a cura del dott. Domenico CIRASOLE
Il caso in esame vede interessato il sig. TIZIO, quale giornalista di un noto quotidiano a livello nazionale.
TIZIO pubblicava sul quotidiano l’intervista rilasciata da CAIA.
CAIA non risultava essere personaggio pubblico, o ricoprente particolare carica istituzionale, ma una privata cittadina, quindi presumibilmente poco affidabile.
CAIA definiva SEMPRONIO (all’epoca dei fatti era direttore generale dell’Azienda Municipale Igiene urbana di Milano) un “faccendiere ed un opportunista che pensa soltanto ai suoi interessi” asserendo anche che era condizionato dalla mafia nelle assunzioni e nelle promozioni dei dipendenti della stessa azienda.
TIZIO pubblicava sul quotidiano l’intervista senza effettuare alcun controllo in ordine alla veridicità delle notizie, ed ometteva di contenere le espressioni riferite da CAIA.
Tutte le affermazioni di CAIA erano riportate tra virgolette, ed il giornalista prendeva le distanze dalle stesse affermazioni assumendo la posizione di terzo osservatore.
E’ doveroso in questa sede riferire della scriminante del diritto di cronaca.
Il diritto di cronaca presuppone la fedeltà dell’informazione, cioè l’esatta rappresentazione del fatto percepito dal cronista.
La scriminante interviene quando la notizia riportata viene seriamente accertata e corrisponde alla verità dei fatti senza alterazioni o travisamenti del contenuto (criterio della verità dell’informazione).
La scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca non è invocabile quando le affermazioni dell’intervistato sono palesemente false o, comunque, il giornalista non le abbia in alcun modo controllate , e quando l’intervistato esprima valutazioni critiche gratuitamente offensive, perché in questo caso l’illiceità delle dichiarazioni riferite è immediatamente rilevabile dal giornalista, senza neppure l‘esigenza di indagini tese a verificare la corrispondenza ai fatti.
In altri termini, se è discutibile la punibilità del giornalista che riporti asserzioni dell’intervistato risultate poi non vere, non è certamente discutibile la punibilità del giornalista che riporti valutazioni gratuitamente e palesemente offensive dell’altrui reputazione (Cass. pen., 25 gennaio 1999, n. 935).
Altra scriminante è data dal diritto di critica, che rientra tra i diritti pubblici soggettivi inerenti alla libertà di pensiero e di stampa, e si estrinseca “nella libertà di esprimere opinioni e valutazioni su fatti e situazioni nonché dissensi o consensi rispetto ad opinioni altrui” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430).
La critica consiste in un dissenso motivato, espresso in termini corretti e misurati e non deve assumere toni gravemente lesivi dell’altrui dignità morale e professionale.
E’ necessario che il fatto su cui la critica viene esercitata, sia vero, mentre ne rimane libera la valutazione.
La critica è soggetta ai parametri della rilevanza sociale dell’argomento e della correttezza dell’espressione.
La cronaca è soggetta anche alla verità dei fatti.
L’esimente putativa nel caso d’intervista è configurabile nei confronti del giornalista tutte le volte in cui la notizia è costituita da un contenuto di
pubblico interesse e sono rese da un soggetto idoneo a creare particolare affidamento sulla veridicità delle sue affermazioni.
La Suprema Corte ritiene che il giornalista risponda del reato di diffamazione commesso dal terzo intervistato qualora non ricorrano i requisiti della pertinenza, della verità dei fatti narrati e della continenza verbale, poiché chi da diffusione alla dichiarazione di altri commette diffamazione a sua volta (Cass. 17.03.1980, n.516).
Le Sezioni Unite con la sentenza n. 37140/2001 affermano che in presenza, di un giornalista che pubblichi dichiarazioni espresse da un personaggio noto con contenuto diffamatorio nei confronti di terzi, deve essere sicuro della posizione di alto rilievo dell’intervistato.
Inoltre è ancora affermato che il giornalista deve sempre mantenere una posizione neutra e imparziale perché diversamente risponde a titolo di concorso nel reato di diffamazione.
In definitiva la cassazione afferma che l’intervista deve rispettare il criterio della continenza.
Cosi facendo è facile verificare “se il giornalista abbia assunto la posizione di terzo osservatore dei fatti o non abbia piuttosto, provocato o sollecitato le dichiarazioni diffamatorie.
Il giornalista non è esente da responsabilità in merito a quanto riportato, se ha omesso le necessarie verifiche di attendibilità, ma anche quando le dichiarazioni siano diffamatorie in sé, per le espressioni adoperate o per la palese falsità delle accuse.
Il giornalista non può limitare il suo intervento a riprodurre esattamente e diligentemente quanto riferito dall’intervistato e deve accertare
che non difetti il requisito della continenza, e cioè che esse non consistano in insulti ovvero in espressioni gratuite, non necessarie, volgari, umilianti o dileggianti, ovvero siano affermazioni in sé diffamatorie.
In tal caso il giornalista si rende responsabile, a titolo di concorso, del delitto di diffamazione, aggravata con il mezzo della stampa, perché, con la sua condotta, funge da “cassa di risonanza” delle frasi lesive dell’altrui onore .
Il giornalista diviene sostanziale coautore e quindi consapevole strumento di diffamazione conferendo il suo contributo causale
alla diffusione dell’offesa all’altrui reputazione, di talchè la sua
condotta non può non essere sussumibile nell’ambito della previsione
normativa dell’art. 110 c.p., rispondendo secondo lo schema del concorso di persone nel reato, ove il fatto non sia giustificato dallo "ius narrandi"
(Cass. pen., sez. V, sent. n. 5313 del 26 aprile 1999); né ha rilievo che il giornalista non sia d’accordo con le opinioni manifestate dall’intervistato, essendo all’uopo sufficiente la volontaria diffusione della dichiarazione diffamatoria (Cass. pen., sez. V, sent. n. 480 del 19 gennaio 1984).
La diffamazione è un reato a forma libera dove la condotta materiale
si estrinseca nell’offesa all’onore e al decoro della persona.
L’art. 595 c.p., “tutela la reputazione, l’onore, inteso come opinione e valutazione dei consociati rispetto alla personalità morale e sociale di un individuo”.
Per quanto concerne l’elemento oggettivo del reato, si rileva che l’intento diffamatorio può essere raggiunto con valutazioni o giudizi offensivi dell’altrui reputazione, con espressioni insinuanti e suggestionanti.
Quanto, invece, all’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, inteso come consapevolezza che le espressioni volontariamente utilizzate sono lesive dell’altrui reputazione o possono porla a rischio.
Non si richiede il dolo specifico, nel senso che non occorre “l’animus nocendi” .
A parere dello scrivente TIZIO ben può essere accusato di concorso nel delitto di diffamazione, aggravata con il mezzo della stampa, perché, con la sua condotta, ha dato risonanza alle frasi lesive dell’onore di SEMPRONIO.
TIZIO non è esente da responsabilità per il fatto di non aver, provocato o sollecitato le dichiarazioni diffamatori; non per aver mantenuto una posizione di terzo osservatore dei fatti; ne di meno per non esser d’accordo con le opinioni manifestate dall’intervistato.
TIZIO risponde del reato di diffamazione commesso da CAIA, dallo stesso intervistata, perché ha omesso le necessarie verifiche di attendibilità; ma anche perché le espressioni volontariamente utilizzate sono lesive della reputazione di SEMPRONIO, e quindi la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca non è invocabile.