si concentra su rapporti economici che coinvolgono posizioni di diritto soggettivo.

2.2. Non è fondato neanche il motivo di appello con cui si deduce la violazione del principio del ne bis in idem in quanto, a fronte del precedente decisum di rigetto motivato in linea principale in ragione della mancata impugnazione del bando relativo al concorso per l’accesso alla VII qualifica, il presente giudizio è stato introdotto con riguardo ad un mutato quadro giuridico che ha condotto l’amministrazione all’adozione del provvedimento di attribuzione dell’inquadramento giuridico nella qualifica superiore a far tempo dal 18 aprile 1990.

2.3. Venendo al merito, assume la Regione appellante che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice il ricorrente originario, nel periodo intercorrente tra il primo inquadramento nel settimo livello di istruttore direttivo ed il successivo reinquadramento dell’ottavo livello, avrebbe svolto le mansioni inerenti al settimo livello funzionale.

Correttamente, quindi, l’amministrazione avrebbe statuito che gli effetti economici del reinquadramento decorressero dalla data di effettivo espletamento delle mansioni riferite alla nuova qualifica, atteso che costituisce ius receptum il principio secondo cui la corresponsione del trattamento economico al pubblico dipendente è legato allo svolgimento della attività lavorativa in modo effettivo, in aderenza a criteri di logica e buon andamento dell’azione amministrativa secondo i quali le pretese economiche non possono che avere riguardo alla effettiva prestazione del servizio.

Rileva la Sezione, in conformità all’indirizzo espresso con le decisioni prima rammentate (cfr. decisioni nn. da 89 a 94 dell’11 gennaio 2011), che le conclusioni dell’appellante sono smentite dall’atto deliberativo impugnato ove si legge che nella fase concorsuale per l’immissione nel ruolo speciale ad esaurimento la Regione Campania non aveva tenuto in debita considerazione "..lacorrispondenza fra le funzioni svolte ed il titolo di studio professionale posseduto dal dipendente e la declaratoria delle qualifiche funzionali individuate dalle legge regionali n.27/1984 e n.23/1989."

Contrariamente a quanto sostenuto nell’atto di appello, la delibera impugnata ha dato quindi atto che il deducente aveva svolto le mansioni corrispondenti a quelle comprese nell’ ottava qualifica funzionale dell’ordinamento regionale.

Infondata è, pertanto, l’ affermazione secondo cui il successivo reinquadramento nella ottava qualifica funzionale sarebbe stato adottato in via di eccezione per conformarsi al contenuto delle note del Ministero della Protezione Civile dal momento che il precedente inquadramento è stato riconosciuto come erroneo dallo stesso ente regionale.

Si deve allora convenire, in coerenza con le conclusioni raggiunte dal Primo Giudice, che il reinquadramento è stato disposto sulla base della verifica regionale delle mansioni effettivamente espletate dal ricorrente originario, erroneamente ricondotte in un primo momento ad una qualifica inferiore e successivamente rivalutate in ragione dell’acclarata corrispondenza tra le funzioni attribuite con la convenzione ed il titolo di studio posseduto (laurea) al fine della individuazione delle qualifiche funzionali.

3.. In conclusione, quanto alla decorrenza economica del reinquadramento, la determinazione impugnata si pone in contrasto con gli accertamenti istruttori in base ai quali la stessa Regione Campania è pervenuta al provvedimento di ricognizione della effettiva posizione rivestita dal deducente nell’ambito della organizzazione amministrativa regionale.

4. L’appello pertanto non merita accoglimento.

Spese ed onorari, tuttavia, per l’andamento e la peculiarità della vicenda, possono essere compensati.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,

lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza appellata.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 novembre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Pier Giorgio Trovato, Presidente

Francesco Caringella, Consigliere, Estensore

Carlo Saltelli, Consigliere

Francesca Quadri, Consigliere

Doris Durante, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 13-06-2012, n. 9630 Tassa rimozione rifiuti solidi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 14/20/10, depositata il 5.2.10 e notificata l’1.3.10, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dalla società Tubettificio M. Favia s.r.l. avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, con la quale era stato disatteso il ricorso proposto dalla contribuente avverso l’avviso di accertamento emesso per il recupero della maggiore TARSU (tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani), per gli anni di imposta dal 2001 al 2005.

2. La CTR, invero, riteneva: a) corretta l’emissione di un unico atto impositivo cumulativo, per più annualità di imposta; b) legittima la determinazione percentuale di riduzione dell’area tassabile adibita alla produzione di rifiuti speciali tossici o nocivi, operata – con regolamento comunale – indistintamente per tutte le attività produttive di tali rifiuti; c) legittimo l’aumento, per l’anno 2005, della superficie sottoposta a tassazione, in applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 70, comma 3, come modificato dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 340.

3. Per la cassazione della sentenza n. 14/20/10 ha proposto ricorso la Tubettificio M. Favia s.r.l., affidato a tre motivi.

L’amministrazione intimata ha replicato con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso, la Tubettificio M. Favia s.r.l.

deduce la violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 64, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

1.1. Avrebbe, invero, errato la CTR nel ritenere legittima l’emissione di un unico avviso di accertamento per più annualità di imposta, sebbene dal tenore letterale della norma di cui al D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 64, comma 1, si evinca che "la tassa è corrisposta in base a tariffa commisurata ad anno solare, cui corrisponde un’autonoma obbligazione tributaria".

1.2. Il motivo è infondato.

1.2.1. Va osservato, infatti, che la menzionata disposizione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 64, comma 1 – la cui rubrica, non a caso, recita "inizio e cessazione dellroccupazione o detenzione" di locali ed aree scoperte, attività costituenti lo specifico presupposto per l’applicazione del tributo – contiene esclusivamente l’enunciazione della dimensione temporale della tassazione, in relazione al presupposto di imposta suindicato. L’applicazione del tributo in parola deve – per vero -avvenire, alla stregua della prescrizione normativa succitata, in base a tariffa commisurata ad anno solare, ed il computo annuale, così effettuato, determina l’insorgenza di un’obbligazione tributaria autonoma per ciascuna annualità di imposta.

Da quanto suesposto non può, peraltro, inferirsi – a giudizio della Corte – che tutte le annualità di imposta dovute dal contribuente debbano, ciascuna, costituire oggetto di un atto impositivo autonomo e diverso da quello relativo alle altre.

1.2.2. Va osservato, infatti, che l’accertamento tributario costituisce l’atto nel quale l’amministrazione finanziaria enuncia la propria pretesa impositiva, esternandone il titolo e le ragioni giustificative, al solo fine di consentire al contribuente di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale.

Nell’ambito dell’eventuale processo instaurato dal contribuente, poi, l’amministrazione creditrice sarà tenuta a passare dall’allegazione della propria pretesa, costituente l’oggetto dell’atto impositivo, alla prova del credito tributario vantato, fornendo la dimostrazione, in concreto, degli elementi costitutivi del proprio diritto (cfr.

Cass. 12394/02, 4322/03, 9129/06).

Ne discende che l’enunciazione della pretesa fiscale, costituente oggetto dell’avviso di accertamento, che si limita a rendere ostensive al contribuente le ragioni per le quali l’amministrazione esercita la propria pretesa creditoria, ben può essere relativo a più annualità di imposta, in ordine alle quali sussistano – in ipotesi – i presupposti e le ragioni giustificative che legittimano l’esercizio del potere di imposizione fiscale.

1.2.3. Con specifico riferimento alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), quindi, in assenza di una qualsiasi norma che vieti specificamente all’ente territoriale di ricomprendere, in un unico documento, avvisi di accertamento che riguardino più annualità di imposta, l’emissione di un avviso di accertamento cumulativo, che ricomprenda, cioè, tutti gli anni in contestazione deve ritenersi pienamente legittimo. In tal caso, infatti, l’atto impositivo, ancorchè forenalmente unico, contiene in realtà, in un documento unitario, più avvisi di accertamento, ciascuno di essi effettuato – come è accaduto nel caso di specie – in riferimento alle singole dichiarazioni annuali del contribuente (cfr., in tal senso, Cass. 15639/04, 20352/06), Per tali ragioni, dunque, il motivo di ricorso in esame non può che essere disatteso.

2. Con il secondo motivo di ricorso, la società contribuente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

2.1. Rileva, invero, la ricorrente che, nell’anno 1995, era stata definita dalla medesima, in contraddittorio con il Comune di Cernusco sul Naviglio, la superficie del proprio stabilimento industriale – adibito alla produzione di tubetti in alluminio per il settore farmaceutico – da tassare ai fini dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, fatta eccezione per quella parte produttiva di rifiuti tossici e nocivi, smaltiti direttamente a spese A della società, ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3. Ne sarebbe dovuta derivare – a parere della Tubettificio M. Favia s.r.l. – l’esenzione dalla tassazione di tutte quelle aree, individuate in contraddittorio con l’ente territoriale, adibite dalla ricorrente a produzione di rifiuti tossici e/o nocivi.

Per converso, il Comune di Cernusco sul Naviglio aveva fatto applicazione, nel caso di specie, dell’art. 7 del regolamento comunale, a norma del quale – in applicazione dell’ultima parte del comma 3 del succitato art. 62 l’area esclusa dalla tassazione, perchè adibita alla produzione di rifiuti tossici o nocivi, è determinata nell’80% della superficie dei locali ove si formano i predetti rifiuti speciali, restando assoggettato a tassazione il residuo 20%.

2.2. Senonchè, ad avviso della Tubettificio M. Favia s.r.l., tale determinazione della superficie esente sarebbe del tutto illegittima, essendo stata effettuata senza l’indicazione – richiesta dalla norma in esame – di specifiche "categorie di attività produttive" preventivamente individuate, bensì operando una riduzione in misura percentuale (80%) indistintamente per tutte le attività produttive di rifiuti tossici o nocivi.

Ne deriverebbe, a parere della ricorrente, l’illegittimità di tale riduzione dell’area assoggettabile a tassazione, con conseguente necessità di disapplicazione del regolamento comunale in forza del quale la stessa riduzione è stata adottata.

2.3. La censura è fondata e merita accoglimento.

2.3.1. Osserva, invero, la Corte che – in forza del disposto del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3 (applicabile ratione temporis alla fattispecie) – sono esenti da imposta le superfici tassabili nelle quali, per specifiche ragioni strutturali o funzionali, si formano, di regola, rifiuti tossici o nocivi, al cui smaltimento – essendo tale produzione esclusa dal servizio comunale di raccolta – devono provvedere a proprie spese i produttori stessi.

E tuttavia, la medesima disposizione succitata riconosce ai Comuni la facoltà di individuare, ai fini della determinazione della superficie non tassabile, categorie di attività produttive di rifiuti speciali, tossici o nocivi, alle quali può essere applicata una percentuale di riduzione rispetto all’intera superficie sulla quale l’attività viene svolta.

Ebbene – come questa Corte ha più volte avuto modo di affermare – tale facoltà non viene correttamente esercitata in tutte le ipotesi in cui il regolamento comunale si limiti a prevedere un limite quantitativo di riduzione della superficie tassabile, applicabile indistintamente a tutte le attività produttive. E’ di tutta evidenza, infatti, che a tal fine occorra – come prevede il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3 – anche l’espressa specificazione delle "categorie di attività produttive" dei predetti rifiuti speciali (tossici o nocivi) ai quali l’imposta si applica, sia pure in relazione ad una superficie ridotta. Ed invero, va tenuto conto del fatto che la tassazione delle aree destinate alla produzione di tali rifiuti speciali si giustifica proprio per essere la produzione degli stessi assimilabile a quella produttiva di rifiuti ordinari.

In caso contrario, infatti, la superficie adibita alla lavorazione industriale di tali rifiuti speciali, non potrebbe che essere del tutto esente da tassazione (cfr. Cass. 13851/04, Cass. S.U. 7581/09).

2.3.2. Ebbene, nel caso di specie, è del tutto incontroverso tra le parti – avendolo affermato anche lo stesso Comune resistente nel controricorso (pp. 4 e 5) – e risulta dall’impugnata sentenza, che l’art. 7 del regolamento comunale di Cernusco sul Naviglio prevede una riduzione della superficie tassabile, in misura dell’80%, indistintamente per tutte le attività, senza individuare le particolari categorie di attività produttive dei predetti rifiuti speciali, assimilabili a quelle produttive di rifiuti ordinari, cui è applicabile la tassazione TARSU con riferimento alle superfici adibite alla produzione dei rifiuti tossici o nocivi, sia pure con la riduzione determinata – in misura percentuale – dal regolamento comunale.

Ne discende che siffatta determinazione della riduzione in parola, operata dal Comune con criterio meramente quantitativo, è da ritenersi illegittima, con la conseguenza che il giudice di merito avrebbe dovuto disapplicare il regolamento comunale che l’ha disposta, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 5.

Pertanto, il motivo di ricorso in esame – per tali ragioni – deve essere accolto.

3. Con il terzo motivo di ricorso, la Tubettificio M. Favia s.r.l.

deduce la violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 70, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

3.1. La CTR non avrebbe, invero, tenuto conto – a parere della società contribuente – del fatto che l’aumento, per l’anno 2005, della superficie sottoposta a tassazione, in applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 70, comma 3, come modificato dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 340, è autorizzato da tale disposizione esclusivamente "per le unità immobiliari di proprietà privata a destinazione ordinaria, censite nel catasto edilizio urbano", Senonchè – a detta della contribuente – lo stabilimento industriale di sua proprietà sarebbe classificato in categoria D, "a destinazione speciale", con conseguente inapplicabilità della norma succitata.

3.2. Il motivo è inammissibile.

3.2.1. La censura collide, invero, con il c.d. principio di autosufficienza del ricorso più volte enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte, ed in forza del quale il ricorrente deve indicare specificamente nel ricorso, anche in caso di denuncia di un errore di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la situazione di fatto della quale chiede una determinata valutazione giuridica, diversa da quella compiuta dal giudice a quo, asseritamente erronea. Ma non basta. Il ricorrente dovrà, altresì, indicare gli atti sui quali l’impugnazione si fonda e che siano tali da evidenziare la situazione di fatto la cui valutazione giuridica si assume errata, e trascriverli nella loro completezza, con riferimento alle parti oggetto di doglianza (cfr. da ultimo, Cass. 6937/10, 11731/11, 86/12).

3.2.2. Ebbene, nel caso concreto, la Tubettificio N. Favia s.r.l. non ha nè allegato, nè trascritto – ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso – il certificato catastale edilizio, che comprovi che lo stabilimento della ricorrente è inserito nella categoria D, ossia come un’unità immobiliare privata a destinazione speciale, e non ordinaria, e, quindi, soggetta all’aumento di superficie L. n. 311 del 2004, ex art. 1.

La censura in esame va, pertanto, dichiarata inammissibile.

4. L’accoglimento del secondo motivo di ricorso proposto dalla Tubettificio M. Favia s.r.l. comporta la cassazione della sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Corte, nell’esercizio del potere di decisione nel merito di cui all’art. 384 c.p.c., comma 2, accoglie il ricorso introduttivo del contribuente.

5. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico del resistente soccombente, nella misura di cui in dispositivo. Concorrono giusti motivi – in relazione alla novità e controvertibilità delle questioni giuridiche trattate nelle precedenti fasi del giudizio – per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese dei gradi di merito.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE accoglie il secondo motivo di ricorso, e rigetta il primo ed il terzo; cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo proposto dal contribuente; condanna il resistente al rimborso delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 1.500,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge; dichiara compensate tra le parti le spese dei giudizi di merito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 17 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-07-2012, n. 11844

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 10-4-2003 A.F. conveniva in giudizio il Comune di Maglie, assumendo che nel 1967 le germane A.L. e A. avevano acquistato un appartamento sito in (OMISSIS); che A.A. (deceduta l’ (OMISSIS)), trasferitasi in altra città, solo negli ultimi anni di vita era tornata a (OMISSIS), senza, tuttavia, più curarsi dell’immobile in questione, sicchè il possesso esclusivo dello stesso era rimasto in capo alla sorella L.; che a quest’ultima, deceduta l'(OMISSIS), non coniugata e senza figli, era succeduto il germano P., il quale, alla morte della sorella, si era insediato nell’alloggio con animo di proprietario esclusivo; che alla morte di A.P. gli era succeduto il figlio F., con lo stesso animo. Tanto premesso, l’attore, proprietario della metà dell’immobile a titolo successorio, chiedeva che venisse riconosciuto il suo diritto anche sull’altra metà, per intervenuta usucapione, nei confronti del Comune convenuto, in cui favore risultava una trascrizione a titolo di erede.

Con sentenza del 27-6-2002 il Tribunale di Siracusa rigettava la domanda.

Con sentenza depositata 1’8-3-2008 la Corte di Appello di Catania rigettava il gravame proposto avverso la predetta decisione dall’attore. La Corte territoriale, in particolare, rilevava che il Comune di Maglie aveva la qualità di legittimato passivo perchè in tale veste era stato evocato in giudizio dall’attore, e che ogni altra questione atteneva al merito e, come tale, avrebbe dovuto essere sollevata e provata ritualmente; riteneva altresì infondate le censure mosse dall’appellante in ordine alla mancata ammissione della prova testimoniale, rilevando che i capitoli articolati non avevano ad oggetto fatti puntuali e circostanziati, ma giudizi e che, comunque, l’ipotetico esito positivo della prova non sarebbe bastato a dimostrare il possesso ventennale dell’immobile.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre A.F., sulla base di due motivi.

L’intimato non ha svolto alcuna attività difensiva.
Motivi della decisione

1) Con il primo motivo il ricorrente, lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 101 e 112 c.p.c. e art. 1150 c.c., nonchè l’erronea motivazione su un punto decisivo della controversia, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il Comune .di Maglie ha assunto la veste di legittimato passivo in quanto in detto ruolo è stato evocato in giudizio dall’attore, e che ogni altra questione non poteva che essere considerata di merito e, come tale, doveva essere sollevata e provata ritualmente. Deduce che il giudice del gravame non ha tenuto conto del fatto che l’attore, a seguito della trascrizione operata dal Comune di Maglie, riguardante l’asserita qualità di erede testamentario di A.A., ha promosso il presente giudizio per contestare la pretesa di tale Ente, non esistendo alcun testamento della de cuius. L’effettivo intendimento dell’attore, pertanto, era di contestare nel merito l’esistenza di un titolo testamentario in favore del convenuto; sicchè tale questione costituiva l’oggetto sostanziale del presente giudizio.

Le censure mosse, che al di là della titolazione del motivo attengono sostanzialmente all’interpretazione data dalla Corte di Appello alla domanda attrice, sono infondate, partendo dall’erroneo presupposto che con l’atto introduttivo del giudizio l’ A. abbia contestato l’esistenza di un testamento con il quale la de cuius abbia nominato erede il Comune di Maglie.

Va preliminarmente osservato che il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti da luogo a un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile nell’ambito dell’art. 112 c.p.c., a norma del quale il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. In tale caso, infatti, deducendosi un vizio in procedendo, la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto e ha, quindi, il potere-dovere di procedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali (Cass. 20-10- 2005 n. 20322; Cass. 25/11/2002, n. 16561; Cass. 05/02/2004, n. 2148;

Cass. 08/08/2003, n. 12022; Cass. 24/01/2003, n. 1097; Cass. 25/11/2002, n. 16561).

Nella specie, pertanto, avendo il ricorrente dedotto, tra l’altro, anche la violazione dell’art. 112 c.p.c., questa Corte può procedere all’esame diretto dell’atto di citazione di primo grado.

Ciò posto, si osserva che con tale atto l’attore, nel dedurre di essere proprietario della metà indivisa dell’appartamento in questione quale erede legittimo del padre (succeduto alla sorella Lucia), ha agito nei confronti del Comune di Maglie, in cui favore risultava una trascrizione a titolo di erede di A.A., per ottenere il riconoscimento dell’acquisto per usucapione della proprietà dell’altra metà dell’immobile, e non già ai fini dell’accertamento negativo della qualità di erede testamentario in capo al convenuto.

Legittimamente, pertanto, la Corte di Appello ha affermato che al Comune, per il solo fatto di essere stato evocato in giudizio nella qualità di erede della comproprietaria A.A., compete la legittimazione passiva in ordine alla proposta domanda di usucapione, ed ha ritenuto invece inammissibili le censure mosse dall’appellante riguardo all’affettiva titolarità del diritto del convenuto, non contestata in primo grado.

Si rammenta, al riguardo, che la legittimazione ad agire costituisce una condizione dell’azione diretta all’ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, che si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza. Ne consegue che, a differenza della "legitimatio ad causam" (il cui eventuale difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio), intesa come il diritto potestativo di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole, l’eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo al merito, non è rilevabile d’ufficio, ma è affidata alla disponibilità delle parti e, dunque, deve essere tempestivamente formulata (tra le tante v. Cass. 27-6-2011 n. 14177; Cass. 30-5-2008 n. 14468). Pertanto, il controllo del giudice sulla sussistenza della legitimatio ad causam, nel suo duplice aspetto di legittimazione ad agire e a contraddire, si risolve nell’accertare se, secondo la prospettazione dell’attore, questi e il convenuto assumano, rispettivamente, la veste di soggetto che ha il potere di chiedere la pronuncia giurisdizionale e di soggetto tenuto a subirla, mentre non attiene alla legittimazione ma al merito della lite la questione relativa alla reale titolarità attiva o passiva del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, che si risolve nell’accertamento di una situazione di fatto favorevole all’accoglimento o al rigetto della pretesa azionata (Cass. 10-5-2010 n. 11284).

Nella specie, la decisione impugnata, uniformandosi a tali principi, ha correttamente riconosciuto, sulla base delle sole allegazioni contenute nella citazione introduttiva, la legittimazione passiva del Comune di Maglie in ordine alla domanda di usucapione proposta dall’attore, ritenendo invece preclusa ogni questione sull’effettiva titolarità della qualità di erede in capo a tale Ente. L’art. 345 c.p.c. (nel testo novellato dalla legge n,. 353U990, applicabile ratione temporis alla fattispecie) vieta, infatti, la proposizione in appello di nuove eccezioni che, come quella inerente alla reale titolarità passiva del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, non siano rilevabili d’ufficio.

2) Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo la violazione e falsa applicazione delle norme in materia di ammissibilità della prova testimoniale, nonchè l’erroneità della motivazione, sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, la prova testimoniale articolata non aveva ad oggetto un’opinione personale, ma un convincimento collettivo su fatti oggettivamente verificatisi.

Il motivo è inammissibile, per carenza di interesse.

La Corte di Appello ha ritenuto inammissibile la prova articolata dall’attore, osservando in primo luogo che con i capitoli dedotti ai testi non veniva chiesto di rispondere su fatti puntuali e circostanziati, che potevano essere a loro conoscenza, ma di esprimere giudizi giuridici, anche complessi, dovendo i predetti riferire che l’attore e, prima di lui, il padre, avevano posseduto animo domini, pacificamente ed ininterrottamente, il bene in questione. Ha aggiunto che l’eventuale esito positivo della prova dedotta non sarebbe bastato a provare l’assunto dell’appellante, in quanto, cumulando al preteso possesso del figlio quello del padre, non si sarebbe giunti, comunque, al ventennio richiesto dalla legge ai fini dell’usucapione.

Il ricorrente si è limitato a censurare la prima parte della motivazione, ma nulla ha dedotto riguardo alla seconda argomentazione, di per sè idonea a sorreggere la decisione.

Ne consegue l’inammissibilità del motivo in esame, alla luce del principio, pacifico in giurisprudenza, secondo cui, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, l’omessa impugnazione di tutte le rationes deciderteli rende inammissibili, per difetto di interesse, le censure relative alle singole ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime, quand’anche fondate, non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre non impugnate, all’annullamento della decisione stessa (tra le tante v. Cass. Sez. L. 11-2-2011 n. 3386; Sez. 1, 18-9-2006 n. 20118; Sez. 3, 27-1-2005 n. 1658; Sez. 1, 12-4-2001 n. 5493).

3) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato.

Poichè l’intimato non ha svolto alcuna attività difensiva, non vi è pronuncia sulle spese.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. I, Sent., 24-01-2011, n. 94

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Con atto notificato in data 13.11.2009 e depositato in data 30.11.2009, si premetteva che la signora A.M. era proprietaria di un terreno della superficie di mq 1131, sito in contrada S. del Comune di B., in catast. al Foglio 5 part. 443, pervenuto con atto di divisione in Notar Miceli di Pizzo Calabro del 16.06.2009 rep. 5304, e che i signori C.C. e A.A., coniugi, erano proprietari, in regime di comunione proindiviso, di un altro terreno della superficie complessiva di mq. 2266, ubicato in contrada S. del Comune di B. ed identificato nel nuovo catasto terreni al Foglio 5 partt. 446 e 459.
Esponevano che la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, con nota prot. n. 6477 del 9.4.2009, comunicava l’avvio del procedimento finalizzato all’apposizione di un vincolo archeologico su dette particelle e che, in data 19 settembre 2009, notificava l’epigrafato decreto di vincolo, motivato "per relationem" all’allegata relazione scientifica ed istruttoria, che rinviava ad "indagini geoarcheologiche preliminari", eseguite nel 2007 dalla "G.M. s.n.c.", su precisa indicazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, dalle quali sarebbe emersa l’esistenza di una villa romana.
A sostegno del proprio ricorso, deducevano:
1) Illegittimità del provvedimento impugnato per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 10 del D.Lgs. 42/2004 nonché difetto di motivazione in ordine a quanto richiesto da detta norma.
Non vi sarebbe certezza in ordine all’esistenza di una villa romana proprio sui terreni di proprietà dei ricorrenti e neanche in ordine all’importanza del ritrovamento, per cui difetterebbero i presupposti per l’apposizione del vincolo, ai sensi dell’art. 10 del D. Lgs. 42/2004, quali la certa esistenza del bene archeologico e la motivazione circa l’importanza del rinvenimento archeologico.
2) illegittimità del provvedimento impugnato sotto i profili dell’eccesso di potere per illogicità del provvedimento, difetto assoluto del presupposto e travisamento dei fatti nonché difetto di istruttoria e manifesta ingiustizia.
Il provvedimento sottoporrebbe indistintamente a vincolo, per la presunta esistenza di una villa romana, un’area vastissima, nonostante, nella zona, non sarebbe mai stato eseguito uno scavo archeologico né vi sarebbero strutture murarie visibili fuori terra. Inoltre, solo dalla carota S10 (su undici eseguite sui terreni dei ricorrenti) sarebbero emerse strutture murarie, mentre nessuna struttura né alcun dato interessante sarebbero emersi dalla part. 446.
3) illegittimità del provvedimento impugnato per violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto dagli artt. 14 del D.Lgs. 42/2004 e 8 della legge 241/90 nonché dell’art. 8 della legge 241/90 per difetto di motivazione:
La nota prot. 6477 del 9.04.2009 della Soprintendenza per i Beni Archeologici, di comunicazione dell’avvio del procedimento, non conterrebbe i prescritti elementi di identificazione e "di valutazione della cosa risultanti dalle prime indagini" e mancherebbe anche della indicazione del responsabile del procedimento.
Concludevano per l’accoglimento del ricorso, con vittoria di spese.
Con atto depositato in data 1.12.2009, si costituiva la difesa erariale per resistere al presente ricorso e depositava la documentazione inerente la fattispecie.
Con memoria depositata in data 9.11.2010, la difesa erariale insisteva per la legittimità del proprio operato.
Alla pubblica udienza del 17 dicembre 2010, il ricorso passava in decisione.
Motivi della decisione
1. Viene impugnato il Decreto n. 322 del 14 agosto 2009, a mezzo del quale alcuni beni immobili di proprietà dei ricorrenti, precisamente i terreni identificati nel N.C.T. del Comune di B. al foglio 5 partt. 443 e 459 e parte della part. 446, sono stati dichiarati di interesse archeologico particolarmente importante, ai sensi dell’art. 10 comma 3 lettera a) del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, notificato il 19 settembre 2009.
2. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono che non vi sarebbe alcuna certezza in ordine all’esistenza di una villa romana proprio nei terreni di proprietà dei ricorrenti e neanche in ordine all’importanza del ritrovamento, per cui difetterebbero i presupposti per l’apposizione del vincolo, ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. 42/2004, quali la certa esistenza del bene archeologico e la motivazione circa l’importanza del rinvenimento archeologico.
Evidenziano, in particolare, che, come precisato nella relazione scientifica della società "Aspasia Archeoservice srl’, da loro prodotta, nella raccolta di superficie cosiddetta "area C" sarebbero stati rinvenuti soltanto due frammenti databili (pag. 4 della relazione della G.M. S.n.c.), mentre nessun frammento sarebbe stato rinvenuto nella raccolta "area D". Inoltre, le indagini georadar non sarebbero risultate affidabili, poiché, su undici carotaggi eseguiti, soltanto in un caso (carotaggio S10) sarebbe emersa una struttura in muratura sulla particella della sig.ra A.M. ed in nessuno dei carotaggi eseguiti sulla part. 446 dei sigg. Costanzo ed Anile sarebbe emersa alcuna struttura muraria. Infine, sulle particelle dei ricorrenti, non sarebbe stata eseguita alcuna attività di scavo, neppure saggi esplorativi (pag. 9 della relazione della "G.M. s.n.c.", ove si riferisce di un solo piccolo saggio eseguito però sulla part. 457).
Com’è noto, l’imposizione del vincolo archeologico, ai sensi del D. Lgvo 22.1.2004 n. 42 (già della legge 1.6.1939 n. 1089) è un’attività che attiene all’esercizio della discrezionalità tecnica dell’amministrazione, come tale insindacabile in sede di legittimità, ove sorretta da adeguata motivazione, che postula l’esatta individuazione dell’area da vincolare con la specificazione del tipo di vincolo, diretto o indiretto, da imporre su ciascuna particella catastale interessata, con indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni in diritto che ne giustificano l’imposizione e consentono di cogliere la correlazione tra estensione del bene archeologico tutelato ed estensione dell’immobile di proprietà privata, sottoposto a vincolo.
Invero, il provvedimento deve indicare con precisione il bene oggetto del vincolo e, se indiretto, le cose in funzione delle quali il vincolo è imposto, il rapporto di complementarietà fra le misure limitative ed il fine pubblico perseguito nonché le ragioni di adozione della misura limitativa (conf.: Cons. Stato, Sez. VI, 19.1.2007, n. 111; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 8.2.2007 n. 370), al fine di evitare che la compressione del diritto di proprietà che ne deriva si possa tradurre in un’inutile limitazione dello stesso (conf.: T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 24.3.2003, n. 374).
L’interesse a tutelare i reperti archeologici non inerisce solo alla loro conservazione, una volta portati alla luce, ma anche alla loro protezione, quando risultano ancora interrati, sempreché vi siano adeguati elementi che ne facciano seriamente presumere l’esistenza.
In quest’ottica, è stato ritenuto adeguatamente motivato il provvedimento di vincolo di importante interesse archeologico imposto su un terreno, con l’enunciazione delle finalità della legge 1.6.1939 n. 1089 e l’esplicito riferimento al rinvenimento, in una zona già ricca di reperti archeologici, di altri giacimenti, con l’ulteriore enunciazione dell’esigenza di tutelare le aree limitrofe al rinvenimento effettuato (conf.: Cons. Stato Sez. VI 19.9.1992 n. 674), mentre è stato ritenuto illegittimo il decreto di vincolo di notevole interesse archeologico imposto su una vasta estensione di terreno, comprendente numerose particelle catastali, per la carenza di indicazione puntuale e rigorosa dei singoli reperti nonché della correlativa ubicazione nelle varie particelle prese in considerazione.
Nella specie, la relazione scientifica allegata al decreto di apposizione del vincolo evidenzia che "nelle particelle nn. 443, 446 (parte), 457 e 459 di cui si propone il vincolo sono stati individuati stratigrafie, murature e pavimenti relativi ad una villa romana ubicata nelle immediate vicinanze del mare, oltrechè alla foce dell’attuale torrente S., come dimostra lo studio geomorfologico effettuato attraverso i carotaggi" (pag.1, ultimo capoverso), che "per quanto riguarda la zona corrispondente alla particella 446…che nella relazione tecnica prodotta dalla ditta G.M., viene definita per una parte a basso rischio archeologico, e per la restante parte a rischio archeologico molto basso, tuttavia si ritiene di doverla inserire in parte nella presente proposta di vincolo, con l’esclusione dell’area corrispondente alla carota S17, per i motivi che seguono. Nei carotaggi S16, S20, S4 ed S5 tutti effettuati nell’area in questione, sono stati rinvenuti consistenti strati archeologici di vario spessore compreso tra i 70 cm nei carotaggi S4 ed S5, i m. 1,30 nel carotaggio S 16 Ee i m 1,60 nel carotaggio S 20; detti strati denominati Ap (Apl, Ap2), B, Bss, Bwb, inglobano, per la maggior parte, frammenti laterizi (Ap (Ap1 e Ap2), B, Bss) e quello denominato Bwb anche frammenti ceramici; detti strati sia per caratteristiche geologiche che archeologiche sono in tutto simili agli strati che coprono o sono coperti dalle strutture di età romana rinvenute nei carotaggi eseguiti nella restante area…..il fatto che questi strati non sembrano inglobare evidenti strutture murarie, non esclude né inficia il loro valore archeologico che è pari, considerata appunto la connessione e la contiguità, agli altri strati rinvenuti…" (pag. 23).
Ad avviso del Collegio, la struttura motivazionale della suddetta relazione scientifica, richiamata "per relationem" nel provvedimento impugnato, contiene sufficienti elementi esplicativi ed una sua coerenza logica, per cui resiste ai profili di illegittimità denunciati.
3. Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono che l’impugnato provvedimento sottoporrebbe indistintamente a vincolo, per la presunta esistenza di una villa romana, un’area vastissima, nonostante, nella zona, non sarebbe mai stato eseguito uno scavo archeologico né vi sarebbero strutture murarie visibili fuori terra. Inoltre, solo dalla carota S10 (su undici eseguite sui terreni dei ricorrenti) sarebbero emerse strutture murarie, mentre nessuna struttura né alcun dato interessante sarebbero emersi dalla part. 446.
La censura non appare condivisibile alla luce delle argomentazioni svolte in sede di disamina della prima censura, che possono essere richiamati.
Invero, secondo "ius receptum", il vincolo archeologico può essere limitato ai fondi immediatamente circostanti ai resti archeologici o estendersi sino a creare una zona di rispetto, tale da garantire, oltre la conservazione dei resti, ogni possibilità di fruizione degli stessi e può, in linea generale, comprendere anche immobili non direttamente interessati dai reperti archeologici, ma limitrofi ai fondi nei quali tali reperti sono stati individuati, sempre, ovviamente, a condizione che vi sia una specifica motivazione sull’esigenza di imposizione del vincolo (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. VI, 8 settembre 2005, n. 4599).
Inoltre, gli elementi a supporto dell’esistenza della villa romana, contenuti nell’atto gravato, trovano specificazione nell’allegata relazione, che individua l’esatto perimetro catastale su cui insiste e le singole particelle interessate, dando contezza del sicuro coinvolgimento della proprietà dei ricorrenti e precisando anche in ordine alla natura di detto coinvolgimento.
In definitiva, si possono ritenere sufficienti gli elementi indicati nel provvedimento, integrato dal rinvio "per relationem" alla allegata relazione.
Pertanto, la censura non merita adesione.
4. Con il terzo motivo, i ricorrenti deducono che sarebbe stato violato l’art. 14 del Codice dei Beni Culturali, poiché la nota prot. 6477 del 9.04.2009 della Soprintendenza per i Beni Archeologici, di comunicazione dell’avvio del procedimento, non conterrebbe i prescritti elementi di identificazione e "di valutazione della cosa risultanti dalle prime indagini" e mancherebbe anche della indicazione del responsabile del procedimento.
L’art. 14, comma 2°, del D. Lgvo 22.1.2004 n. 42 precisa: "La comunicazione contiene gli elementi di identificazione e di valutazione della cosa risultanti dalle prime indagini, l’indicazione degli effetti previsti dal comma 4, nonché l’indicazione del termine, comunque non inferiore a trenta giorni, per la presentazione di eventuali osservazioni".
Nella specie, la nota prot. 6477 del 9.04.2009 precisa espressamente che è stato "avviato il procedimento per l’emanazione di un decreto di vincolo archeologico" ed indica espressamente le particelle di terreno interessato, assegnando il termine di trenta giorni per la presentazione delle osservazioni, con ciò assolvendo certamente alle finalità previste dalla legge e consentendo, quindi, ai destinatari di avere contezza del tipo di procedimento in itinere.
Invero, l’omessa indicazione del responsabile del procedimento e dell’unità organizzativa competente non invalida la comunicazione di avvio del procedimento, poiché, in base alla norma suppletiva di cui all’art.5 della legge 7.8.1990 n. 241, "in caso di mancata designazione del responsabile del procedimento è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto all’unità organizzativa competente", con la conseguenza che non esplica alcun effetto viziante il provvedimento finale.
Pertanto, la censura non merita adesione.
In definitiva, il ricorso si appalesa infondato e va rigettato.
La complessità delle questioni affrontate consiglia di disporre l’integrale compensazione delle spese e degli onorari del presente giudizio.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Romeo, Presidente
Concetta Anastasi, Consigliere, Estensore
Giovanni Iannini, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.