Corte Costituzionale, Sentenza n. 181 del 2011, in materia di risanamento della finanza pubblica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 26 del 15-6-2011

Sentenza

nei giudizi di legittimita’ costituzionale dell’articolo 5-bis, commi
3 e 4 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il
risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonche’ dell’articolo 16, commi
quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto) della legge 22 ottobre
1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale
pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilita’; modifiche
ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962,
n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per
interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale,
agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’articolo 14 della
legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilita’ dei suoli),
promossi dalla Corte d’appello di Napoli, con ordinanze del 7 aprile
e del 19 marzo 2010 e dalla Corte d’appello di Lecce con ordinanza
dell’8 ottobre 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 305, 351 e 399
del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 42 e 47, prima serie speciale, dell’anno 2010 e
n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di costituzione di F. L., di F. N. W., del Comune
di Salerno, nonche’ gli atti di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 10 maggio 2011 e nella camera di
consiglio dell’11 maggio 2011 il Giudice relatore Alessandro
Criscuolo;
Uditi gli avvocati Giorgio Stella Richter per F. L., Edilberto
Ricciardi per il Comune di Salerno e l’avvocato dello Stato Giacomo
Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – La Corte di appello di Napoli, con ordinanza depositata il
19 marzo 2010 (r. o. n. 351 del 2010), ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3, 42, terzo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimita’ costituzionale dell’art.
5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonche’ dell’art.
16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto) della legge
22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia
residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica
utilita’; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n.
1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed
autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore
dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come
sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per
la edificabilita’ dei suoli).
2. – La Corte territoriale riferisce di essere chiamata a
pronunziarsi in un giudizio, promosso dalla signora N. W. F. nei
confronti del Comune di Montoro Superiore e diretto ad ottenere la
condanna di quest’ultimo al pagamento (tra l’altro) dell’indennita’
di espropriazione e dell’indennita’ di occupazione legittima,
relative all’esproprio di un suolo, appartenente all’attrice, situato
nel territorio del detto ente. In una prima fase del processo il
consulente di ufficio aveva rilevato che il terreno, pur se
classificato come agricolo nel piano di fabbricazione adottato dal
Comune di Montoro Superiore, era ubicato a ridosso del centro
cittadino, in una zona in possesso di tutte le caratteristiche dei
suoli edificatori, e sicuramente appetibile anche in vista di un suo
possibile sfruttamento per fini diversi dall’edificazione, sicche’ lo
aveva valutato in lire 55.851 al mq., con riferimento al dicembre
1982; successivamente era stata disposta una nuova consulenza, volta
a verificare se, alla data del decreto di esproprio (20 marzo 1985),
il suolo de quo avesse valore agricolo o edificabile e a determinare
l’importo delle due indennita’. Il consulente aveva accertato che il
terreno in questione era classificato nel catasto terreni del Comune
di Montoro Superiore come "seminativo arborato" e che, in base al
programma di fabbricazione vigente nel Comune dal 30 ottobre 1972 al
12 maggio 1997, era, per la sua maggiore estensione, destinato ad uso
pubblico per servizi vari, per una parte minore inserito in zona B di
completamento e per una terza parte interessato alla realizzazione di
una strada. Tuttavia, in base alle prescrizioni del programma di
fabbricazione, nella zona B dell’area espropriata era precluso ogni
tipo di edificazione e non era consentita neppure la costruzione in
aderenza con l’edificio, di proprieta’ dell’attrice, con essa
confinante, soggetto,nel piano di recupero del Comune, soltanto ad
interventi di restauro e di risanamento conservativo.
Una volta accertata la non edificabilita’ del suolo, il
consulente aveva applicato i criteri di liquidazione delle indennita’
stabiliti dagli artt. 16 e 20 della legge n. 865 del 1971, cui rinvia
l’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992 e, rilevato che il
Comune di Montoro Superiore ricadeva nella regione agraria n. 8 della
Provincia di Avellino e che, nel 1985, in tale regione il valore
agricolo medio di un terreno seminativo arborato era di lire 1.200 a
mq., aveva determinato l’indennita’ di espropriazione spettante
all’attrice in complessivi euro 588,76 (lire 1.140.000) e quella di
occupazione in complessivi euro 49,06.
Tanto premesso, la Corte rimettente, chiamata a decidere
unicamente della misura delle indennita’ di espropriazione e di
occupazione spettanti all’attrice, dubita della legittimita’
costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, d.l. n. 333 del 1992,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonche’
dell’art. 16, quinto e sesto comma, della legge n. 865 del 1971, come
sostituiti dall’art. 14 legge n. 10 del 1977, «che, secondo il
diritto vivente, sono tuttora in vigore esclusivamente con riguardo
alle aree non aventi destinazione edilizia».
Ad avviso della rimettente tali disposizioni, non suscettibili di
un’interpretazione diversa da quella letterale, stabiliscono un
criterio di determinazione dei suoli agricoli e dei suoli non
edificabili del tutto disancorato dal loro effettivo valore di
mercato.
Invero – la Corte di merito prosegue – «ancorche’ non possa
escludersi che valore di mercato e valore agricolo medio (V.A.M.) di
tali categorie di immobili siano talvolta, in concreto, coincidenti,
non v’e’ dubbio che assai spesso il primo valore risulti (anche
notevolmente) superiore al secondo, in quanto l’appetibilita’ di un
terreno sul mercato non dipende solo dalla sua edificabilita’, ma da
molteplici altri fattori, primi fra tutti la sua posizione e le
concrete possibilita’ di suo sfruttamento per fini diversi dalla
coltivazione».
La questione sarebbe rilevante nel presente giudizio. Infatti,
sarebbe rimasto accertato che il valore di mercato del terreno in
questione era stato calcolato in lire 65.000 al mq., con riferimento
al gennaio 1986 (previa rivalutazione a tale data del valore di lire
55.851 al mq., riferito al dicembre 1982), mentre il valore agricolo
medio della coltura in atto sul suolo era, nel 1985, di appena lire
1.200 al mq. o, al piu’, di lire 6.200 al mq. (volendo ritenere
erronea la determinazione del C.T.U. per non aver considerato che,
trattandosi di terreno compreso in un centro edificato, l’indennita’
si sarebbe dovuta commisurare al valore agricolo medio della coltura
piu’ redditizia tra quelle che, nella regione agraria, coprivano una
superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata nella regione
stessa).
Inoltre, il suolo di proprieta’ della F. era certamente
inedificabile, avuto riguardo alla natura conformativa (e non
espropriativa) dei vincoli su di esso gravanti, all’inesistenza di un
presunto giudicato sull’edificabilita’ di fatto del suolo, alla
costante giurisprudenza della Corte di cassazione, integrante un vero
e proprio diritto vivente, alla stregua della quale il sistema
introdotto dall’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992 si caratterizza
per una rigida dicotomia, con esclusione di un "tertium genus", tra
"aree edificabili" ed "aree agricole" o "non classificabili come
edificabili".
Al criterio dell’edificabilita’ di fatto, dunque, potrebbe farsi
riferimento in via complementare ed integrativa, agli effetti della
determinazione del concreto valore di mercato dell’area espropriata,
soltanto nelle ipotesi (estranee al caso in esame) in cui sussistano
cause idonee a ridurre o escludere le possibilita’ reali di
edificazione o in cui difetti una classificazione del suolo da parte
della pianificazione urbanistica.
Si dovrebbe, percio’, concludere che, trattandosi di giudizio in
corso alla data di entrata in vigore della legge n. 359 del 1992,
l’indennita’ di esproprio andrebbe liquidata alla stregua dei criteri
dettati dalle norme censurate, con la conseguenza che la somma
spettante alla parte privata per tale titolo risulterebbe irrisoria.
In questo quadro, sarebbe ravvisabile, in primo luogo, violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto delle dette norme
con l’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali,
ratificata dalla legge n. 848 del 1955.
Il giudice a quo riassume, al riguardo, i principi affermati da
questa Corte con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, richiama il
dettato della citata norma convenzionale e sottolinea che la Corte
europea dei diritti dell’uomo ha interpretato tale norma in numerose
sentenze, «dando vita ad un orientamento ormai consolidato, formatosi
anche in processi concernenti la disciplina ordinaria dell’indennita’
di espropriazione, secondo il quale una misura che costituisce
un’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni di una persona fisica o
giuridica deve realizzare un "giusto equilibrio" tra le esigenze di
interesse generale della comunita’ ed il principio della salvaguardia
dei diritti e delle liberta’ fondamentali».
La necessita’ di salvaguardare detto equilibrio riguarderebbe,
secondo la Corte europea, tutto il contenuto dell’art. 1 del primo
protocollo.
Al fine di stabilire se le misure adottate da uno Stato,
nell’interesse generale, garantiscano un giusto equilibrio e non
riversino sul proprietario un peso sproporzionato, andrebbero prese
in considerazione le modalita’ d’indennizzo previste dalle leggi
interne. A questo proposito la Corte di Strasburgo avrebbe osservato
che, senza il versamento di una somma ragionevole in rapporto al
valore del bene, la privazione della proprieta’ che si realizza
attraverso l’esproprio costituisce normalmente un’ingerenza eccessiva
in violazione dell’art. 1 del primo protocollo, aggiungendo che, in
caso di espropriazione isolata di un terreno, soltanto un indennizzo
integrale puo’ essere considerato ragionevole, mentre la mancanza di
un tale indennizzo puo’ giustificarsi soltanto in presenza di
obiettivi legittimi di pubblica utilita’, volti a perseguire misure
di riforma economica o di giustizia sociale.
Ad avviso della Corte territoriale la normativa censurata,
prevedendo un criterio di determinazione dell’indennita’ di
esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili,
astratto e predeterminato (qual e’ quello del valore agricolo medio
della coltura in atto o di quella piu’ redditizia nella regione
agraria di appartenenza dell’area da espropriare), quindi del tutto
svincolato dal valore di mercato dei suoli stessi, non sarebbe in
grado di assicurare all’avente diritto un indennizzo integrale o
almeno "ragionevole", cosi’ ponendosi in contrasto con l’art. 1 del
primo protocollo, nell’interpretazione data dalla Corte europea.
Andrebbe escluso, poi, che tale interpretazione si ponga in
conflitto con la tutela di interessi costituzionalmente protetti
contenuta in altri articoli della Costituzione. Infatti, anche l’art.
42, terzo comma, Cost. sarebbe stato interpretato da questa Corte nel
senso che, per quanto il legislatore non sia tenuto ad individuare un
unico criterio di determinazione dell’indennita’, valido in ogni
fattispecie espropriativa o idoneo ad assicurare l’integrale
riparazione della perdita subita dal proprietario espropriato,
l’indennita’ medesima non deve mai essere meramente simbolica o
irrisoria, ma deve rappresentare un serio ristoro (e’ richiamata la
sentenza di questa Corte n. 5 del 1980).
E’ vero che, con sentenza n. 261 del 1997, questa Corte ha
dichiarato non fondata la questione di legittimita’ costituzionale
della normativa censurata, sollevata in riferimento agli artt. 3,
primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost. La questione, pero’, in
quella sede sarebbe stata affrontata in base a rilievi diversi,
sicche’ la Corte si sarebbe limitata ad osservare che la soluzione
adottata dal legislatore per semplificare il calcolo indennitario,
ancorche’ non obbligata, non era irragionevole o arbitraria, in
quanto di per se’ non pregiudicava il serio ed effettivo ristoro del
proprietario espropriato.
In questa sede, invece, verrebbe in evidenza l’interpretazione
data dalla Corte di Strasburgo all’art. 1 del primo protocollo
addizionale, in base alla quale non potrebbe ritenersi ragionevole
qualsiasi criterio di determinazione dell’indennita’ che prescinda
dal dato di partenza, costituito dal valore di mercato del bene
espropriato, «non dovendosi piu’ valutare se la norma interna di per
se’ "non pregiudichi" il serio ed effettivo ristoro della perdita del
bene ma, piuttosto, se essa sia in grado di assicurare tale ristoro
in ogni fattispecie in cui debba trovare applicazione e non solo in
via occasionale, in virtu’ di fattori casuali e contingenti, legati
alla specifica situazione del terreno ablato».
In tale prospettiva – prosegue la Corte territoriale – «e’ la
stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine di semplificare
il calcolo dell’indennizzo – e non gia’ la mancata previsione di una
terza tipologia di aree, intermedia tra quelle agricole e quelle
edificabili – che appare priva di giustificazione».
La considerazione, del resto, sarebbe in linea con quanto
affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del 1980, poi ribadito
nella sentenza n. 348 del 2007, ovvero che, affinche’ possa
realizzarsi un serio ristoro «occorre far riferimento, per la
determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle
sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo legge» e che «il principio
del serio ristoro e’ violato quando per la determinazione non si
considerino le caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti
un diverso criterio che prescinda dal valore di esso».
Tali principi, ancorche’ enunciati da questa Corte solo con
riguardo ai terreni edificabili, dovrebbero ritenersi validi ed
operanti anche in relazione ai terreni agricoli e, a maggior ragione,
a quelli privi di possibilita’ legali ed effettive di edificazione,
ai primi equiparati dalla legge n. 359 del 1992, perche’ nell’attuale
contesto storico ed economico l’interesse del privato all’acquisto di
tali categorie di terreni sarebbe determinato dalle possibilita’ di
sfruttarli per fini diversi da quello di impiantarvi una
coltivazione, sicche’ non sarebbe piu’ predicabile una corrispondenza
tra il loro valore agricolo medio e il loro valore di mercato.
Per le medesime ragioni, la questione di legittimita’
costituzionale delle norme censurate per violazione dell’art. 42,
terzo comma, Cost. non sarebbe manifestamente infondata.
Infine, non sarebbe manifestamente infondata la questione di
legittimita’ costituzionale relativa all’art. 5-bis, comma 4, del
d.l. n. 333 del 1992, e all’art. 16, commi quinto e sesto, della
legge n. 865 del 1971, per violazione dell’art. 3 Cost.
Invero, rileva la rimettente, per effetto della sentenza di
questa Corte n. 348 del 2007, risultano rimosse dall’ordinamento le
disposizioni secondo le quali l’indennita’ di esproprio dei suoli
edificabili andava determinata in misura pari alla media tra il
valore venale e il reddito dominicale rivalutato degli ultimi dieci
anni.
Per le espropriazioni ancora in corso (e per quelle future) e’
intervenuto l’art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato – legge finanziaria 2008), il cui comma 89, lettera a),
ha sostituito l’art. 37, comma 1, decreto del Presidente della
Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilita’. Testo A), e successive modificazioni, statuendo che
l’indennita’ di espropriazione di un’area edificabile e’ determinata
in misura pari al valore venale del bene e che, quando
l’espropriazione e’ finalizzata ad attuare interventi di riforma
economico-sociale, l’indennita’ e’ ridotta del 25 per cento. Per i
giudizi ancora in corso, in cui e’ in contestazione la misura
dell’indennita’ di esproprio, trova applicazione il criterio del
valore venale del bene, previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno
1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilita’ pubblica). In
sostanza, quindi, fatta salva l’ipotesi di espropriazione finalizzata
alla attuazione d’interventi di riforma economico-sociale (per i
quali, comunque, e’ prevista una riduzione dell’indennita’ del solo
25 per cento), l’indennita’ di esproprio per i suoli edificabili e’
oggi corrispondente al valore di mercato del bene.
L’adozione del diverso criterio, astratto e predeterminato,
previsto, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, dalle
norme della cui legittimita’ costituzionale si dubita crea una
ingiustificata disparita’ di trattamento tra i proprietari, non
essendo ravvisabile alcuna plausibile ragione in base alla quale il
diritto a ricevere un indennizzo commisurato al valore di mercato
dell’area espropriata non debba essere riconosciuto anche a coloro
che abbiano un terreno privo di vocazione edilizia.
3. – Nel giudizio di cui alla citata ordinanza n. 351 del 2010 si
e’ costituita, con memoria depositata il 13 dicembre 2010, la signora
W. F., parte privata nel giudizio de quo chiedendo che sia dichiarata
l’illegittimita’ costituzionale della normativa censurata.
Dopo avere premesso che il terreno espropriato costituiva il
retrostante "giardino-orto murato" del fabbricato di famiglia nel
territorio di Montoro Superiore, che tale ente gia’ dal 1997, con il
piano regolatore generale, aveva eliminato i vincoli imposti con il
programma di fabbricazione del 1972, classificando il fondo come
edificabile, e che nel 2008 aveva alienato parte del suolo
espropriato (mq.819), per l’importo di euro 86.256,00, la parte
privata rileva che, con la sentenza n. 348 del 2007, questa Corte ha
affermato il principio secondo cui, al fine di ritenere
costituzionalmente legittima la norma che disciplina l’indennita’ di
espropriazione, e’ necessario che questa costituisca un "serio
ristoro" e che sussista un ragionevole legame tra l’indennizzo e il
valore venale del bene, come prescritto dalla Corte di Strasburgo.
La mancanza del "ragionevole legame" tra l’indennizzo e il valore
di mercato, rileva, ad avviso della deducente, anche con riguardo
alle aree non edificabili, in quanto il valore agricolo medio
risulterebbe di molto inferiore al detto valore di mercato (sono
richiamati i dati emergenti dalle consulenze espletate durante il
lungo iter del processo). Pertanto, la normativa censurata con
l’ordinanza di rimessione contrasterebbe con i parametri
costituzionali evocati in tale provvedimento, anche alla luce dei
principi affermati da questa Corte con la sentenza n. 5 del 1980.
4. – La Corte di appello di Napoli, con ordinanza depositata il 7
aprile 2010 (r. o. n. 305 del 2010), dubita della legittimita’
costituzionale delle norme gia’ censurate con l’ordinanza di cui si
e’ trattato in precedenza, in riferimento ai medesimi parametri da
questa evocati.
La Corte territoriale premette di essere chiamata a pronunciarsi
in un giudizio vertente tra F. L. e il Comune di Salerno, avente ad
oggetto la domanda di pagamento delle indennita’ di espropriazione e
di occupazione temporanea, relative ad alcuni terreni di proprieta’
dell’attrice, espropriati dal Comune (con decreti del 10 febbraio
1998 e del 22 giugno 1999) per la realizzazione del parco del
Mercatello.
Dopo avere esposto il complesso iter processuale della vicenda,
la rimettente rileva che, con sentenza non definitiva, emessa in sede
di rinvio dalla Corte di cassazione, il Collegio ha accertato: a) che
il suolo era incluso dall’originario piano regolatore generale del
Comune di Salerno, approvato con decreto del Presidente della giunta
regionale in data 4 febbraio 1965, in zona intensiva C tipologia 9 a
formazione lineare e semiaperta; e che una successiva variante,
adottata con delibera della stessa amministrazione n. 71 del 18
dicembre 1989, definitivamente approvata dal Presidente della giunta
regionale della Campania con decreto n. 7265 del 13 luglio 1994,
aveva individuato una zona B (Pastena) omogenea gia’ satura in cui
l’aveva inclusa, con destinazione a standard urbanistici consistenti
in spazi pubblici o riservati ad attivita’ collettive, al verde
pubblico, a parcheggi, a servizi pubblici, o attrezzature pubbliche
d’interesse generico; b) che, sulla base dei criteri enunciati dalla
Corte di cassazione, e cioe’ sulla base dell’esame dei requisiti
oggettivi, di natura e struttura, che presentavano i vincoli
contenuti nella variante, doveva ritenersi sussistente il carattere
conformativo di essa (che consentiva di tenerne conto ai fini
indennitari); c) che la natura inedificabile del suolo emergeva con
chiarezza proprio dal disposto dell’art. 7, ultimo comma, della
variante, secondo cui «Tutte le aree attualmente libere ricadenti
nelle zone omogenee B, anche se comprese nei piani di recupero, a
servizio o pertinenze (cortili, giardini e comunque spazi liberi a
qualsiasi uso destinati) di fabbricati o gruppi di fabbricati, sono
assolutamente inedificabili anche in sede di recupero,
ristrutturazione o ricostruzione di manufatti esistenti».
Cio’ posto, la Corte napoletana osserva che, per la
determinazione delle indennita’ di espropriazione e di occupazione
temporanea, dovrebbe applicarsi il criterio del valore agricolo
medio, ai sensi dell’art. 16 legge n. 865 del 1971 (art. 5-bis, comma
4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 359 del 1992, che richiama appunto, per le aree agricole, le
norme di cui al titolo II della legge n. 865 del 1971). Essa, pero’,
dubita della legittimita’ costituzionale del citato art. 5-bis, comma
4 (applicabile ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore
della legge che lo ha introdotto), nonche’ della legittimita’
costituzionale dell’art. 16, commi quinto e sesto, della legge n. 865
del 1971, come sostituiti dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, in
quanto tali norme contemplano un criterio di determinazione delle
indennita’ per i suoli agricoli e per quelli non edificabili del
tutto disancorato dal loro effettivo valore di mercato.
La rimettente segnala che la questione e’ rilevante in quel
giudizio. Infatti essa, con sentenza non definitiva, ha accertato la
natura non edificabile del suolo e il valore agricolo medio per le
colture prevalenti (agrumeto e frutteto), riportate nei dati
catastali. In particolare, espone che il detto valore, all’epoca dei
decreti di esproprio (anni 1998 e 1999), era per il frutteto di lire
8.670 a mq. e, per l’agrumeto, di lire 13.770 a mq. per il 1998,
ridotte poi a lire 12.000 a mq. nel 1999, a fronte di un valore di
mercato (emergente dagli atti di comparazione acquisiti dal
consulente di ufficio) pari a lire 59.524 per il 1996 (desunto da un
atto notarile di compravendita) ed a lire 188.580 per il 1997
(desunto da un atto notarile di chiusura espropriativa).
A sostegno della non manifesta infondatezza, poi, svolge
argomentazioni analoghe a quelle addotte nell’ordinanza depositata il
19 marzo 2010.
5. – Nel giudizio di legittimita’ costituzionale, con atto
depositato il 4 novembre 2010, e’ intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
manifestamente infondata.
L’interveniente ripercorre l’iter normativo e giurisprudenziale,
riguardante l’indennita’ di espropriazione, prendendo le mosse
dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865. Richiama alcune leggi
speciali, pone l’accento sulla legge n. 865 del 1971, come modificata
dalla legge n. 10 del 1977, e rileva che con tale disciplina
l’indennita’ fu commisurata al valore agricolo, ovvero allo stato dei
luoghi relativo alle colture effettivamente praticate. Questa
impostazione, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, fu determinata
dal passaggio da un sistema di pianificazione edilizia di tipo
autorizzatorio ad un sistema concessorio, in forza del quale lo jus
aedificandi non fu piu’ considerato una facolta’ compresa nel diritto
di proprieta’ del suolo ma una situazione giuridica attribuita a
seguito di concessione. Tale normativa, pero’, non supero’ il vaglio
di legittimita’ costituzionale (e’ richiamata la sentenza n. 5 del
1980), poiche’ questa Corte affermo’ che «l’indennizzo espropriativo
deve costituire un "serio ristoro", e pertanto deve essere riferito
al valore del bene ricavabile dalle sue caratteristiche essenziali e
dalla sua potenziale utilizzazione economica».
Dopo una normativa transitoria, ritenuta a sua volta
costituzionalmente non legittima (sentenza n. 223 del 1983), il
legislatore intervenne di nuovo con l’art. 5-bis del d.l. n. 333 del
1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
prevedendo due differenti criteri, il primo per i suoli edificabili
(commi 1 e 2), il secondo per le aree agricole o, comunque, non
edificabili (comma 4). Questi criteri, ritenuti costituzionalmente
legittimi (e’ richiamata la sentenza n. 283 del 1993), furono in
sostanza riprodotti dagli artt. 37 e 40, commi 1 e 2, d.P.R. n. 327
del 2001, recante il T.U. delle espropriazioni per pubblica utilita’.
Sul tema, pero’, intervenne la Corte europea dei diritti
dell’uomo che, con decisione del 29 marzo 2006 (in causa Scordino
contro Italia), defini’ non ragionevole e iniqua l’indennita’
contemplata in applicazione del criterio di cui all’art. 5-bis,
stabilendo, tra l’altro, che, pur sussistendo al riguardo un ampio
potere discrezionale dello Stato, senza una somma ragionevolmente
proporzionale al valore venale del bene, una privazione di proprieta’
costituisce generalmente un pregiudizio eccessivo, nonche’ chiarendo
che un’assenza totale di indennizzo puo’ giustificarsi, sotto il
profilo dell’art. 1 (del protocollo addizionale), solo in circostanze
eccezionali, ancorche’ detta norma non garantisca sempre il diritto
ad una riparazione integrale.
L’indirizzo espresso dalla Corte europea – prosegue la difesa
dello Stato – fu poi condiviso da questa Corte che, con sentenza n.
348 del 2007, dichiaro’ fondata la questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, sollevata in
relazione ai commi 1 e 2 di detta norma, estendendo la declaratoria
all’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001.
La Corte, infatti, «ha ritenuto che i criteri per la
determinazione dell’indennita’ di espropriazione debbano aver
riguardo della base di calcolo rappresentata dal valore del bene,
quale emerge dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma
secondo le norme e i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei
diversi territori», pur non essendo necessario un ristoro integrale.
Quanto fin qui riportato, ad avviso dell’Avvocatura erariale,
farebbe interamente riferimento alle aree edificabili. In ordine
all’indennita’ espropriativa concernente le aree non edificabili
(art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, ora sostituito
dall’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001), oggetto del
presente giudizio, il giudice a quo si sarebbe limitato ad effettuare
un parallelismo con la diversa vicenda relativa ai terreni non
edificabili, senza alcuna motivazione sul punto. Infatti, non avrebbe
spiegato per quali ragioni, nel caso di specie, non vi sarebbe una
determinazione dell’indennita’ commisurata all’effettivo valore del
bene.
Invece, andrebbe posto in evidenza che, con riguardo alla
disciplina previgente, questa Corte gia’ avrebbe rilevato che le
norme concernenti la determinazione dell’indennita’ «sono, pertanto,
tuttora applicabili all’espropriazione di aree con destinazione
agricola,in relazione alle quali non e’ stato riconosciuto
sussistente alcun profilo di incostituzionalita’, stante il
collegamento della liquidazione dell’indennita’ con le effettive
caratteristiche e la destinazione economica del bene» (sentenza n.
1022 del 1988).
La difesa dello Stato richiama l’art. 16 della legge n. 865 del
1971, cui l’art. 5-bis, comma 4 cit., rinvia, nonche’ l’art. 40 del
d.P.R. n. 327 del 2001, rilevando che da entrambe le norme si
potrebbe evincere come il valore dell’indennita’ sia legato al
concreto valore del fondo, determinato dal valore agricolo e dai
manufatti legittimamente realizzati, ed afferma che le vicende
relative ai terreni agricoli mai avrebbero evidenziato problematiche
particolari in ordine all’effettivo ristoro determinato
dall’indennita’ espropriativa. Per le aree edificabili, invece, i
problemi maggiori sarebbero stati collegati al passaggio «da un
sistema di licenza edilizia a un sistema concessorio», diretto in
sostanza ad equiparare, ai fini della quantificazione
dell’indennizzo, aree edificabili ad aree non edificabili, sul
presupposto che la possibilita’ di costruire su un terreno non
sarebbe una facolta’ insita nel diritto di proprieta’ sullo stesso,
ma dovesse costituire oggetto di una specifica concessione da parte
dell’Amministrazione.
Cio’ non sarebbe avvenuto con riguardo all’indennita’ per
l’espropriazione delle aree non edificabili, della cui legittimita’
la giurisprudenza mai avrebbe dubitato. Infatti, basare l’indennizzo
sulla coltura praticata sul terreno, o, in mancanza, sul tipo di
coltura praticata nella zona, tenuto conto del valore dei manufatti
legittimamente realizzati, costituirebbe un criterio adeguato per la
determinazione del "serio ristoro".
Inoltre, andrebbe considerata la possibilita’ del sindacato
giurisdizionale sulle tabelle formate dalle commissioni
amministrative per il calcolo dell’indennizzo, giungendo fino alla
relativa disapplicazione. Ancora, andrebbe ricordato che sia la
decisione della Corte europea nella causa Scordino contro lo Stato
italiano, sia la sentenza di questa Corte n. 348 del 2007, avrebbero
ritenuto non idonea l’indennita’ a causa della decurtazione del 40
per cento del valore, qualora non si fosse pervenuti alla cessione
volontaria. Mai si sarebbe postulata una determinazione precisa e
puntuale del valore del bene – quasi che l’indennizzo fosse un
risarcimento dei danni – ma anzi si sarebbe sottolineato come «il
ristoro possa non essere integrale purche’ faccia riferimento al
valore del bene determinato in ragione del suo effettivo e potenziale
utilizzo», proprio come stabilito dall’art. 16 legge n. 865 del 1971
e dall’art. 40 d.P.R. n. 327 del 2001.
Nessuna decurtazione sarebbe stata prevista per le aree non
edificabili, sicche’ il giudice a quo si sarebbe limitato a tracciare
un astratto parallelismo con la disciplina dettata per l’indennita’
espropriativa dei suoli edificabili, senza tener conto delle concrete
differenze tra le due fattispecie.
6. – Nel giudizio di legittimita’ costituzionale, con memoria
depositata il 5 novembre 2010, si e’ costituita la parte privata L.
F., aderendo alle argomentazioni esposte nell’ordinanza di rimessione
e concludendo per la declaratoria di fondatezza della questione.
7. – Con memoria depositata l’8 novembre 2010 si e’ costituito
anche il Comune di Salerno, in persona del Sindaco legale
rappresentante pro tempore (previa delibera della Giunta municipale
n. 1130 del 15 ottobre 2010).
L’ente territoriale, dopo aver richiamato le vicende che hanno
scandito la controversia in corso tra le parti, ricorda che la tesi
sostenuta nell’ordinanza di rimessione ha gia’ formato oggetto di
esame da parte di questa Corte con sentenza n. 261 del 1997, che
dichiaro’ non fondata la questione di legittimita’ costituzionale
della normativa in questa sede censurata, sollevata in riferimento
agli artt. 3, primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost.
Il Comune richiama i principi affermati dalla menzionata
sentenza, rimarcando che essa, nell’escludere la possibilita’ di
introdurre nell’ordinamento un "tertium genus" tra aree edificabili e
quelle non edificabili, ha ritenuto la detta disciplina non
irragionevole e non arbitraria, e comunque non idonea a pregiudicare
il serio ristoro del proprietario espropriato; ed afferma che «il
Collegio distrettuale, mentre non ha potuto sostenere che, in ogni
caso, il valore di mercato e il V. A. M. sono sempre notevolmente
differenziati, attraverso i riferimenti alle ipotesi elencate a
titolo di esempio si e’ collocato pur sempre nell’ottica di un
utilizzo del suolo agricolo privo di attitudine edificatoria quale
complemento di insediamenti edilizi e, quindi, mirando alla
valorizzazione, ai fini della determinazione dell’indennita’ di
espropriazione, di quel tertium genus dei beni ablati», per l’appunto
escluso dalla sentenza n. 261 del 2007.
La Corte rimettente avrebbe ritenuto di poter superare la
preclusione derivante da tale sentenza, evocando come parametro
costituzionale violato l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto
con le norme internazionali convenzionali e, in particolare, col
primo protocollo addizionale della CEDU.
Ad avviso dell’ente, le argomentazioni al riguardo svolte
nell’ordinanza non sarebbero rilevanti ai fini del tema in questione,
perche’ non vi sarebbe alcuna norma o direttiva comunitaria (cui
peraltro la materia espropriativa e’ estranea) in contrasto con il
criterio di calcolo dell’indennita’ di espropriazione delle aree non
edificabili, come disciplinato dalle disposizioni oggi in esame,
mentre tutte le decisioni della Corte di Strasburgo avrebbero avuto
riguardo a suoli con destinazione edificatoria, per i quali il
meccanismo fissato dalla normativa, poi dichiarata illegittima,
avrebbe comportato una sensibilissima decurtazione del valore di
mercato.
In particolare, le decisioni del giudice di Strasburgo,
pronunziate contro lo Stato italiano, avrebbero ritenuto
incompatibile con il dettato dell’art. 1 dell’allegato 1 alla
Convenzione la privazione di un terreno in forza della cosiddetta
"occupazione acquisitiva"(sono richiamate varie decisioni della Corte
europea), ed avrebbe chiarito che «benche’ lo Stato contraente goda
di un margine di discrezionalita’ nel determinare l’indennizzo in
dipendenza di un’espropriazione legittima, l’art. 5 bis legge
n.359/1992, parametrando l’indennita’ di espropriazione ad un valore
largamente inferiore a quello di mercato del bene espropriato, senza
prendere in considerazione la tipologia dell’esproprio, determina una
rottura del "giusto equilibrio" tra le esigenze dell’interesse
generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali
dell’individuo, violando l’art. 1 del Protocollo n. 1 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, alla stregua
della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo e’ consentita
una quantificazione dell’indennizzo inferiore al valore commerciale
nei soli casi di espropriazione correlata a riforme economiche,
sociali o politiche o in presenza di particolari circostanze di
pubblica utilita’» (e’ richiamata la sentenza della Corte europea in
causa Scordino contro Italia).
L’ente territoriale rileva che tale indirizzo e’ stato confermato
da questa Corte con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.
Osserva, poi, che non sarebbe determinante, ai fini del giudizio
di legittimita’ costituzionale in esame, la comparazione operata
dalla rimettente tra il valore agricolo medio per le colture
prevalenti (agrumeto o frutteto), riportate nei dati catastali, e il
valore di mercato del suolo come emergente dagli atti acquisiti dal
consulente di ufficio. Infatti, andrebbe rilevato che il procedimento
di formazione delle tabelle del valore agricolo medio, disciplinato
dall’art. 16 legge n. 865 del 1971, sarebbe realizzato da esperti
particolarmente qualificati, sicche’ non sarebbe possibile contestare
in linea di principio la congruenza e la correttezza delle stime
eseguite atte ad individuare i dati per i calcoli necessari.
In particolare, la cadenza annua fissata per la compilazione
delle tabelle comporterebbe un aggiornamento periodico delle stime e,
quindi, garantirebbe l’aderenza di queste ai dati reali, a differenza
della normativa dettata per le aree edificabili. Ed andrebbe,
altresi’, sottolineato, come chiarito di recente anche dalla Corte di
cassazione, che l’indennita’ di espropriazione per i terreni agricoli
«deve essere determinata secondo i criteri di cui alla L. n. 865 del
1971, artt. 15 e 16, richiamata dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis,
comma 4, ovvero commisurata al valore agricolo medio, secondo i tipi
di coltura effettivamente in atto, contemplati dalle tabelle redatte
dalle competenti commissioni, disapplicabili dal giudice per vizi di
legittimita’, e non sostituendo ad esse, per ragioni di opportunita’,
le proprie autonome valutazioni» (e’ richiamata la sentenza della
Corte di cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 22753 del 2009).
Inoltre, a prescindere dal rilievo che manca qualsiasi prova
circa la natura dei suoli individuati nell’ordinanza di rimessione
quali parametri di riferimento, sarebbe erronea la presunzione della
Corte di merito, secondo cui si potrebbe valutare la legittimita’
costituzionale della normativa in esame con riguardo ad un singolo
caso.
Ad avviso del Comune, la questione di legittimita’ costituzionale
della normativa censurata andrebbe dichiarata inammissibile, perche’
esporrebbe argomenti gia’ respinti da questa Corte, e comunque
infondata, anche in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.,
perche’ formulata sull’indimostrato presupposto che la determinazione
dell’indennita’ secondo i criteri tabellari conduca in ogni caso alla
liquidazione di un indennizzo in misura irrisoria o, comunque, molto
inferiore al valore di mercato del bene.
Non vi sarebbe dubbio, invece, che un esproprio compiuto per
realizzare una variante generale al piano regolatore di una citta’,
al fine di garantire il rispetto degli standard urbanistici
prescritti dal legislatore nazionale, e che ha comportato una nuova
zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sia
sicuramente finalizzata ad una profonda modifica urbanistica "di
pubblica utilita’", per la quale «e’ consentita una quantificazione
dell’indennizzo inferiore al valore commerciale».
La tesi esposta nell’ordinanza di rimessione sarebbe basata sul
dato apodittico che il valore agricolo medio, maggiorato attraverso i
correttivi dettati dal legislatore, determini un’indennita’ meramente
simbolica o arbitraria.
Il Comune, poi, contesta i rilievi mossi dalla Corte territoriale
alla sentenza di questa Corte n. 261 del 1997, richiamando il
principio affermato da detta sentenza, secondo cui «la scelta
legislativa non presenta caratteri di irragionevolezza o di
arbitrarieta’ tali da far riscontrare un vizio sotto i profili
denunciati, ne’ comunque pregiudica di per se’ il serio ed effettivo
ristoro del proprietario espropriato». Pertanto, sarebbe privo di
pregio l’assunto che «e’ la stessa dicotomia immaginata dal
legislatore al fine di semplificare il calcolo dell’indennizzo – e
non gia’ la mancata previsione di una terza tipologia di aree,
intermedia tra quelle agricole e quelle edificabili – che appare
priva di giustificazione».
Infatti, come gia’ sottolineato, il criterio di calcolo
dell’indennita’ di espropriazione per i suoli agricoli o non aventi
attitudini edificatorie contemplerebbe una serie di parametri
correttivi in aumento, proprio allo scopo di giungere ad una
individuazione del valore del bene espropriato prossimo a quello di
mercato.
In questo quadro andrebbe dichiarata la manifesta
inammissibilita’ o la manifesta infondatezza, e in subordine
l’inammissibilita’ o l’infondatezza, delle questioni sollevate.
8. – La Corte di appello di Lecce, con ordinanza depositata l’8
ottobre 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost.,
questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 5-bis, commi 3 e
4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dal d.l.
n. 333 del 1992, e dell’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del
2001.
La Corte distrettuale premette di dover pronunciare nella
controversia promossa da M. G. P. e M. A. (quali eredi di I. M. C.)
nei confronti del Comune di Francavilla Fontana, concernente (tra
l’altro) la determinazione dell’indennita’ di espropriazione relativa
ad un suolo, gia’ oggetto di cessione volontaria con acconto e
riserva di conguaglio e qualificato non edificatorio dalla medesima
Corte di appello con sentenza non definitiva n. 611 del 2010,
pronunciata a seguito di rinvio disposto dalla Corte di cassazione.
La rimettente ricorda che l’indennita’ di espropriazione per i
suoli agricoli e, come nella specie, per quelli gravati da vincolo di
inedificabilita’ va determinata, ai sensi della normativa vigente
all’epoca della cessione, sulla base del «valore agricolo medio del
terreno, a prescindere dalla sua destinazione economica, quale si
determina in base alla media dei valori, nell’anno solare precedente
il provvedimento ablativo, dei terreni ubicati nell’ambito della
medesima regione agraria, nei quali siano praticate le medesime
colture in opera nel fondo espropriato». Cio’ per consolidata
giurisprudenza della Corte di cassazione, in applicazione degli artt.
15 e 16 legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni, che
devolvono alla commissione provinciale l’individuazione del valore
agricolo medio.
La giurisprudenza avrebbe altresi’ puntualizzato, sempre con
orientamento univoco, «che il parametro di riferimento non coincide
con il prezzo di mercato del fondo e con il suo valore venale».
Ad avviso della rimettente, l’ordinamento si starebbe «evolvendo
in senso divergente». In particolare, per le aree edificabili, a
seguito della declaratoria di illegittimita’ costituzionale, adottata
da questa Corte con la sentenza n. 348 del 2007 e relativa all’art.
5-bis, commi 1 e 2, d.l. n. 333 del 1992, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonche’ all’art. 37,
commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001, si applicherebbe il criterio del
valore di mercato del bene: ai sensi dell’art. 39 legge n. 2359 del
1865 «nei giudizi di espropriazione in corso soggetti al regime
pregresso»; ai sensi dell’art. 2, comma 89, lettera a), legge n. 244
del 2007, «nei procedimenti espropriativi in corso».
Pertanto, prima il giudice delle leggi, poi il legislatore e la
giurisprudenza formatasi a seguito dei relativi interventi, avrebbero
preso come "punto di arrivo" – quanto alle aree edificabili – il
valore di mercato del bene; e cio’ starebbe a significare che oggi,
per i giudizi in corso, sempre in relazione alle aree predette, il
"serio ristoro", richiamato in numerose sentenze di questa Corte,
sarebbe fatto coincidere con il prezzo di mercato.
Gia’ sotto questo profilo, la diversa disciplina di cui alla
normativa censurata, disancorata dal prezzo di mercato o valore
venale, applicabile ai suoli agricoli e a quelli (come nella specie)
raggiunti da vincoli di inedificabilita’, apparirebbe irragionevole
e, quindi, di dubbia costituzionalita’, ai sensi dell’art. 3 Cost.
Il valore agrario, previsto di fatto in via automatica, potrebbe
non rivelarsi un "serio ristoro" e, plausibilmente, non si
rivelerebbe tale nella presente vicenda, avuto riguardo alla qualita’
e alla localizzazione del suolo (alla periferia del paese).
Sotto altro aspetto, la questione di legittimita’ costituzionale
della normativa censurata si porrebbe con riguardo all’art. 117,
primo comma, Cost., costituente il parametro in base al quale questa
Corte pronuncio’ la declaratoria di illegittimita’ costituzionale di
cui alla sentenza n. 348 del 2007.
La rimettente, poi, richiama la giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo e il dettato dell’art. 1 del primo
protocollo addizionale alla Convenzione europea, rimarcando che
l’osservanza degli obblighi internazionali che ne discendono
esigerebbe piena riparazione del pregiudizio derivante
dall’esproprio, anche nel caso di suoli agricoli o equiparati,
mediante la commisurazione dell’indennita’ al loro valore di mercato.
9. – Nel giudizio di legittimita’ costituzionale e’ intervenuto,
con atto depositato il 19 gennaio 2011, il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente
infondata, sulla base di considerazioni analoghe a quelle esposte con
l’atto d’intervento depositato nel giudizio r. o. n. 305 del 2010
(punto 5, che precede).
10. – Nei giudizi contrassegnati con i n. r. o. 305 e del 2010.,
in prossimita’ dell’udienza di discussione, il Comune di Salerno e la
parte privata (quest’ultima, pero’, fuori termine) hanno depositato
memorie illustrative.

Considerato in diritto

1. – La Corte di appello di Napoli (sezione prima civile, in
diversa composizione), con le due ordinanze indicate in epigrafe, ha
sollevato – in riferimento agli articoli 3, 42, terzo comma, e 117,
primo comma, della Costituzione – questioni di legittimita’
costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, decreto-legge 11 luglio
1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992,
n. 359, nonche’ dell’art. 16, commi quarto e quinto (recte: commi
quinto e sesto), legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e
coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla
espropriazione per pubblica utilita’; modifiche e integrazioni alle
leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre
1964, n.847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari
nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata),
come sostituiti dall’art. 14 legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per
la edificabilita’ dei suoli).
A sua volta la Corte di appello di Lecce, con l’ordinanza del
pari indicata in epigrafe, ha sollevato questione di legittimita’
costituzionale del citato art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n. 333
del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
nonche’ dell’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327
(Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilita’ – Testo A), in
riferimento agli artt. 3 e 117 Cost.
Ad avviso delle rimettenti, la normativa censurata, prevedendo un
criterio di determinazione dell’indennita’ di esproprio, per i suoli
agricoli e per quelli non edificabili, astratto e predeterminato
(qual e’ quello del valore agricolo medio della coltura in atto o di
quella piu’ redditizia nella regione agraria di appartenenza
dell’area da espropriare), del tutto svincolato dalla considerazione
dell’effettivo valore di mercato dei suoli medesimi e tale da non
assicurare all’avente diritto il versamento di un indennizzo
integrale o, quanto meno, "ragionevole", si porrebbe in contrasto con
l’art. 1, primo protocollo, allegato alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali
(CEDU), cui e’ stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848
(Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, firmata a Roma il 4
novembre 1950, e Protocollo addizionale alla Convenzione stessa,
firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nella interpretazione datane
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, cosi’ violando l’art. 117,
primo comma, Cost., rispetto al quale la disposizione convenzionale
opererebbe come norma interposta.
Inoltre, sarebbe violato l’art. 42, terzo comma, Cost., in
quanto, benche’ il legislatore non sia tenuto ad individuare un unico
criterio di determinazione dell’indennita’ di esproprio, valido in
ogni fattispecie espropriativa, o ad assicurare l’integrale
riparazione della perdita subita dal proprietario, l’indennita’ non
puo’ mai essere simbolica o irrisoria, ma deve rappresentare un
"serio ristoro". Per realizzare tale risultato si dovrebbe fare
riferimento «al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche
essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di
esso», secondo il principio affermato da questa Corte con la sentenza
n. 5 del 1980 e ribadito con la sentenza n. 348 del 2007, in
relazione ai terreni edificabili, ma applicabile, ad avviso delle
rimettenti, anche con riguardo ai terreni agricoli e a quelli non
edificabili.
Infine, sarebbe configurabile anche violazione dell’art. 3 Cost.,
perche’ il criterio dettato per i suoli agricoli e per quelli non
edificabili creerebbe una ingiustificata disparita’ di trattamento
tra i proprietari di questi ultimi e i proprietari di suoli
edificabili, per i quali l’indennizzo va commisurato al valore di
mercato (o venale) dell’area oggetto dell’ablazione.
2. – I tre giudizi di legittimita’ costituzionale, per
l’identita’ dell’oggetto e dei parametri evocati, vanno riuniti e
decisi con la medesima sentenza.
3. – L’ordinanza della Corte di appello di Lecce censura (tra
l’altro) l’art. 5-bis, comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.
Detta norma dispone che «Per la valutazione della edificabilita’
delle aree, si devono considerare le possibilita’ legali ed effettive
di edificazione esistenti al momento dell’apposizione del vincolo
preordinato all’esproprio».
Come il dettato normativo rivela, si tratta di disposizione
diretta ad individuare i criteri per la valutazione di edificabilita’
delle aree. Nel caso di specie, e’ pacifico, ed emerge dall’ordinanza
di rimessione, che il suolo de quo, oggetto di cessione volontaria
con acconto e riserva di conguaglio, e’ stato dichiarato non
edificatorio dalla Corte di appello di Lecce con sentenza non
definitiva n. 611 del 2010. Pertanto la Corte rimettente non deve
fare applicazione della norma suddetta, in ordine alla quale, del
resto, non si rinviene nell’ordinanza una specifica motivazione
diretta a spiegare le ragioni della sua evocazione.
Ne deriva che la questione, sollevata con riferimento al citato
art. 5-bis, comma 3, deve essere dichiarata inammissibile per difetto
di rilevanza.
4. – Ai fini dell’identificazione del thema decidendum, con
riguardo alle norme censurate e ai parametri invocati, si deve
osservare che le due ordinanze della Corte di appello di Napoli, nei
rispettivi dispositivi, censurano (tra l’altro) l’art. 16, commi
quarto e quinto, della legge n. 865 del 1971, come sostituiti
dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977. Peraltro, come emerge in
modo chiaro dalle motivazioni delle ordinanze, le disposizioni
impugnate sono quelle dettate dall’art. 16, commi quinto e sesto, il
cui tenore e’ anche trascritto nelle ordinanze medesime, sicche’
nessun dubbio puo’ nutrirsi circa l’oggetto delle questioni, in forza
del noto criterio secondo cui il dispositivo va interpretato in
riferimento alla motivazione (sentenza n. 236 del 2009).
A sua volta, l’ordinanza della Corte di appello di Lecce nel
dispositivo solleva la questione di legittimita’ costituzionale con
riferimento al citato art. 5-bis, comma 4, e all’art. 40, commi 1 e
2, del d.P.R. n. 327 del 2001, senza menzionare la legge n. 865 del
1971, al cui titolo II il medesimo art. 5-bis rinvia. Nella
motivazione, pero’, sono richiamati gli artt. 15 e 16 della legge n.
865 del 1971 e successive modificazioni, «che devolvono alla
Commissione provinciale l’individuazione del valore agricolo medio»,
mentre le argomentazioni svolte rendono palese che oggetto delle
censure e’, per l’appunto, il criterio del valore agricolo medio, o
"valore agrario", «previsto di fatto in via automatica e, come tale,
non influenzabile da quello venale». Anche in tal caso, dunque, in
base allo stesso principio dianzi indicato, l’oggetto della questione
e’ agevolmente identificabile.
5. – Le ordinanze di rimessione (a parte l’accenno contenuto in
quella della Corte di appello di Lecce) non coinvolgono nello
scrutinio di legittimita’ costituzionale l’art. 15 legge n. 865 del
1971, nel testo sostituito dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977,
concernente la determinazione dell’indennita’ di espropriazione non
accettata nel termine di cui all’art. 12, primo comma, della medesima
legge n. 865 del 1971. Ai sensi di tale disposizione, su richiesta
del presidente della giunta regionale, la commissione competente per
territorio di cui al successivo art. 16 determina l’indennita’, sulla
base del valore agricolo con riferimento alle colture effettivamente
praticate sul fondo espropriato, anche in relazione all’esercizio
dell’azienda agricola. Il dettato letterale della norma, dunque, non
richiama il valore agricolo medio. Tuttavia la giurisprudenza della
Corte di cassazione, con indirizzo ormai configurabile come diritto
vivente, ha ripetutamente affermato che gli artt. 15 e 16 della legge
n. 865 del 1971 (nel testo sostituito dall’art. 14 della legge n. 10
del 1977) vanno letti in collegamento l’uno con l’altro, sicche’ il
valore agricolo menzionato nell’art. 15, primo comma, secondo
periodo, e’ per l’appunto il valore agricolo medio contemplato dal
combinato disposto delle due norme (ex multis: Cass., sentenza n.
17679 del 2010; Cass., Sezioni Unite Civili, sent. n. 22753 del 2009;
Cass., sent. n. 17394 del 2009; Cass., sent. n. 8243 del 2006).
Del resto, anche le ordinanze di rimessione trattano
unitariamente i suoli agricoli e quelli non edificabili, sicche’ lo
scrutinio di legittimita’ costituzionale deve essere esteso anche al
citato art. 15, primo comma, secondo periodo, unico essendo per i
detti suoli il criterio di determinazione dell’indennita’ di
espropriazione.
6. – Nel merito, le questioni sono fondate.
6.1. – In premessa, si deve ricordare che, ai sensi dell’art. 57
del d.P.R. n. 327 del 2001 «Le disposizioni del presente testo unico
non si applicano ai progetti per i quali, alla data di entrata in
vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di
pubblica utilita’, indifferibilita’ ed urgenza. In tal caso
continuano ad applicarsi tutte le normative vigenti a tale data»
(fissata al 30 giugno 2003: art. 59 del citato d.P.R.). Nelle
controversie a quibus, come si evince dalle date dei decreti di
esproprio e (quanto all’ordinanza della Corte di appello di Lecce)
dalla data di stipula dell’atto di cessione volontaria con riserva di
conguaglio, le suddette dichiarazioni erano intervenute in epoca
molto risalente, sicche’ trova applicazione la normativa censurata,
non gia’ l’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, evocato
dalla Corte di appello di Lecce, norma della quale detta Corte non
deve fare applicazione.
6.2. – La normativa censurata e’ dettata dall’art. 5-bis, comma
4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 359 del 1992 che, per la determinazione dell’indennita’ di
espropriazione relativa alle aree agricole ed a quelle non
suscettibili di classificazione edificatoria, rinvia alle norme di
cui al titolo secondo della legge n. 865 del 1971, successive
modificazioni e integrazioni. In particolare, il rinvio e’ all’art.
16, commi quinto e sesto, di detta legge, come sostituiti dall’art.
14 della legge n. 10 del 1977.
La norma, per la parte oggetto di censura, stabilisce che
l’indennita’ di espropriazione, per le aree esterne ai centri
edificati di cui all’art. 18, e’ commisurata al valore agricolo medio
annualmente calcolato da apposite commissioni provinciali, valore
corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da espropriare
(comma quinto); ed aggiunge che, nelle aree comprese nei centri
edificati, l’indennita’ e’ commisurata al valore agricolo medio della
coltura piu’ redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui
ricade l’area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5
per cento di quella coltivata della regione agraria stessa (comma
sesto).
Tale disciplina, ad avviso delle rimettenti, si porrebbe in
contrasto con l’art. 1 del primo protocollo addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
liberta’ fondamentali (d’ora in avanti, CEDU), nell’interpretazione
datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e quindi violerebbe
l’art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto dalla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della
parte seconda della Costituzione).
6.3. – In via preliminare, si deve ricordare che questa Corte,
con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra il
citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU, come
interpretate dalla Corte europea. I principi metodologici illustrati
nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati.
Alla luce di essi, si deve, dunque, verificare: a) se vi sia
contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa,
tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate
dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici
dell’indicato parametro costituzionale; b) se le norme della CEDU,
invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme
interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte,
siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza
n. 348 del 2007 citate).
Orbene, la Corte europea, con decisione della Grande Camera in
data 29 marzo 2006, ha preso le mosse dal dettato dell’art. 1 del
protocollo n. 1, secondo cui: «Ogni persona fisica o giuridica ha
diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno puo’ essere privato della
sua proprieta’ se non per causa di utilita’ pubblica e nelle
condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto
internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al
diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute
necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme
all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o
di altri contributi oppure di ammende»
Ha poi stabilito (tra gli altri) i seguenti principi: a) le tre
norme di cui si compone l’art. 1 del protocollo n. 1 sono tra loro
collegate, sicche’ la seconda e la terza, relative a particolari casi
di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni, devono essere
interpretate alla luce del principio contenuto nella prima norma
(punto 75); b) l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve
contemperare un "giusto equilibrio" tra le esigenze dell’interesse
generale della comunita’ e il requisito della salvaguardia dei
diritti fondamentali dell’individuo (punto 93); c) nello stabilire se
sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo Stato gode
di un ampio margine di discrezionalita’, sia nello scegliere i mezzi
di attuazione sia nell’accertare se le conseguenze derivanti
dall’attuazione siano giustificate, nell’interesse generale, per il
conseguimento delle finalita’ della legge che sta alla base
dell’espropriazione (punto 94); d) la Corte, comunque, non puo’
rinunciare al suo potere di riesame e deve determinare se sia stato
mantenuto il necessario equilibrio in modo conforme al diritto dei
ricorrenti al rispetto dei loro beni (punto 94); e) come la Corte ha
gia’ dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma
in ragionevole rapporto con il loro valore, di norma costituisce
un’ingerenza sproporzionata e la totale mancanza d’indennizzo puo’
essere considerata giustificabile, ai sensi dell’art. 1 del
protocollo n. 1, soltanto in circostanze eccezionali, ancorche’ non
sempre sia garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95);
f) in caso di "espropriazione isolata", pur se a fini di pubblica
utilita’, soltanto una riparazione integrale puo’ essere considerata
in rapporto ragionevole con il bene (punto 96); g) obiettivi
legittimi di pubblica utilita’, come quelli perseguiti da misure di
riforma economica o da misure tendenti a conseguire una maggiore
giustizia sociale, potrebbero giustificare un indennizzo inferiore al
valore di mercato (punto 97). I principi, stabiliti dalla Corte di
Strasburgo con la menzionata decisione, hanno poi trovato conferma
nella giurisprudenza successiva di detta Corte, che ad essa si e’
richiamata (tra le piu’ recenti: sentenza del 19 gennaio 2010, in
causa Zuccala’ contro Italia; sentenza dell’8 dicembre 2009, in causa
Vacca contro Italia; sentenza della Grande Camera del 1°aprile 2008,
in causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro Italia).
6.4. – Nella giurisprudenza di questa Corte e’ costante
l’affermazione che l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art.
42, terzo comma, Cost., se non deve costituire una integrale
riparazione per la perdita subita – in quanto occorre coordinare il
diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione
mira a realizzare – non puo’ essere, tuttavia, fissato in una misura
irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio
ristoro (ex multis: sentenze n. 173 del 1991; sentenza n. 1022 del
1988; sentenza n. 355 del 1985; sentenza n. 223 del 1983; sentenza n.
5 del 1980). Quest’ultima pronuncia ha chiarito che, per raggiungere
tale finalita’, «occorre fare riferimento, per la determinazione
dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue
caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo puo’
assicurarsi la congruita’ del ristoro spettante all’espropriato ed
evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al
valore del bene».
Ad analoghe conclusioni e’ giunta la gia’ citata sentenza n. 348
del 2007, la quale ha ribadito che «deve essere esclusa una
valutazione del tutto astratta, in quanto sganciata dalle
caratteristiche essenziali del bene ablato» (principio gia’ affermato
dalla sentenza n. 355 del 1985).
Si deve rilevare, a questo punto, che le suddette statuizioni
riguardano suoli edificabili. Cio’ non significa, tuttavia, che esse
non siano applicabili anche ai suoli agricoli ed a quelli non
suscettibili di classificazione edificatoria.
Invero, l’art. 1 del primo protocollo della CEDU, nelle sue
proposizioni, si riferisce con previsione chiaramente generale ai
beni, senza operare distinzioni in ragione della qualitas rei. E non
a caso la Corte europea ha posto in risalto proprio tale previsione
generale, stabilendo che alla luce di essa (prima proposizione) vanno
interpretati i disposti della seconda e della terza (sentenza
Scordino contro Italia, punto 78). Del resto, non e’ ravvisabile
alcun motivo idoneo a giustificare, sotto il profilo qui in esame, un
trattamento differenziato, in presenza di un evento espropriativo,
tra i suoli di cui si tratta (edificabili, da un lato, agricoli o non
suscettibili di classificazione edificatoria, dall’altro). Come la
sentenza n. 348 del 2007 ha posto in luce, «sia la giurisprudenza
della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea
concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare
l’indennita’ di espropriazione deve essere il valore di mercato (o
venale) del bene ablato». E tale punto di riferimento non puo’
variare secondo la natura del bene, perche’ in tal modo verrebbe meno
l’ancoraggio al dato della realta’ postulato come necessario per
pervenire alla determinazione di una giusta indennita’.
Con cio’ non si vuol negare che le aree edificabili e quelle
agricole o non edificabili abbiano carattere non omogeneo. Si vuole
dire che, pure in presenza di tale carattere, anche per i suoli
agricoli o non edificabili sussiste l’esigenza che l’indennita’ si
ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene».
In senso contrario non varrebbe richiamare la sentenza di questa
Corte n. 261 del 1997, con la quale fu dichiarata non fondata la
questione di legittimita’ costituzionale della normativa censurata,
in riferimento agli artt. 3 e 24 e 42, terzo comma, Cost.
Infatti, quella pronuncia e’ anteriore alla riforma attuata dalla
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V
della parte seconda della Costituzione), sicche’ nella fattispecie in
essa trattata non poteva essere evocato come parametro costituzionale
il nuovo testo dell’art. 117, primo comma Cost., attualmente vigente.
7. – Alla luce di detto parametro, in relazione all’art. 1 del
primo protocollo addizionale della CEDU nell’interpretazione datane
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonche’ dell’art. 42,
terzo comma, Cost., si deve ora verificare il criterio di calcolo
dell’indennita’ di espropriazione contemplato dalla normativa
censurata, la quale prevede che, per i suoli agricoli e per quelli
non edificabili, la detta indennita’ sia commisurata al valore
agricolo medio del terreno, secondo la disciplina dettata dall’art.
16 della legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni. Tale
valore e’ determinato ogni anno, entro il 31 gennaio, nell’ambito
delle singole regioni agrarie, dalle apposite commissioni
provinciali, con le modalita’ di cui alla norma da ultimo citata
(dianzi richiamate).
Orbene, il valore tabellare cosi’ calcolato prescinde dall’area
oggetto del procedimento espropriativo, ignorando ogni dato
valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano cosi’
trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore
intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso
praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l’acqua,
l’energia elettrica, l’esposizione), la maggiore o minore perizia
nella conduzione del fondo e quant’altro puo’ incidere sul valore
venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente
astratto che elude il «ragionevole legame» con il valore di mercato,
«prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e
coerente, del resto, con il "serio ristoro" richiesto dalla
giurisprudenza consolidata di questa Corte» (sentenza n. 348 del
2007, citata, punto 5.7 del Considerato in diritto).
E’ vero che il legislatore non ha il dovere di commisurare
integralmente l’indennita’ di espropriazione al valore di mercato del
bene ablato e che non sempre e’ garantita dalla CEDU una riparazione
integrale, come la stessa Corte di Strasburgo ha affermato, sia pure
aggiungendo che in caso di "espropriazione isolata", pur se a fini di
pubblica utilita’, soltanto una riparazione integrale puo’ essere
considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene. Tuttavia,
proprio l’esigenza di effettuare una valutazione di congruita’
dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali
meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che
quest’ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore
(sentenza n. 1165 del 1988), in guisa da garantire il "giusto
equilibrio"tra l’interesse generale e gli imperativi della
salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui.
Sulla base delle esposte considerazioni deve essere dichiarata
l’illegittimita’ costituzionale della normativa censurata, perche’ in
contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1
del primo protocollo addizionale della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali,
nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e con l’art.
42, terzo comma, Cost.
Gli ulteriori profili dedotti in riferimento all’art. 3 Cost.
restano assorbiti.
8. – Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), deve essere dichiarata l’illegittimita’
costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del
d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in materia di
espropriazione. Detta norma, che apre la sezione dedicata alla
determinazione dell’indennita’ nel caso di esproprio di un’area non
edificabile, adotta per tale determinazione, con riguardo ai commi
indicati, il criterio del valore agricolo medio corrispondente al
tipo di coltura prevalente nella zona o in atto nell’area da
espropriare e, quindi, contiene una disciplina che riproduce quella
dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza.
La Corte non ritiene di estendere tale declaratoria anche al
comma 1 del citato art. 40. Detto comma concerne l’esproprio di
un’area non edificabile ma coltivata (il caso di area non coltivata
e’ previsto dal comma 2), e stabilisce che l’indennita’ definitiva e’
determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto
delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei
manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione
all’esercizio dell’azienda agricola.
La mancata previsione del valore agricolo medio e il riferimento
alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono una
interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro
demandata ai giudici ordinari.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i giudizi;
Dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 5-bis, comma
4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il
risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato disposto con gli
articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi quinto e
sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento
dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per
pubblica utilita’; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto
1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed
autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore
dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come
sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per
la edificabilita’ dei suoli);
dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimita’ costituzionale, in via
consequenziale, dell’articolo 40, commi 2 e 3, decreto del Presidente
della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per pubblica utilita’);
dichiara inammissibile la questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 5-bis, comma 3, del d.l. n. 333 del 1992,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione,
dalla Corte di appello di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2011.

Il Presidente: Maddalena

Il redattore: Criscuolo

Il cancelliere: Melatti

Depositata in cancelleria il 10 giugno 2011.

Il direttore della cancelleria: Melatti

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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