Corte Suprema di Cassazione – Penale Sezione V Sentenza n. 26943 del 2006 deposito del 31 luglio 2006

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Motivi della decisione

1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Brescia ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di E? G? in ordine al delitto di abu­so di informazioni privilegiate, contestatogli per avere comunicato a E? L? informazioni rela­tive ai piani di risutrutturazione della C.M.I. s.p.a. all’interno del gruppo imprenditoriale Falck e al progetto di costituzione della Investimenti mobiliari Lombarda s.p.a. mediante scissione della suddetta C.M.I., con la cessione del pacchetto di controllo della nuova società alla G.P. Finanziaria s.p.a. e/o alla H.O.P.A, s.p.a., di cui G? era amministratore. Con la stessa sentenza la corte bresciana, pur prosciogliendo E? L? per sopravvenuta abolitio criminis e pur revocando la confisca disposta in primo grado, ha respinto la richiesta di restituzione dei titoli azionari se­ questrati a E? L?, F? L? e T? L?, disponendone la trasmissione alla Consob per l’eventuale confisca in relazione all’illecito amministrativo di sua competenza.

Ricorrono per cassazione E? G?, E? Lo­nati, F? L? e T? L?. La Consob è intervenuta con memoria ai sensi dell’art. 93 e .p.p.

2. I L? censurano la decisione relativa al man­tenimento del sequestro delle azioni di loro proprietà, lamentando l’esercizio da parte dei giudici del merito di un potere riservato dalla legge a un organo amministrativo, vale a dire alla Consob, competente a irrogare le sanzioni amministrative comminate per gli illeciti depenalizzati, e la violazione dell’art. 323 comma 1 e.p.p., che impone la restituzione delle cose sequestrate quando venga pronunciata sentenza di proscioglimento cui non segua la confisca. Aggiungono che l’art. 20 della legge n. 689 del 1981, cui la corte d’appello ha fatto riferimento, non è applicabile quando, come nel caso in esame, il giudice penale non sia compe­tente a conoscere per connessione anche dell’illecito amministrativo cui possa conseguire il provvedimento di confisca.

E? G? propone sei motivi d’impugnazione. Con il primo motivo il ricorrente ripropone l’ecce­zione di nullità del decreto di citazione a giudi­zio, per indeterminatezza dell’accusa, e conseguen­temente dell’intero giudizio di merito. Rileva che nel decreto di citazione a giudizio notificatogli non risultava enunciata l’imputazione contestata a E? L?, cui pure rinviava l’imputazione a lui contestata; sicché risultava incompleta la con­testazione del fatto. E aggiunge che l’indetermina­tezza della contestazione risulta vieppiù dalla mancata indicazione del luogo e del tempo della pretesa rivelazione indebita, posto che, come rico­noscono gli stessi giudici del merito, l’effettivo significato dell’addebito si sarebbe potuto desume­re solo dalle indicazioni di contesto enunciate nella sola imputazione contestata a E? L?, risultando errata la qualificazione del reato con­testato come reato di evento anziché di mera con­dotta.

Con il secondo motivo il ricorrente ripropone una questione di legittimità costituzionale del d.lgs. n. 58 del 1998, già sollevata dalla corte bresciana in relazione all’entità della pena comminata in ri­tenuta violazione della legge delega, e lamenta che i giudici del merito non abbiano ottemperato al­l’ordinanza con la quale la Corte costituzionale aveva loro demandato una riconsiderazione della ri­levanza della questione in seguito alla sopravvenu­ta legge n. 62 del 2005, modificativa del decreto. Deduce che erroneamente i giudici del merito hanno ritenuto irrilevante la questione in ragione della sanzione in concreto irrogata, contenuta entro i limiti della previgente legge n. 157 del 1991, che si assume illegittimamente modificata dal d.lgs. n. 58 del 1998. Infatti la pena in concreto applicabi­le risulta determinata sulla base della cornice edittale che gli stessi giudici del merito ricono­scono illegittimamente modificata dal d.lgs. n. 58 del 1998.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 2 c.p., lamentando che erroneamente i giudici del merito abbiano ritenuto applicabile an­che al fatto già contestatogli la nuova fattispecie criminosa introdotta dalla legge n. 62 del 2005 in sostituzione di quella prevista in precedenza dal d.lgs. n. 58 del 1998. Sostiene che la fattispecie illecita attualmente prevista dall’art. 184 del d.lgs. n. 58 del 1998, sostituito dalla legge n. 62 del 2005, si differenzia da quella prevista in pre­cedenza dall’art. 180 dello stesso decreto per i soggetti attivi, per le condotte tipiche, per l’og­getto materiale del reato. Sicché non v’è continui­tà normativa tra le due fattispecie succedutesi e la nuova fattispecie non è applicabile ai fatti commessi in precedenza. E se una continuità norma­tiva si voglia nondimeno riconoscere, essa dovrebbe essere limitata a una parte soltanto della fatti­specie precedente, perché la nuova fattispecie pre­vede come punibile solo la condotta di chi abbia un ruolo all’interno della società emittente dei titoli cui l’informazione privilegiata si riferisce. Sicché egli, essendo estraneo alla società emitten­te dei titoli cui l’informazione si riferiva, si trova nella stessa posizione di E? L?, che per questa stessa ragione è stato prosciolto dalla corte d’appello.

Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazio­ne dell’art. 180 comma 1 lettera b) d.lgs. n. 58 del 1998 e dell’art. 192 e.p.p., vizi di motivazio­ne della decisione impugnata in ordine all’effetti­va sua comunicazione a E? L? delle informa­zioni controverse.

Con il quinto motivo il ricorrente deduce violazio­ne dell’art. 180 comma 1 lettera b) d.lgs. n. 58 del 1998 e delle norme anche costituzionali in tema di prova, vizi di motivazione della sentenza impu­gnata in ordine all’elemento psicologico del reato contestato.

Con il sesto motivo infine il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordi­ne alla determinazione della pena.

3. Risulta preliminare l’esame dei motivi del ri­corso proposto da E? G?.

3.1- Il primo motivo è manifestamente infondato, perché nell’imputazione elevata a carico del ricor­rente risultano enunciati tutti gli elementi neces­sari e sufficienti a identificare con precisione l’addebito mossogli: la sua qualità di amministra­tore delle società H.O.P.A. e G.P. Finanziaria e la comunicazione a E? L? di informazioni pri­vilegiate riguardanti l’imminente trasferimento di un ramo di azienda del gruppo Falck alle società da lui rappresentate, con abuso perciò di questo suo ruolo. Erano pertanto superflui i reciproci richia­mi contenuti nelle imputazioni rispettivamente con­testate a E? L? ed E? G?, avendo tali richiami solo la finalità di enfatizzare la duplicità di prospettive in cui una stessa vicenda finanziaria assumeva rilievo penale. Né ha alcuna rilevanza nel contesto di tali imputazioni la man­cata indicazione del luogo e del tempo della comu­nicazione incriminata, perché ciò che rileva sul piano cronologico è il fatto, specificamente conte­stato, dell’intervento della comunicazione prima che l’informazione comunicata fosse divenuta di pubblica conoscenza.

3.2- Il secondo motivo del ricorso è inammissibile per mancanza di interesse.

La personalizzazione della responsabilità penale impone infatti di rinunciare a una predeterminazio­ne rigida della misura della pena e di affidare al giudice un ambito di valutazioni discrezionali, che rendano possibile l’adeguamento della pena alle e-sigenze del caso concreto, non integralmente prede­terminabili in astratto. Sicché il legislatore deve individuare in astratto il tipo di pena irrogabile per un determinato reato; e deve fissare per la sua commisurazione limiti quantitativi minimi e massi­mi. Ma spetta poi inevitabilmente al giudice la de­terminazione della misura della pena in concreto adeguata, secondo quanto appunto prevede l’art. 132 comma 1 c.p., laddove stabilisce che "nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena di­screzionalmente", sebbene richiedendo al giudice anche di indicare i motivi che giustificano l’esercizio del suo potere discrezionale, con rife­rimento agli elementi della gravità del reato e della capacità a delinquere del colpevole, di cui l’art. 133 gli prescrive di tener conto. Sicché so­no la gravità del fatto e la capacità a delinquere del colpevole i criteri di effettiva determinazione della pena, mentre i limiti esterni fissati dal le­gislatore intervengono solo a contenere nel minimo o nel massimo, ed ex post, le valutazioni del giu­dice.

Contrariamente a quanto il ricorrente deduce, quin­di, la cornice edittale opera solo quale limite, non quale criterio di determinazione della pena. E quindi, nel caso in esame, essendo stata determina­ta la pena in una misura compatibile con i limiti esterni, minimi e massimi, che risulterebbero dal­l’accoglimento dell’eccezione di illegittimità co­stituzionale del d. lgs. n. 58 del 1998, ne conse­gue che la questione di costituzionalità è irrile­vante e che il motivo di ricorso è inammissibile.

3.3- Il terzo motivo del ricorso è infondato in en­trambi i suoi profili.

Tra la fattispecie prevista dal testo originario dell’art. 180 d.lgs. n. 58 del 1998 e la fattispe­cie prevista dall’art. 184 dello stesso decreto, così come modificata dalla legge n. 62 del 2005, v’è infatti un rapporto di specialità: una specia­lità per specificazione quanto ai soggetti attivi, che risultano ora qualificati da un ruolo determi­nato, e una specialità per aggiunta quanto alle condotte, più dettagliatamente descritte nella nuo­va fattispecie.

Tuttavia, essendo irrilevante ai fini dell’art. 2 comma 3 c.p. la specificazione relativa ai sogget­ti, risulta evidentemente prevalente, quanto alle condotte, il significato lesivo dell’elemento comu­ne e tipico in entrambe le attispecie, vale a dire l’abuso di informazioni privilegiate, piuttosto che gli elementi aggiuntivi introdotti nella nuova fattispecie. ÿ infatti l’abuso delle informazioni privilegiate appunto il nucleo di disvalore del fatto; e questo nucleo è rimasto immutato. Sicché v’è certamente continuità nel tipo di illecito, co­me correttamente hanno ritenuto i giudici del meri­to; e chi aveva commesso nel vigore della preceden­te disciplina un fatto penalmente rilevante, ne ri­sponderà comunque, se il fatto allora commesso ri­sulti rilevante anche con la nuova disciplina so­pravvenuta .

Quanto alla qualifica soggettiva del ricorrente, amministratore delle società H.O.P.A. e G.P. Finan­ziaria, correttamente i giudici del merito l’hanno ritenuta idonea a individuarlo come soggetto attivo anche della nuova fattispecie illecita. Il nuovo art. 184 del d.lgs. n. 58 del 1998 prevede infatti che soggetto attivo del reato di abuso di informazioni privilegiate possa essere non solo chi abbia un ruolo all’interno della società emittente dei titoli cui le informazioni si riferiscono, ma anche chi sia in possesso di tali informazioni in ragione "dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubbli­ca, o di un ufficio". Ed è indiscusso che debba qualificarsi come ufficio privato il ruolo di ammi­nistratore delle società H.O.P.A. e G.P. Finanzia­ria, che sin dall’origine è stato contestato a Emi­lio G? quale ragione dell’imputazione elevata a suo carico. Come è indiscutibile che tale ruolo del ricorrente sia specificamente rilevante ai fini dell’imputazione di cui è chiamato a rispondere. Considerata infatti l’autonomia soggettiva delle società di capitali, chi ne abbia l’amministrazione può trovarsi ad avere interessi personali contra­stanti o comunque distinti da quelli della società, anche quando ne sia socio di maggioranza. Sicché commette un abuso chi, essendo in possesso di in­formazioni privilegiate in quanto amministratore della società, le utilizzi a scopo di profitto per­sonale .

Secondo i giudici del merito è quanto è accaduto nel caso in esame, perché E? G?, essendo al corrente delle trattative in corso tra il gruppo Falck e le società da lui amministrate, ha utiliz­zato queste informazioni per agevolare le specula­zioni degli amici L? sui titoli del gruppo Falck. Né la condanna di E? G? è in con­traddizione con l’assoluzione di E? L?, ap­punto perché solo G?, e non anche L?, aveva il ruolo di amministratore delle società che aveva­no in corso trattative con il gruppo Falck. 3.4- I rimanenti tre motivi del ricorso di E? G? sono inammissibili, perché propongono censu­re attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con riferimento a una plausibile ricostruzione dei fatti come manifesta­zione di un’attività speculativa condotta da E? G? in proprio e in comunanza di interessi con i L?, approfittando delle informazioni di cui di­sponeva quale amministratore delle società contra­enti del gruppo Falck.

Tale ricostruzione, che si fonda su una ragionevole valutazione delle prove desumibili da testimonianze (in particolare Agarini e Falck) legittimamente ac­quisite, non è infatti censurabile nel giudizio di legittimità, come non sono censurabili le valuta­zioni espresse dai giudici del merito circa la gravità del fatto, quale criterio di determinazione della pena in sei mesi di reclusione e in ?. 120.000 di multa, certamente più vicina ai minimi che ai massimi edittali, ulteriormente ridotta poi di un terzo per le attenuanti generiche e sostitui­ta, quanto alla pena detentiva, con una sanzione pecuniaria di ?. 4.560.

In realtà, nel momento del controllo di legittimi­tà, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la mi­gliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compati­bile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass., sez. V, 30 novembre 1999, Moro, m. 215745, Cass., sez. II, 21 dicembre 1993, Modesto, m. 196955). Se­condo la comune interpretazione giurisprudenziale, del resto, l’art. 606 e.p.p. non consente alla Cor­te di cassazione una diversa lettura dei dati pro­cessuali (Cass., sez. VI, 3 0 novembre 1994, Baldi, m. 200842; Cass., sez. I, 27 luglio 1995, Chiadò, m. 202228) o una diversa interpretazione delle pro­ve (Cass., sez. I, 5 novembre 1993, Molino, m. 196353, Cass., sez. un., 27 settembre 1995, Manni-no, m. 202903), perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori; e l’art. 606 lettera e) e.p.p., quando esige che il vizio della motivazione risulti dal testo del provvedi­mento impugnato, si limita a fornire solo una cor­retta definizione del controllo di legittimità sul vizio di motivazione. Né questa interpretazione può risultare superata in ragione della modifica appor­tata all’art. 606 comma 1, lettera e, e.p.p., dal­l’art. 8 1. 20 febbraio 2006, n. 46, con la previ­sione che il vizio di motivazione può essere dedot­to quando risulti non solo dal testo del provvedi­mento impugnato ma anche "da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame". Questo riferimento va evidentemente interpretato in un senso che non privi di qualsiasi significato il limite della contestualità imposto dalla stessa di­sposizione; e quindi va interpretato come relativo solo agli atti dai quali derivi un obbligo di pro­nuncia che si assuma violato dal giudice del meri­to, come ad esempio la richiesta di una circostanza attenuante o della sostituzione della pena detenti­va. Infatti, se il vizio di motivazione deve risul­tare dal testo della decisione impugnata, come tra­dizionalmente si riconosce anche quando si attri­buisce in via esclusiva al giudice del merito la selezione delle prove, questa selezione non può es­sere censurata neppure se il ricorso risulti effet­tivamente autosufficiente, perché il divieto di ac­cesso agli atti istruttori è la conseguenza di un limite posto all’ambito di cognizione della Corte di cassazione, non ha una funzione solo "logisti­ca", che possa essere soddisfatta mediante la tra­scrizione dei verbali di prova nel ricorso. Non c’è nessuna prova, in realtà, che abbia un si­gnificato isolato, slegato, disancorato dal conte­sto in cui è inserita. Può accadere che una prova abbia un significato determinante; ma per poter stabilire se una prova non considerata dal giudice del merito abbia effettivamente un significato pro­batorio pregnante, occorre comunque una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile.

Sicché, il significato delle prove lo deve stabili­re il giudice del merito, non lo può definire il giudice di legittimità sulla base della lettura ne­cessariamente parziale suggeritagli dal ricorso per cassazione.

4. I ricorsi dei fratelli L? sono infondati. Nella giurisprudenza di questa Corte è invero ri­corrente l’affermazione che nel prosciogliere l’im­putato da un’ipotesi di reato depenalizzata il giudice non può ordinare la restituzione delle cose in sequestro, ma deve trasmettere gli atti all’uf­ficio amministrativo competente perché provveda al­l’applicazione della sanzione e della confisca am­ministrativa (Cass., sez. Ili, 28 marzo 1996, Faye, m. 205447, Cass., sez. Ili, 6 febbraio 1995, Kane Malik, m. 201577).

Questa affermazione viene di solito giustificata con riferimento alle disposizioni transitorie delle varie leggi di depenalizzazione succedutesi nel tempo, che hanno per lo più previsto l’obbligo del giudice di trasmettere alle autorità competenti gli atti relativi alle ipotesi di reato trasformate in illeciti amministrativi. Tuttavia quest’obbligo di rapporto non giustificherebbe di per sé il manteni­mento del sequestro. La facoltà del giudice di di­sporre il mantenimento del sequestro già esistente fu previsto esplicitamente solo dall’art. 1 comma 3 della legge 21 ottobre 1988, n. 455, di depenaliz­zazione degli illeciti valutari (Cass., sez. Ili, 27 settembre 1989, Breiner, m. 182295) . E deve ri­tenersi che in realtà sia in applicazione analogica di questa disposizione che la giurisprudenza suc­cessiva ha riconosciuto al giudice il potere di di­sporre il mantenimento del sequestro anche in rela­zione ad altri illeciti depenalizzati. La legge 18 aprile 2005, n. 62, nel depenalizzare parzialmente il reato di abuso di informazioni pri­vilegiate, ha aggiunto al d. lgs. n. 231 del 2001 un art. 25 sexies, il cui comma 6 prevede che "l’autorità giudiziaria, in relazione ai procedi­menti penali per le violazioni non costituenti più reato, pendenti alla data di entrata in vigore del­la presente legge, se non deve pronunciare decreto di archiviazione o sentenza di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevan­za penale del fatto, dispone la trasmissione degli atti alla CONSOB". Anche questa legge, come altre leggi di depenalizzazione, tende dunque ad assicu­rare una qualche continuità tra il procedimento pe­nale e il procedimento amministrativo di accerta­mento degli illeciti depenalizzati. E questa ratio di continuità giustifica l’applicazione analogica dell’art. 1 comma 3 della legge 21 ottobre 1988, n. 455, con la conseguente legittimità del mantenimen­to del sequestro.

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