Corte Costituzionale, Sentenza n. 183 del 2011, in materia di modifiche al codice penale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 26 del 15-6-2011

Sentenza

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 62-bis, secondo
comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 1, comma 1, della
legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla
legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di
recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per
i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso dal Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Perugia nel procedimento penale
a carico di M.S.R. con ordinanza del 28 aprile 2009, iscritta al n.
174 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 20 aprile 2011 il Giudice
relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Perugia, con ordinanza del 28 aprile 2009, pervenuta a questa Corte
il 24 dicembre 2009 (r.o. n. 174 del 2010), ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione,
questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 62-bis, secondo
comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 1, comma 1, della
legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla
legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di
recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per
i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui, nel
caso di recidivo reiterato ex art. 99, quarto comma, cod. pen.,
chiamato a rispondere di taluno dei delitti di cui all’art. 407,
comma 2, lettera a), cod. proc. pen., per il quale sia prevista una
pena non inferiore nel minimo a cinque anni, non consente di fondare
sui parametri di cui al secondo comma dell’art. 133 cod. pen., in
particolare sul comportamento susseguente al reato, la concessione
dell’attenuante di cui all’art. 62-bis, primo comma, cod. pen.».
Come ricorda il giudice a quo, in un giudizio abbreviato nei
confronti, tra gli altri, di M. S. R., imputato di numerosi reati
(omicidio premeditato, soppressione di cadavere aggravata, rapina
aggravata, detenzione e porto illegale di armi, anche con matricola
abrasa, ricettazione, incendio doloso, tentato incendio doloso,
contraffazione di documenti e costituzione di associazione per
delinquere armata), commessi tra l’agosto del 2007 e l’aprile del
2008, il pubblico ministero aveva chiesto l’applicazione a M. S. R.
delle attenuanti generiche, in considerazione della collaborazione
fornita nel corso delle indagini, e aveva eccepito l’illegittimita’
costituzionale dell’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen. per
violazione degli artt. 27 e 3 Cost.
Il rimettente rileva che effettivamente le attenuanti generiche
non potrebbero essere applicate perche’ l’imputato, «recidivo
reiterato», deve tra l’altro rispondere di uno dei delitti (quello di
cui agli artt. 575 e 577 cod. pen.) previsti dall’art. 407, comma 2,
lettera a), cod. proc. pen., puniti con pena non inferiore nel minimo
a cinque anni, per i quali le attenuanti generiche possono essere
fondate solo sui parametri di cui all’art. 133, primo comma, numeri
1) e 2), cod. pen., e non anche su quelli di cui al secondo comma
dello stesso art. 133, comprendente tra l’altro la condotta
susseguente al reato, nel cui ambito puo’ farsi rientrare (ove non
specificamente prevista come causa di attenuazione di pena) la
collaborazione prestata in fase di indagini.
La disciplina prevista dall’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen.
sembra al rimettente in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., in
quanto, in primo luogo, tanto il legislatore, nell’esercizio
dell’ampia discrezionalita’ di cui dispone nella configurazione dei
reati e delle circostanze aggravanti o attenuanti e nella previsione
dei limiti edittali, quanto il giudice, che deve procedere alla
determinazione della pena da irrogare in concreto entro i limiti
stabiliti e nell’esercizio del suo potere discrezionale, «non possono
prescindere dalla considerazione delle finalita’ della pena, in
primis dalla necessaria destinazione della sanzione penale alla
rieducazione del condannato». Muovendo dall’analisi della sentenza n.
313 del 1990, il giudice a quo richiama l’orientamento della
giurisprudenza costituzionale secondo cui la finalita’ rieducativa
rileva sia nella fase dell’esecuzione penale, sia in quella della sua
previsione e della sua irrogazione, dovendosi ritenere che il terzo
comma dell’art. 27 Cost. vincoli sia il legislatore, sia il giudice
della cognizione, prima che il giudice della sorveglianza; d’altra
parte – soggiunge il rimettente – sul piano della disciplina
positiva, si era significativamente stabilito che la finalita’
risocializzante dovesse essere tenuta presente dal giudice gia’ in
sede di sostituzione della pena detentiva, agli effetti degli artt.
53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689, segno evidente di
«una diretta influenza, per cosi’ dire ontologica, della rieducazione
e della risocializzazione».
In secondo luogo, nella prospettazione del rimettente, viene in
rilievo la giurisprudenza costituzionale sulla legittimita’ delle
pene fisse (sentenze n. 50 del 1980 e n. 299 del 1992), secondo cui
«l’individualizzazione della pena, in modo da tenere conto
dell’effettiva entita’ e delle specifiche esigenze dei singoli casi,
si pone come naturale attuazione e sviluppo dei principi
costituzionali tanto di ordine generale (principio di uguaglianza)
quanto attinenti direttamente alla materia penale, tanto piu’ che lo
stesso principio di legalita’ della pena ex art. 25, secondo comma,
Cost. si inserisce in un sistema, in cui si esige la differenziazione
piu’ che l’uniformita’. In tale quadro, si e’ osservato che ha un
ruolo centrale la discrezionalita’ giudiziale, nell’ambito dei
criteri segnati dalla legge». Secondo il giudice a quo, in forza
dell’orientamento della Corte costituzionale, l’adeguamento della
pena ai casi concreti contribuirebbe a rendere il piu’ possibile
personale la responsabilita’ penale e ad assicurare la sua
finalizzazione rieducativa; sarebbe cosi’ perseguita anche
l’uguaglianza di fronte alla pena, intesa come proporzione della
stessa rispetto alle responsabilita’ personali e alle esigenze di
risposta che ne conseguono.
La possibilita’ di applicare le attenuanti generiche
rappresenterebbe lo strumento tradizionalmente piu’ duttile, per
consentire al giudice di adeguare la pena alle peculiarita’ del caso
concreto, al di sotto dei limiti edittali. Il giudice, infatti, puo’
prendere in considerazione circostanze diverse da quelle tipizzate,
qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena e
a tal fine deve avere riguardo, in linea di massima, ai parametri
indicati dall’art. 133 cod. pen., come ritiene, sia pure sulla base
di pronunce divergenti su alcuni aspetti, la giurisprudenza della
Corte di cassazione. L’art. 133 cod. pen., rimarca il giudice a quo,
«delimita l’ambito della discrezionalita’ del giudice, ancorandola
alla valutazione della gravita’ del reato e della capacita’ a
delinquere del reo, l’una e l’altra desumibili dalla valutazione
sintetica dei parametri all’uopo individuati». In questa prospettiva
si comprende come la concessione o meno delle attenuanti generiche
debba basarsi su una valutazione globale della gravita’ del fatto e
della capacita’ a delinquere, se del caso lumeggiata da un elemento
che in concreto assume carattere prevalente, sia pure ai fini del
diniego dell’applicazione.
In questo quadro si colloca la disposizione del secondo comma
dell’art. 62-bis cod. pen., come sostituito dalla legge n. 251 del
2005: ricorrendo l’ipotesi della recidiva reiterata in relazione a
taluno dei delitti indicati, sarebbe stata introdotta, secondo il
rimettente, una sorta di presunzione di preponderanza del parametro
negativo costituito dai precedenti dell’imputato, presunzione che
puo’ essere vinta solo dal riferimento alla natura, alla specie, ai
mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e ad ogni altra modalita’
dell’azione, ovvero dal riferimento alla gravita’ del danno o del
pericolo cagionato alla persona offesa dal reato. Secondo il
rimettente questa disciplina tradisce la ratio complessiva della
norma dettata dal primo comma dell’art. 62-bis cod. pen. e,
soprattutto, il senso del riferimento all’art. 133 cod. pen., che
implica una valutazione discrezionale dei parametri delineati, in
modo da adeguare al caso concreto il giudizio sulla gravita’ del
reato e sulla capacita’ a delinquere del reo: la rigida preclusione
introdotta dalla novella del 2005 «espropria il giudice del potere di
valutare adeguatamente le peculiarita’ del caso concreto e pervenire
cosi’ alla definizione del trattamento sanzionatorio piu’ conforme
alle esigenze di risocializzazione e di rieducazione del reo (il che,
come nel caso di specie, finisce per dare luogo alla
predeterminazione della pena ex lege, in assenza di altre ragioni di
attenuazione)».
Nell’argomentare del rimettente, la considerazione assumerebbe
particolare rilievo quando, rispetto al disvalore astrattamente
desumibile dal parametro costituito dai precedenti penali
dell’imputato, incidente sulla capacita’ a delinquere, possono
individuarsi altri parametri anch’essi rilevanti ai fini della
valutazione di tale capacita’, che risultano in concreto idonei a
contrastare la valenza negativa di quei precedenti: e’ il caso
dell’imputato che abbia tenuto una condotta susseguente al reato
particolarmente significativa, tale da far presumere che egli abbia
intrapreso un percorso di riconsiderazione della condotta anteatta e
da far apparire poco significativo il dato personologico relativo
alle precedenti condanne. Basata solo su esigenze di difesa sociale,
la presunzione risulterebbe cosi’ in contrasto con il principio di
cui all’art. 27, terzo comma, Cost., perche’ «irrigidisce il
trattamento sanzionatorio, fino ad allontanarlo dal concreto
perseguimento delle esigenze di risocializzazione e di rieducazione,
che postulano (non solo l’esecuzione, ma anche) l’irrogazione di una
pena adeguata al loro soddisfacimento. In altre parole sembra
incongruo privilegiare in astratto solo uno dei parametri valutativi
della capacita’ a delinquere, disconoscendo a priori la possibilita’
di individuare parametri ugualmente o maggiormente idonei a
lumeggiare quella capacita’ ed a fondare una diminuzione di pena, in
termini conformi al dettato costituzionale».
L’assunto, secondo il giudice a quo, sembrerebbe tanto piu’
fondato se confrontato con l’irrazionalita’ della scelta, operata dal
legislatore, di attribuire rilievo alla recidiva reiterata solo nel
caso dei reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc.
pen. per i quali sia prevista una pena non inferiore nel minimo a
cinque anni. Invero, «il significato personologico di un elemento di
valutazione non puo’ essere diverso a seconda del tipo di delitti e
men che mai a seconda del minimo della pena edittale per essi
prevista», registrandosi, peraltro, la non corrispondenza tra la
previsione dettata dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen. e quella
di cui al secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen.: la prima,
infatti, stabilisce l’obbligatorieta’ dell’applicazione della
recidiva nel caso di reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a),
cod. proc. pen., laddove la seconda aggiunge l’ulteriore parametro
della pena non inferiore a cinque anni. La disciplina, secondo il
rimettente, «disvela in realta’ il preponderante rilievo attribuito
alle ragioni di difesa sociale e di prevenzione generale, chiaramente
espresse attraverso il riferimento a quei parametri aggiuntivi, ma
risulta in concreto irrazionale».
Infatti, in primo luogo «si determina un’incongrua commistione
tra parametri personologici e profili afferenti alla gravita’ del
fatto, attribuendosi rilievo decisivo ai primi in quanto associati ai
secondi, sulla base di valutazioni predeterminate e astratte, senza
considerare che il profilo afferente alla personalita’ del reo non
puo’ che concorrere alla formulazione di un giudizio sintetico sulla
concreta capacita’ a delinquere, solo all’interno di tale valutazione
potendo trovare l’eventuale contemperamento». Inoltre, si prevede un
trattamento ingiustificatamente diverso di situazioni che, rispetto
all’applicazione delle attenuanti generiche e alla rilevanza della
recidiva reiterata, sono in realta’ identiche: al riguardo
l’ordinanza di rimessione fa riferimento, per un verso, ai reati
parimenti compresi tra quelli di cui all’art. 407, comma 2, lettera
a), cod. proc. pen. e con pena identica nel massimo ma non nel
minimo, come l’estorsione aggravata e la rapina aggravata, rispetto
ai quali l’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen. finisce per incidere
in modo del tutto diverso, e, per altro verso, a reati pur rilevanti,
come l’estorsione non aggravata, che hanno una pena non inferiore nel
minimo a cinque anni, per i quali tuttavia la recidiva reiterata non
impedisce l’applicazione delle attenuanti generiche sulla base dei
parametri di cui all’art. 133, secondo comma, cod. pen.
La preclusione delle attenuanti generiche, dunque, «viene fatta
discendere da una circostanza inerente alla persona del colpevole
associata ad un coacervo disomogeneo di titoli di reati, delineati
dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., ulteriormente
qualificato dal minimo della pena edittale, peraltro non sempre
indicativo neppure della gravita’ del reato (la rapina aggravata con
pena massima di anni venti infatti finisce per essere trattata come
l’estorsione non aggravata con pena massima di anni dieci, senza
alcuna razionalita’ delle scelte neppure in termini di prevenzione
generale). Correlativamente si produce l’anomalo effetto di condurre
all’irrogazione di pene identiche in presenza di situazioni che
possono considerarsi assolutamente diverse».
Secondo il giudice a quo si allargherebbe a dismisura e
ingiustificatamente la distanza tra il regime di favore dettato da
norme speciali, come ad esempio quella di cui all’art. 8 del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema
di lotta alla criminalita’ organizzata e di trasparenza e buon
andamento dell’attivita’ amministrativa), convertito dalla legge 12
luglio 1991, n. 203, e la disciplina ordinaria relativa ai reati che
non riguardano la criminalita’ mafiosa: nel primo caso non vi sono
preclusioni di sorta pur a fronte di una storia criminale cospicua,
mentre nel secondo, in presenza delle altre condizioni indicate,
neppure un’eccezionale collaborazione potrebbe trovare il riscontro
di una circostanza attenuante, recando altresi’ pregiudizio
all’attivita’ di accertamento e repressione dei reati, che non
potrebbe giovarsi di collaborazioni meritevoli di un riconoscimento
premiale.
Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo
sottolinea come, su richiesta del pubblico ministero, egli debba
entrare nel merito dell’applicabilita’ all’imputato M. S. R. delle
attenuanti generiche sulla base di una condotta successiva al reato
(mentre e’ ritenuta irrilevante la diversa questione della
preclusione ex art. 69, quarto comma, cod. pen., del giudizio di
prevalenza, a fronte della qualita’ di «recidivo reiterato»);
l’imputato, infatti, ha ammesso gli addebiti e comunque quelli
principali, costituiti dall’omicidio e dall’occultamento del cadavere
e, nel corso delle indagini, ha tenuto una condotta largamente
collaborativa. In tal modo, secondo il rimettente, l’imputato ha
«palesato un contegno di inequivoca discontinuita’ con il suo passato
e di rivisitazione della travagliata condotta anteatta. Va in effetti
osservato che il M. risulta condannato per plurimi e gravi reati,
peraltro commessi tutti in epoca assai remota. Tra detti reati figura
anche quello di omicidio, ma in quel caso gli e’ stata riconosciuta
l’attenuante della minima partecipazione». In passato – precisa il
giudice a quo – l’imputato ha fruito dell’attenuante ex art. 8 del
decreto-legge n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del
1991, e, successivamente, ha riportato una modesta condanna per fatti
legati alla prostituzione, rendendosi poi artefice della costituzione
di un sodalizio finalizzato soprattutto alla commissione di reati
contro il patrimonio, all’interno del quale e’ maturato l’omicidio
per il quale si procede. Osserva quindi il rimettente che «l’elemento
sopravvenuto, rappresentato dalla prestata efficace collaborazione,
al pari dei precedenti penali – ma piu’ di essi – si proietta verso
il futuro e dunque verso la definizione di un trattamento
sanzionatorio corrispondente alle concrete e attuali esigenze di
rieducazione e puo’ dunque considerarsi meritevole di considerazione
quale comportamento susseguente al reato, idoneo a giustificare
un’attenuazione di pena ai sensi dell’art. 62-bis, primo comma, cod.
pen., nel quadro di una globale valutazione degli indici di cui
all’art. 133, secondo comma, cod. pen. Poiche’ l’imputato e’ recidivo
reiterato e deve fra l’altro rispondere del delitto di omicidio
aggravato dalla premeditazione, rientrante tra quelli evocati
dall’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., tale elemento non
potrebbe essere preso in considerazione (non ricorrendo nella specie
elementi tali da far apparire rilevanti i parametri di cui all’art.
133, primo comma, n. 1 e n. 2, cod. pen.)».
2. – E’ intervenuto nel giudizio di costituzionalita’ il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto una
dichiarazione di inammissibilita’ o di infondatezza della questione.
La difesa dello Stato ritiene che l’ordinanza di rimessione sia
priva di motivazione sulla responsabilita’ dell’imputato, non
contenendo alcuna indicazione circa le ragioni per le quali il
giudice dovrebbe condannarlo; la questione sarebbe quindi
inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto
l’intenzione di applicare le circostanze attenuanti generiche
presuppone il convincimento di responsabilita’.
La questione, inoltre, sarebbe infondata. La difesa dello Stato
richiama la ratio della disposizione censurata, chiaramente volta ad
inasprire il regime sanzionatorio per coloro che, versando nella
situazione di recidiva reiterata, hanno commesso reati
particolarmente gravi. Si tratterebbe di una scelta discrezionale del
legislatore immune dalle censure denunciate dal rimettente; insieme
con la riforma dell’art. 99 cod. pen., la norma censurata vorrebbe
attuare una forma di prevenzione generale della recidiva reiterata,
con riferimento ai reati indicati nel secondo comma dell’art. 62-bis
cod. pen., inasprendo il trattamento sanzionatorio. «La disciplina in
esame non puo’ comportare una applicazione sproporzionata della pena
in quanto intende sanzionare maggiormente coloro che pervicacemente
hanno commesso un altro reato grave, e che hanno cosi’ dimostrato un
alto e persistente grado di antisocialita’».
Ancorandosi a un dato che obiettivamente attesta la particolare
pericolosita’ del colpevole, la norma censurata opererebbe una
legittima deroga all’applicabilita’ generale dell’art. 62-bis cod.
pen., che non sarebbe in contrasto con il principio di offensivita’ e
con la finalita’ rieducativa della pena, di cui al terzo comma
dell’art. 27 Cost.
La commisurazione della pena, sottolinea la difesa dello Stato,
e’ demandata al giudice alla stregua dei principi fissati dal
legislatore, che, nel caso in esame, ha inteso sanzionare il fenomeno
della recidiva reiterata, collegata alla commissione di gravi reati,
puniti con pena edittale non inferiore nel minimo a cinque anni, in
quanto la persistenza nelle condotte antisociali dimostra che la
funzione rieducativa non si e’ esplicata efficacemente nei confronti
dell’imputato ed e’ quindi necessario assicurare la possibilita’ che,
attraverso l’applicazione della pena, tale funzione trovi una nuova
occasione di svolgimento. Ragionevolmente, quindi, la norma censurata
impedisce al giudice di valutare, ai fini dell’applicazione delle
attenuanti generiche, il comportamento tenuto dal reo dopo la
commissione del reato, in quanto, trattandosi di «recidivo reiterato»
e della commissione di gravi reati, la prognosi sul suo ravvedimento
puo’ non essere ancora giustificata e la condotta successiva al reato
puo’ costituire un fatto occasionale, determinato da motivi
contingenti, con la conseguenza che l’effettiva possibilita’ di
ravvedimento e di risocializzazione del reo sia in tali casi da
valutare nel corso dell’esecuzione della pena. Nella prospettazione
dell’Avvocatura generale dello Stato, cio’ significherebbe non gia’
vanificare la funzione rieducativa della pena, ma differire la
valutazione del comportamento del reo e, quindi, dell’esistenza e
della persistenza del suo ravvedimento, al momento dell’accesso ai
vari benefici previsti per la fase esecutiva. D’altra parte,
nell’esercizio dell’ordinario potere di commisurazione della pena, il
giudice e’ pur sempre in grado di commisurare il trattamento
sanzionatorio tra il minimo e il massimo della pena edittale, tenendo
conto della effettiva gravita’ del fatto e della reale necessita’ di
rieducazione mostrata dal colpevole.
Secondo la difesa dello Stato, inoltre, la norma censurata non
sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza. Essa disciplina
situazioni soggettivamente ed oggettivamente gravi, tali da
giustificare il limite alla discrezionalita’ del giudice nella
commisurazione della pena al di sotto dei limiti edittali. Ne’
sarebbe previsto un trattamento ingiustificatamente diverso di
situazioni che sono identiche: i reati indicati al riguardo, a titolo
di esempio, dal giudice a quo (i delitti di rapina aggravata e di
estorsione aggravata) non fanno riferimento a situazioni identiche,
in quanto il minimo edittale previsto e’ diverso, e soltanto per il
reato punito con pena edittale non inferiore a cinque anni e’
disposta la limitazione all’applicazione delle circostanze generiche.
Il legislatore ha individuato una classe di casi nei quali, attesa la
loro gravita’ soggettiva ed oggettiva, e’ prematura, al momento della
commisurazione, la previsione che il reo non commettera’ ulteriori,
gravi reati, e ha disposto che il grado di risocializzazione del reo,
rivelato dai suoi comportamenti, venga valutato nell’ambito
dell’esecuzione di una pena applicata, intanto, nella sua pienezza.
In conclusione, l’Avvocatura generale dello Stato sottolinea che
l’esercizio della discrezionalita’ legislativa, cosi’ operato, non
appare manifestamente irragionevole, siccome volto ad assicurare che
la funzione premiale, insita nelle attenuanti generiche applicate in
ragione della condotta successiva, non operi nei casi in cui il
perseguimento di tale finalita’ specifica appaia oggettivamente
problematico. Pertanto non sussisterebbe la violazione dell’art. 3
Cost.

Considerato in diritto

1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Perugia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma,
della Costituzione, questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 62-bis, secondo comma, del codice penale, come sostituito
dall’art. 1, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche
al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione),
«nella parte in cui, nel caso di recidivo reiterato ex art. 99,
quarto comma, cod. pen., chiamato a rispondere di taluno dei delitti
di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., per il
quale sia prevista una pena non inferiore nel minimo a cinque anni,
non consente di fondare sui parametri di cui al secondo comma
dell’art. 133 cod. pen., in particolare sul comportamento susseguente
al reato, la concessione dell’attenuante di cui all’art. 62-bis,
primo comma, cod. pen.».
Secondo il rimettente, la norma censurata sarebbe in contrasto
con l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto, introducendo «una sorta
di presunzione di preponderanza del parametro negativo costituito dai
precedenti dell’imputato», esproprierebbe il giudice del potere di
valutare adeguatamente le peculiarita’ del caso concreto e di
pervenire cosi’ alla definizione del trattamento sanzionatorio piu’
conforme alle esigenze di risocializzazione e di rieducazione del
reo, laddove, a fronte dell’incidenza sulla capacita’ a delinquere
del parametro costituito dai precedenti penali dell’imputato, sarebbe
possibile individuare altri parametri – come quello relativo alla
condotta susseguente al reato – rilevanti ai fini del medesimo
giudizio sulla capacita’ a delinquere che risultino in concreto
idonei a contrastare la valenza negativa dei precedenti.
La norma censurata, inoltre, violerebbe l’art. 3 Cost., sotto
vari profili. Verrebbe infatti attribuito irrazionalmente rilievo
alla recidiva reiterata solo nel caso dei reati di cui all’art. 407,
comma 2, lettera a), cod. proc. pen. per i quali sia prevista una
pena non inferiore nel minimo a cinque anni, laddove «il significato
personologico di un elemento di valutazione non puo’ essere diverso a
seconda del tipo di delitti e men che mai a seconda del minimo della
pena edittale per essi prevista».
Si determinerebbe poi «un’incongrua commistione tra parametri
personologici e profili afferenti alla gravita’ del fatto,
attribuendosi rilievo decisivo ai primi in quanto associati ai
secondi, sulla base di valutazioni predeterminate e astratte, senza
considerare che il profilo afferente alla personalita’ del reo non
puo’ che concorrere alla formulazione di un giudizio sintetico sulla
concreta capacita’ a delinquere, solo all’interno di tale valutazione
potendo trovare l’eventuale contemperamento». Nel far discendere la
preclusione delle circostanze attenuanti generiche da una circostanza
inerente la persona del colpevole, associata a un «coacervo
disomogeneo» di titoli di reato, delineati dall’art. 407, comma 2,
lettera a), cod. proc. pen., ulteriormente qualificato dal minimo
della pena edittale, la norma censurata determinerebbe, secondo il
rimettente, un trattamento ingiustificatamente diverso di situazioni
che, rispetto all’applicazione delle attenuanti generiche e alla
rilevanza della recidiva reiterata, sono identiche e, per contro,
l’irrogazione di pene identiche in presenza di situazioni
assolutamente diverse, dando luogo inoltre a un ingiustificato
ampliamento della distanza tra il regime di favore dettato da norme
speciali, quali l’art. 8 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152,
convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e la disciplina
ordinaria relativa ai reati che non riguardano la criminalita’
mafiosa.
2. – L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l’inammissibilita’ della questione. Secondo l’Avvocatura difetta,
infatti, la motivazione sulla rilevanza perche’ «nell’ordinanza di
remissione manca (…) qualsiasi motivazione sulla preliminare
ritenuta colpevolezza dell’imputato», mentre «la volonta’ di
applicare le circostanze attenuanti generiche presuppone che il Gip
abbia ritenuto l’imputato responsabile».
L’eccezione e’ priva di fondamento.
Il rimettente ha precisato che l’imputato ha ammesso gli addebiti
e che proprio per questa ragione, e per la collaborazione data nel
corso delle indagini, il pubblico ministero ha chiesto l’applicazione
delle circostanze attenuanti generiche, e cio’ e’ sufficiente per
ritenere la questione rilevante nel giudizio a quo.
3. – Nel merito la questione e’ fondata nei limiti che seguono.
4. – Il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen., che forma
oggetto della questione di legittimita’ costituzionale, stabilisce
che, ai fini dell’applicazione delle circostanze attenuanti
generiche, non si tiene conto dei criteri di cui all’art. 133, primo
comma, numero 3), cod. pen., e dei criteri commisurativi afferenti
alla capacita’ a delinquere (art. 133, secondo comma, cod. pen.),
«nei casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, in relazione ai
delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice
di procedura penale, nel caso in cui siano puniti con la pena della
reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni».
I criteri considerati dalla norma censurata sono vari, ma la
formulazione della questione e gli argomenti addotti a sostegno fanno
ritenere, nonostante alcune genericita’ della motivazione, che il
dubbio del rimettente investa esclusivamente il divieto, nei casi
suddetti, di tenere conto, ai fini delle circostanze attenuanti
generiche, della condotta del reo successiva al reato.
La regola preclusiva stabilita si collega al consolidato
orientamento della giurisprudenza comune che, ai fini
dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, fa leva su
una valutazione incentrata sugli elementi presi in considerazione dai
criteri commisurativi dettati dall’art. 133 cod. pen., benche’
diversi indirizzi si confrontino sul tema se, ai fini indicati, il
riferimento a tali criteri, attesa la loro «onnicomprensivita’»,
possa esaurire l’ambito dell’apprezzamento rimesso al giudice ovvero
se la decisione possa essere fondata anche su altri elementi. In ogni
caso, e’ certo che il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. offre
nuove conferme della valenza generale rivestita, ai fini delle
circostanze attenuanti generiche, dai parametri stabiliti dall’art.
133 cod. pen. D’altra parte, con riferimento al criterio
commisurativo della condotta successiva al reato, va osservato che la
valorizzazione, a tali fini, del ravvedimento dell’imputato trova
conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione, che tende ad
instaurare un legame tra il valore sintomatico del ravvedimento e
l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche (Cass. pen.,
sez. V, n. 33690 del 14 maggio 2009).
La norma censurata introduce dunque una deroga rispetto a un
principio generale che governa la complessa attivita’ commisurativa
della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione
della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo
finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost.,
diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione
delle circostanze.
Per un compiuto inquadramento della portata della preclusione
introdotta dalla norma censurata, deve rilevarsi che il richiamo
congiunto alla recidiva reiterata («… nei casi previsti
dall’articolo 99, quarto comma, …») e al catalogo dei «delitti
previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di
procedura penale», cui rinvia anche il quinto comma dell’art. 99 cod.
pen., fa si’ che il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. debba
intendersi riferito a un’ipotesi di recidiva obbligatoria, che
preclude al giudice l’accertamento della concreta significativita’
del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura e al tempo di
commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati
dall’art. 133 cod. pen. – «sotto il profilo della piu’ accentuata
colpevolezza e della maggiore pericolosita’ del reo» (sentenza n. 192
del 2007).
5. – L’ordinanza di rimessione, nel censurare i limiti introdotti
con il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen., muove dalla
rilevanza che, nel quadro dei principi costituzionali e con
particolare riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., e’
riconosciuta al potere discrezionale del giudice per la
determinazione della pena e aggiunge che «lo strumento
tradizionalmente piu’ duttile» a tal fine «e’ rappresentato dalla
possibilita’ di concedere all’imputato le attenuanti generiche». E’
in questa prospettiva che, secondo il giudice rimettente, dovrebbe
essere valutata la norma in questione, per l’impedimento che ne
deriva alla valutazione di alcuni elementi a favore dell’imputato,
altrimenti utilizzabili per il riconoscimento delle attenuanti
generiche.
In proposito pero’ puo’ osservarsi che se e’ vero che il potere
discrezionale del giudice nella determinazione della pena forma
oggetto, nell’ambito del sistema penale, di un principio di livello
costituzionale, e’ anche vero che il meccanismo preclusivo realizzato
attraverso la norma in questione limita solo parzialmente tale
potere, il quale continua ad avere un ampio ambito di esplicazione,
attraverso la possibilita’ di spaziare tra il minimo e il massimo
edittale relativi allo specifico reato, con l’integrazione degli
aumenti o delle diminuzioni per le altre circostanze eventualmente
esistenti e per le stesse attenuanti generiche, che rimangono
applicabili in base a elementi diversi da quelli «di cui all’articolo
133, primo comma, numero 3), e secondo comma». Si tratta quindi di
una limitazione che non si pone in contrasto con i principi
costituzionali richiamati dal rimettente.
Pure insussistente e’ la pretesa violazione dell’art. 3 Cost.,
denunciata, sotto il profilo dell’irragionevolezza e della disparita’
di trattamento, perche’ la norma censurata farebbe discendere la
preclusione della concessione delle circostanze attenuanti generiche
«da una circostanza inerente la persona del colpevole, associata a un
coacervo disomogeneo di titoli di reati, delineati dall’art. 407,
comma 2, lett. a), cod. proc. pen., ulteriormente qualificato dal
minimo della pena edittale». In proposito infatti e’ sufficiente
osservare, da un lato, che in linea di principio la considerazione,
ai fini del trattamento penale, della recidiva reiterata in unione
con alcuni gravi reati non contrasta con l’art. 3 Cost. e,
dall’altro, che l’individuazione di questi reati rientra nella
discrezionalita’ del legislatore e non puo’ essere messa in
questione, come ha fatto l’ordinanza di rimessione, solo perche’ le
pene comminate per l’uno o per l’altro reato presentano delle
differenze.
Deve quindi concludersi che non da’ luogo a una disparita’ di
trattamento, ne’ e’ di per se’ irragionevole prevedere un regime di
maggior rigore nei confronti di una persona che ha commesso un grave
reato trovandosi in una situazione di recidiva reiterata; resta pero’
da stabilire se – come pure prospetta l’ordinanza di rimessione – sia
in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. lo specifico
trattamento previsto dall’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., e
piu’ in particolare il divieto di riconoscere all’imputato le
attenuanti generiche per la condotta, positivamente apprezzabile,
tenuta dopo la commissione del reato. E’ in relazione a tale divieto
che il giudice rimettente ha denunciato l’incongruenza di
«privilegiare in astratto solo uno dei parametri valutativi della
capacita’ a delinquere, disconoscendo a priori la possibilita’ di
individuare parametri ugualmente o maggiormente idonei a lumeggiare
quella capacita’ ed a fondare una diminuzione di pena, in termini
conformi al dettato costituzionale».
6. – Sotto questo aspetto la questione e’ fondata perche’
contrasta con il principio di ragionevolezza la scelta normativa di
escludere, nell’ipotesi del secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen.,
il potere del giudice di valutare ed apprezzare la condotta tenuta
dal colpevole nel periodo successivo alla commissione del reato.
La disposizione impugnata, infatti, precludendo al giudice di
fondare il riconoscimento delle attenuanti generiche sulla condotta
successiva al reato, privilegia uno dei parametri indicati dal
secondo comma dell’art. 133 cod. pen. – la precedente attivita’
delittuosa del reo – come sintomatico della capacita’ a delinquere
rispetto agli altri e in particolare rispetto alla condotta
successiva alla commissione del reato, benche’ questa possa essere in
concreto ugualmente, o addirittura prevalentemente, indicativa
dell’attuale capacita’ criminale del reo e della sua complessiva
personalita’.
La preclusione e’ fondata su una valutazione preventiva,
predeterminata e astratta, che non risponde a un dato di esperienza
generalizzabile, in quanto la rigida presunzione di capacita’ a
delinquere, presupposta dalla norma censurata, e’ inadeguata ad
assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi,
a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la
recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento. Mentre la
recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento,
la condotta susseguente si proietta nel futuro e puo’ segnare una
radicale discontinuita’ negli atteggiamenti della persona e nei suoi
rapporti sociali, che, pur potendo essere di grande significato per
valutare l’attualita’ della capacita’ a delinquere, sono
indiscriminatamente neutralizzati ai fini dell’applicazione delle
circostanze attenuanti generiche.
A ben vedere il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. da’
luogo a un duplice automatismo, basato su presunzioni: il primo
deriva dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen., che nel caso di
commissione da parte di un recidivo di uno dei reati previsti
dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. rende
obbligatoria l’applicazione della recidiva (mentre negli altri casi
si ritiene che sia rimessa alla valutazione discrezionale del
giudice: sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 171 del 2009, n. 257,
n. 193, n. 90 e n. 33 del 2008); il secondo concerne la presunta
prevalenza della recidiva rispetto alla condotta dell’imputato
susseguente al reato.
Com’e’ noto, secondo la giurisprudenza della Corte, «le
presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale
della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono
arbitrarie e irrazionali, cioe’ se non rispondono a dati di
esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod
plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della
presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia «agevole»
formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione
posta a base della presunzione stessa» (sentenze n. 164 del 2011, n.
265 e n. 139 del 2010).
Cio’ posto, non puo’ disconoscersi che nel caso in esame una
siffatta formulazione sia agevole, considerando, da un lato, che la
recidiva puo’ basarsi anche su fatti remoti e privi di rilevante
gravita’ e, dall’altro, che la decisione puo’ intervenire anche a
distanza di anni dalla commissione del fatto per cui si procede e che
successivamente l’imputato potrebbe aver tenuto comportamenti
sicuramente indicativi di una risocializzazione in corso, o
interamente realizzata, e potrebbe anche essere divenuto una persona
completamente diversa da quella che a suo tempo aveva commesso il
reato.
E’ da aggiungere che l’impossibilita’ di dare rilevanza, ai fini
delle circostanze attenuanti generiche, alla condotta del condannato
successiva alla commissione del reato risulta ancor piu’
irragionevole se si considera il limitato effetto che l’applicazione
di tali circostanze potrebbe determinare, dato che, per la
disposizione del quarto comma dell’art. 69 cod. pen., esse
continuerebbero a trovare un limite nella recidiva, rispetto alla
quale potrebbero essere ritenute equivalenti ma mai prevalenti;
avrebbero cioe’ il solo effetto di neutralizzare il rilevante aumento
di pena previsto per la recidiva, ma non potrebbero anche determinare
una diminuzione della pena base.
7. – Escludere che possa assumere rilevanza, ai fini delle
attenuanti generiche, una condotta, successiva al reato, indicativa
di una positiva evoluzione in atto della personalita’ del condannato
significa anche porsi in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost.
Infatti l’obiettivo della rieducazione del condannato, posto da
questa norma costituzionale, non puo’ essere efficacemente perseguito
negando valore a quei comportamenti che manifestano una
riconsiderazione critica del proprio operato e l’accettazione di quei
valori di ordinata e pacifica convivenza, nella quale si esprime
l’oggetto della rieducazione.
Come questa Corte ha gia’ avuto occasione di affermare, la
finalita’ rieducativa della pena non e’ limitata alla sola fase
dell’esecuzione, ma costituisce «una delle qualita’ essenziali e
generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e
l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa,
fino a quando in concreto si estingue» (sentenza n. 313 del 1990; si
vedano anche le sentenze n. 129 del 2008, n. 257 del 2006, n. 341 del
1994). E’ da aggiungere che «tra le finalita’ che la Costituzione
assegna alla pena – da un lato, quella di prevenzione generale e
difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittivita’ e
retributivita’, e, dall’altro, quelle di prevenzione speciale e di
rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilita’
della pena in funzione dell’obiettivo di risocializzazione del reo –
non puo’ stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che
valga una volta per tutte ed in ogni condizione. Il legislatore puo’
cioe’ – nei limiti della ragionevolezza – far tendenzialmente
prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalita’ della pena,
ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata. Per un verso,
infatti, il perseguimento della finalita’ rieducativa (…) non puo’
condurre a superare l’afflittivita’ insita nella pena detentiva
determinata nella sentenza di condanna. Per altro verso, il
privilegio di obiettivi di prevenzione generale e di difesa sociale
non puo’ spingersi fino al punto da autorizzare il pregiudizio della
finalita’ rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel
contesto dell’istituto della pena» (sentenza n. 306 del 1993; si veda
anche la sentenza n. 257 del 2006).
Posti questi principi, si deve concludere che con l’inasprimento
del trattamento sanzionatorio per i «recidivi reiterati», autori di
determinati reati, senza la possibilita’ di tenere conto del loro
comportamento successivo alla commissione del reato, anche quando e’
particolarmente meritevole ed espressivo di un processo di
rieducazione intrapreso, o addirittura gia’ concluso, la norma in
esame, in violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., privilegiando
un profilo general-preventivo, elude la funzione rieducativa della
pena.
8. – Deve essere, pertanto, dichiarata l’illegittimita’
costituzionale dell’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., come
sostituito dall’art. 1, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251,
nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del
primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della
condotta del reo susseguente al reato.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 62-bis,
secondo comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 1, comma
1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e
alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti
generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze
di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in
cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello
stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo
susseguente al reato.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2011.

Il Presidente: Maddalena

Il redattore: Lattanzi

Il cancelliere: Melatti

Depositata in cancelleria il 10 giugno 2011.

Il direttore della cancelleria: Melatti

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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