Colpa medica: le Sezioni Unite fanno arricchire assicurazioni e avvocati. Cassazione penale, Sezioni Unite, sentenza 22 febbraio 2018, n. 8770

 

Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 21/12/2017) 22-02-2018, n. 8770
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Presidente –
Dott. IPPOLITO Francesco – Consigliere –
Dott. CONTI Giovanni – Consigliere –
Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Consigliere –
Dott. VESSICHELLI Maria – rel. Consigliere –
Dott. RAMACCI Luca – Consigliere –
Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere –
Dott. MONTAGNI Andrea – Consigliere –
Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.F., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 07/12/2015 della Corte di appello di Firenze;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Dott. Maria Vessichelli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. BALDI Fulvio,
che ha concluso chiedendo sollevarsi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 590-
sexies cod. pen.; in subordine l’annullamento con rinvio ai soli effetti civili;
udito il difensore della parte civile, avv. Vito Di Bernardino, che ha concluso chiedendo la
inammissibilità del ricorso;
udito il difensore dell’imputato, avv. Piermatteo Lucibello, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso; in subordine, l’annullamento senza rinvio per essere il reato estinto
per prescrizione; in ulteriore subordine sollevarsi la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 590- sexies cod. pen..
Svolgimento del processo
1. Ha proposto ricorso per cassazione M.F. avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze in data 7 dicembre 2015 con la quale è stato confermato, nei suoi confronti, il giudizio di responsabilità pronunciato dal Tribunale di Pistoia con riferimento all’imputazione di lesioni
personali colpose.
1.1. Al ricorrente, nella qualità di medico specialista in neurochirurgia in servizio presso l’ambulatorio del Centro Fisioterapico (OMISSIS), è stato addebitato il comportamento omissivo ingiustificatamente tenuto dopo alcune visite del paziente P.G., nell’ottobre del 2008.
Un comportamento contestato come caratterizzato da negligenza, imprudenza e imperizia e consistito nel non avere effettuato tempestivamente la diagnosi della sindrome da compressione della “cauda equina”, con conseguente considerevole differimento nella esecuzione – avvenuta ad opera di altro medico specialista, successivamente interpellato dalla persona offesa – dell’intervento chirurgico per il quale vi era, invece, indicazione di urgenza, in
base alle regole cautelari di settore.
L’intervento doveva essere finalizzato alla decompressione della cauda e, per l’effetto, avrebbe dovuto impedire che la prolungata compressione in atto procurasse al paziente effetti poi riscontrati, e cioè un rilevante deficit sensitivo-motorio con implicazioni dirette sul controllo delle funzioni neurologiche concernenti l’apparato uro-genitale e di quelle motorie del piede 

1.2. In punto di fatto, era rimasto accertato che il ricorrente, in occasione della prima visita del 9 ottobre 2008, nella quale il paziente aveva manifestato forti dolori alla schiena, aveva
prescritto una terapia farmacologica e richiesto una elettromiografia; in occasione della seconda visita, a distanza di una settimana, non avendo il P. eseguito l’esame diagnostico, il medico aveva prospettato, in ragione del persistere dei forti dolori, la eventuale necessità di un
intervento chirurgico con inserimento di dischetti in silicone fra le vertebre; in occasione della terza visita del 23 ottobre, verificata la esecuzione dell’esame prescritto, il ricorrente aveva diagnosticato un’ernia in L2 e consigliato un intervento chirurgico per la relativa asportazione.
Il paziente aveva chiesto una pausa per riflettere ma la stessa notte (tra il 23 e il 24 ottobre)
aveva accusato una marcata ingravescenza del quadro clinico, evidenziata da sintomi allarmanti di incontinenza fecale, notevole difficoltà nella motilità degli arti inferiori ed infine perdita dello stimolo ad urinare.
L’indomani mattina, sollecitata telefonicamente all’imputato una visita in ragione della nuova e
più preoccupante condizione in cui versava, il P. l’aveva potuta ottenere non prima di una settimana, il 30 ottobre, ma, giunto in ritardo all’appuntamento, non aveva rinvenuto il medico. Questi, raggiunto telefonicamente per rimarcare la persistenza della sintomatologia invalidante, aveva replicato di poterlo operare non prima del mese successivo e di insistere nella terapia farmacologica, non accennando ad alcuna problematica legata all’urgenza, ma indicando il Pronto soccorso per la ricerca di un rimedio ai dolori. Una ricostruzione, quella appena ricordata, accreditata in base al racconto della persona offesa, che i giudici di primo e
secondo grado hanno reputato affidabile sia per intrinseca coerenza, sia perchè confortato dalla deposizione della teste A., sebbene in contrasto con la prospettazione dell’imputato che invece aveva affermato di non essere stato reso edotto, nella telefonata del 24 ottobre, della gravità dei nuovi sintomi.
Ritenutosi non adeguatamente seguito, il paziente si era rivolto ad altro sanitario, l’ortopedico dott. D.B., il quale a sua volta, fissato in tre giorni l’appuntamento ed effettuata la diagnosi di “sindrome della cauda”, nonchè verificata l’urgenza dell’intervento di competenza neurochirurgica, aveva indirizzato il P. al CTO di Firenze ove, eseguita una TAC, questi era stato operato, in via d’urgenza, nella notte tra il 4 e il 5 novembre.
L’intervento era consistito nella decompressione della cauda ed exeresi di una grossa ernia discale espulsa.
1.3. A seguito dell’intervento, ed a distanza di circa due mesi, era stata accertata, mediante consulenza tecnica, la permanenza di una serie di gravi sintomi e quindi di un danno neurologico a carico delle funzioni sfinteriche, della sensibilità perineale e della motilità del piede destro, ritenuti effetto della prolungata compressione delle fibre della “cauda equina”, non prontamente contrastata con intervento chirurgico urgente. Questo sarebbe intervenuto
tardi a causa del differimento della visita finalizzata alla diagnosi, ritardo quest’ultimo a sua volta dovuto alla sottovalutazione, imputata al ricorrente, dei gravi e allarmanti sintomi da ultimo manifestatisi nel paziente, pur affetto da lombosciatalgia cronica per la quale era da
tempo seguito dal M. stesso.
In conclusione, il ritardo colpevole del M. veniva quantificato almeno nei sei giorni fatti inutilmente decorrere tra il momento in cui il paziente gli rappresentò i gravissimi sintomi neurologici e quello in cui ritenne di far cadere l’appuntamento per la verifica della situazione, senza peraltro, neppure in quella occasione, prospettare la necessità di un pronto intervento chirurgico.
Nella sentenza di primo grado, inoltre, veniva verificata positivamente la configurabilità del nesso di causalità ed esclusa la causa di non responsabilità penale introdotta dal D.L. n. 158 del 2012, art. 3 (c.d. decreto Balduzzi) perchè l’imputato non si era attenuto alle linee-guida o alle best practices che gli avrebbero imposto una diagnosi tempestiva e la sollecitazione di un intervento chirurgico non ulteriormente procrastinabile.
2. Deduce il ricorrente:
– il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento agli artt. 199 e 499 cod. proc. pen. in particolare denunciando il travisamento della prova costituita dalle dichiarazioni della teste A., citate a riscontro della versione della persona offesa costituita parte civile che
sarebbero state frutto di domande suggestive del pubblico ministero.
– il vizio della motivazione e la violazione dell’art. 40 cod. pen. in tema di nesso di causalità.

Assume la difesa che illogicamente sarebbe stato trascurato il rilievo del consulente dell’imputato, accreditato neuropatologo, secondo cui, posto che nella cartella clinica relativa alla degenza per l’intervento neurochirurgico era stato attestato un recupero parziale del deficit
motorio agli arti inferiori, avrebbe dovuto inferirsene che la compressione della cauda non aveva potuto avere la durata denunciata dalla parte civile, ma una ben inferiore, in quanto, diversamente, i relativi effetti sarebbero stati ben più gravi.
Allo stesso modo, la difesa denuncia il travisamento delle certificazioni mediche in atti circa la datazione dei sintomi che derivava non dalla constatazione diretta da parte dei sanitari 
successivamente interpellati ma dalla ripresa delle dichiarazioni del paziente.
Posto, dunque, che il 30 ottobre era la data di effettiva “presa in carico”, da parte del ricorrente, quantomeno sul piano cognitivo, degli allarmanti sintomi della parte civile, non
poteva non considerarsi che l’indicazione in quel frangente, da parte del medesimo, di rivolgersi al Pronto soccorso con urgenza rappresentava la corretta attuazione delle buone
pratiche sanitarie.
Ne derivava altresì che, dovendosi imputare al P. l’ulteriore ritardo di cinque giorni connesso alla scelta di non recarsi al Pronto soccorso diversamente da quanto suggeritogli, ma di
investire altri due sanitari, il differimento e l’addebito delle correlate conseguenze lesive non potevano ricondursi, con il necessario grado di certezza, al comportamento del ricorrente.
3. Il ricorso è stato segnalato al Primo Presidente dal Presidente del Collegio della Quarta Sezione cui il processo era stato assegnato perchè, all’interno di questa, si registrava un contrasto giurisprudenziale su tema di possibile rilievo ai fini della trattazione, e cioè quello
della misura della incidenza della recente L. 8 marzo 2017, n. 24, che, nell’abrogare la previgente disciplina della L. n. 189 del 2012, ha rimodulato i limiti della colpa medica a fronte
del rispetto delle linee-guida dettate in materia, con conseguenze in punto di individuazione della legge più favorevole.
Con decreto del 13 novembre 2017, il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’art. 610 cod. proc. pen., comma 2, l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, da trattarsi all’odierna udienza pubblica.
4. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria avente ad oggetto la specifica questione di
diritto devoluta alle Sezioni Unite.
L’interpretazione letterale della riforma induce a ritenere che la nuova causa di non punibilità è
operativa in ogni caso in cui risultino rispettate le raccomandazioni previste dalle linee-guida
pertinenti. Anche l’andamento dei lavori parlamentari starebbe a dimostrare che la colpa grave
non viene ritenuta ragione di inoperatività della causa che esclude la punibilità.
Secondo la nuova normativa, il parametro di verifica della colpa è il rispetto, constatato ex
post, della adeguatezza delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida, non anche le
modalità di applicazione in concreto delle stesse, altrimenti non comprendendosi quale possa
essere l’area di operatività della causa di non punibilità introdotta dall’art. 590-sexies cod.
pen. e riferita espressamente all’imperizia.
Nel caso di specie, le linee-guida erano state correttamente individuate, e cioè il medico aveva
fatto una scelta attendista in assenza di sintomi rivelatori della “sindrome della cauda”; quando
invece tali sintomi egli aveva percepito, aveva correttamente avviato il paziente al Pronto
soccorso per l’espletamento dell’attività diagnostica o interventistica, avente carattere di
urgenza.
In conclusione, nessun rimprovero può muoversi al sanitario e, per l’eventualità che, invece, si
ravvisasse imperizia con riferimento alle scelte operate il 24 ottobre 2008, la stessa dovrebbe
ricadere nell’ambito della causa di non punibilità introdotta dalla novella del 2017.
5. Il Procuratore generale, pur dando atto della inammissibilità dei motivi di ricorso volti ad
accreditare una ricostruzione dei fatti alternativa a quella motivatamente emergente dalla
sentenza impugnata, ha chiesto sollevarsi la questione di legittimità costituzionale dell’art.
590-sexies cod. pen., per contrasto con i principi posti negli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 32, 33, 101,
102 e 111 Cost..
Ha osservato preliminarmente che l’unica interpretazione possibile della nuova norma
codicistica sarebbe quella propugnata dalla sentenza che ha dato luogo al contrasto
giurisprudenziale, Sez. 4, n. 50078 del 19/10/2017, Cavazza, basata sulla lettera della legge, a
differenza di quella della sentenza Tarabori della medesima Sezione, n. 28187 del 20/04/2017,

che se ne è distaccata tentando una ricostruzione normativa costituzionalmente conforme ma
inaccettabile perchè sostanzialmente abrogativa del nuovo precetto. Il Procuratore generale ha
perciò rilevato che ci si troverebbe di fronte alla necessità di applicare una previsione
normativa che confligge: con il principio di divieto ingiustificato di disparità di trattamento fra
situazioni omologhe (le diverse forme di colpa e le diverse categorie di professionisti coinvolti);
con il principio di tassatività della norma penale, per la derivazione delle linee-guida da fonte
normativa secondaria; con quello di responsabilità personale, per la scarsa prevedibilità ed
evitabilità dell’evento; con quello del diritto alla tutela della salute, posto in crisi da una
richiesta di applicazione dei protocolli non chiaramente calibrati sul caso concreto; con quello
della dignità della professione sanitaria, che si contrappone alla rigidità delle linee-guida da
applicare; con quello della libera valutazione del giudice, che si verrebbe a limitare
attribuendogli un criterio di giudizio non flessibile.
In subordine, il Procuratore generale ha sollecitato l’annullamento con rinvio al giudice civile,
data la ormai maturata prescrizione del reato, per il necessario approfondimento riguardo alla
possibilità di parametrazione della condotta del M. alle linee-guida e alla eventuale sussistenza
di profili di negligenza nel suo operato.
Motivi della decisione
1. La questione sottoposta alle Sezioni Unite è la seguente:
“Quale sia, in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o
lesioni, l’ambito applicativo della previsione di “non punibilità” prevista dall’art. 590-sexies cod.
pen., introdotta dalla L. 8 marzo 2017, n. 24″.
2. All’origine del contrasto giurisprudenziale che ha determinato la rimessione alle Sezioni
Unite vi è la promulgazione della L. 8 marzo 2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza
delle cure e della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli
esercenti le professioni sanitarie), entrata in vigore il 1 aprile 2017, nota come “legge Gelli-
Bianco” in ragione dei nomi dei rispettivi relatori di maggioranza alla Camera e al Senato.
Questa, proseguendo nella volontà manifestatasi nella presente legislatura, di tipizzazione di
modelli di colpa all’interno del codice penale, ha disposto, all’art. 6, nel primo comma, la
formulazione dell’art. 590-sexies cod. pen. contenente la nuova disciplina speciale sulla
responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario e, nel secondo comma,
la contestuale abrogazione della previgente disciplina extra-codice della materia. E cioè
del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, comma 1, recante disposizioni urgenti per
promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute, decreto
convertito, con modificazioni, dalla L. 8 novembre 2012, n. 189 e conosciuto come “decreto
Balduzzi”, dal nome del Ministro della Salute del Governo che lo aveva presentato. 

2.1. L’art. 3 del d.l. Balduzzi era stato concepito per normare i limiti della responsabilità penale
dell’esercente la professione sanitaria a fronte di un panorama giurisprudenziale divenuto
sempre più severo nella delineazione della colpa medica punibile, salvo il mantenimento di una
certa apertura all’utilizzo della regola di esperienza ricavabile dall’art. 2236 cod. civ., per la
stessa individuabilità della imperizia, nei casi in cui si fosse imposta la soluzione di problemi di
specifica difficoltà di carattere tecnico-scientifico (fra le molte, Sez. 4, n. 16328 del
05/04/2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Buggè, Rv. 237875).
Si era, invero, pervenuti nel volgere di un ventennio – dopo un passato di approdi
giurisprudenziali più indulgenti che ricavavano direttamente dall’art. 2236 cod. civ. la
possibilità di punire il solo errore inescusabile derivante dalla mancata applicazione delle
cognizioni generali – ad un assetto interpretativo in base al quale la colpa medica non veniva di
regola esclusa, una volta accertato che l’inosservanza delle linee-guida era stata determinante
nella causazione dell’evento lesivo, essendo rilevante in senso liberatorio soltanto che questo,
avuto riguardo alla complessiva condizione del paziente, fosse, comunque, inevitabile e,
pertanto, ascrivibile al caso fortuito (Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Ingrassia, Rv. 254618).
Ebbene, l’art. 3 citato era stato congegnato nel senso di sancire la esclusione della
responsabilità per colpa lieve, quando il professionista, nello svolgimento delle proprie attività,
non ulteriormente perimetrate con riferimento alla idoneità dell’evento ad integrare specifiche
figure di reato nè quanto alla afferibilità alla negligenza, imprudenza o imperizia, si fosse
“attenuto” a linee-guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

2.2. Dal canto suo, l’art. 6 della legge Gelli-Bianco, volto ad incidere con la previsione di una
causa di non punibilità sulla responsabilità colposa per morte o lesioni personali da parte degli
esercenti la professione sanitaria, la ha introdotta come specificazione ai precetti penali
generali in tema di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.) o omicidio colposo (art. 589),
con espressa limitazione agli eventi verificatisi a causa di “imperizia” e sul presupposto che
siano state “”rispettate” le raccomandazioni previste dalle linee-guida come definite e
pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-
assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee-guida risultino
adeguate alle specificità del caso concreto”.
E’ comunque fatta salva, dall’art. 7, la responsabilità civile dell’esercente la professione
sanitaria, ai sensi dell’articolo 2043 cod. civ..
2.3. Il precetto dell’art. 6 deve essere letto alla luce degli artt. 1, 3 e 5 che lo precedono:
norme che costituiscono uno dei valori aggiunti della novella, nella ottica di una migliore
delineazione della colpa medica, poichè pongono a servizio del fine principale dell’intervento
legislativo – la sicurezza delle cure unitamente ad una gestione consapevole e corretta del
rischio sanitario (art. 1), a sua volta anticipato nel disegno della L. 28 dicembre 2015, n.
208, art. 1, commi 538 e segg. (legge di stabilità per il 2016) – un metodo nuovo di
accreditamento delle linee-guida. Queste ambiscono così a costituire non solo, per i sanitari,
un contributo autorevole per il miglioramento generale della qualità del servizio, essendo, tutti
gli esercenti le numerose professioni sanitarie riconosciute, chiamati ad attenervisi (art. 5,
comma 1), ma anche, per il giudizio penale, indici cautelari di parametrazione, anteponendosi
alla rilevanza delle buone pratiche clinico-assistenziali, che, elemento valorizzato nel decreto
Balduzzi, assumono oggi rilievo solo sussidiario per il minor grado di ponderazione scientifica
che presuppongono, pur rimanendo comunque da individuare in modelli comportamentali
consolidati oltre che accreditati dalla comunità scientifica.
E’ qui sufficiente rammentare che dall’art. 3 è prevista la istituzione di un Osservatorio delle
buone pratiche sulla sicurezza nella sanità destinato a raccogliere dati utili per la gestione del
rischio sanitario e quelli concernenti le buone pratiche per la sicurezza delle cure,
predisponendosi linee di indirizzo con l’ausilio delle società scientifiche e delle associazioni
tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie. Oltre a ciò, viene regolamentata la creazione di
un elenco delle predette società e associazioni, aventi peculiari caratteristiche idonee a
garantirne la trasparenza e la capacità professionale scientifica; enti deputati ad elaborare,
unitamente alle istituzioni pubbliche e private, le raccomandazioni da includere in linee-guida
che hanno la finalità di fungere da parametro per la corretta esecuzione delle prestazioni
sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di
medicina legale.
Tali linee-guida sono recepite attraverso un sistema di pubblicità garantito dall’Istituto
superiore di sanità pubblica che lo realizza nel proprio sito internet, previa una ulteriore
verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti resi pubblici dello stesso
Istituto.
E’ sicuramente rimarchevole che tanto l’istituzione dell’Osservatorio quanto la formazione del
predetto elenco siano ufficialmente avvenuti mediante la pubblicazione di due decreti del
Ministero della Salute in date, rispettivamente, 2 agosto e 29 settembre 2017 (in Gazzetta
Ufficiale, Serie Generale, n. 186 del 10 agosto 2017 e n. 248 del 23 ottobre 2017). 

  1. Va osservato preliminarmente che, sul tema della natura, finalità e cogenza delle linee-guida
    – che hanno assunto rilevanza centrale nel costrutto della intera impalcatura della legge – non
    vi è motivo per discostarsi dalle condivisibili conclusioni maturate in seno alla giurisprudenza
    delle sezioni semplici della Cassazione, icasticamente riprese e sviluppate, anche dopo la
    introduzione della novella, dalla sentenza Sez. 4, n. 28187 del 20/04/2017, nota nel dibattito
    giurisprudenziale e dottrinale col riferimento al nome, Tarabori, della parte civile ricorrente
    contro il proscioglimento dell’imputato De Luca: sentenza che costituisce uno dei due poli del
    contrasto sottoposto alle Sezioni Unite, ma non sul tema della natura delle linee-guida, che
    non risulta investito da divergenza di interpretazioni.
    Ebbene, può convenirsi con il rilievo che, anche a seguito della procedura ora monitorata e
    governata nel suo divenire dalla apposita istituzione governativa, e quindi tendente a formare
    un sistema con connotati pubblicistici, le linee-guida non perdono la loro intrinseca essenza,
    già messa in luce in passato con riferimento alle buone pratiche. Quella cioè di costituire un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli
    ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi,
    senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole
    vincolanti.
    La utilità della descritta introduzione delle linee-guida, pubblicate a cura del competente
    istituto pubblico, resta indubbia.
    Da un lato, una volta verificata la convergenza delle più accreditate fonti del sapere scientifico,
    esse servono a costituire una guida per l’operatore sanitario, sicuramente disorientato, in
    precedenza, dal proliferare incontrollato delle clinical guidelines. Egli è oggi posto in grado di
    assumere in modo più efficiente ed appropriato che in passato, soprattutto in relazione alle
    attività maggiormente rischiose, le proprie determinazioni professionali. Con evidenti vantaggi
    sul piano della convenienza del servizio valutato su scala maggiore, evitandosi i costi e le
    dispersioni connesse a interventi medici non altrettanto adeguati, affidati all’incontrollato
    soggettivismo del terapeuta, nonchè alla malpractice in generale.
    Dall’altro lato, la configurazione delle linee-guida con un grado sempre maggiore di affidabilità
    e quindi di rilevanza – derivante dal processo di formazione – si pone nella direzione di offrire
    una plausibile risposta alle istanze di maggiore determinatezza che riguardano le fattispecie
    colpose qui di interesse. Fattispecie che, nella prospettiva di vedere non posto in discussione il
    principio di tassatività del precetto, integrato da quello di prevedibilità del rimprovero e di
    prevenibilità della condotta colposa, hanno necessità di essere etero-integrate da fonti di rango
    secondario concernenti la disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in
    vario modo fondano il rimprovero soggettivo.
    Con una espressione sintetica, proprio attraverso tali precostituite raccomandazioni si hanno
    parametri tendenzialmente circoscritti per sperimentare l’osservanza degli obblighi di diligenza,
    prudenza, perizia. Ed è in relazione a quegli ambiti che il medico ha la legittima aspettativa di
    vedere giudicato il proprio operato, piuttosto che in base ad una norma cautelare legata alla
    scelta soggettiva, a volte anche estemporanea e scientificamente opinabile, del giudicante.
    Sempre avendo chiaro che non si tratta di veri e propri precetti cautelari, capaci di generare
    allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la
    necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto.
    Così come è da escludere che il nuovo sistema introdotto, pur sembrando formalmente
    sollecitare alla esatta osservanza delle linee-guida, anche al fine di ottenere il beneficio
    previsto in campo penale, possa ritenersi agganciato ad automatismi.
    Non si tratta, infatti, di uno “scudo” contro ogni ipotesi di responsabilità, essendo la loro
    efficacia e forza precettiva comunque dipendenti dalla dimostrata “adeguatezza” alle specificità
    del caso concreto (art. 5), che è anche l’apprezzamento che resta, per il sanitario, il mezzo
    attraverso il quale recuperare l’autonomia nell’espletare il proprio talento professionale e, per
    la collettività, quello per vedere dissolto il rischio di appiattimenti burocratici. Evenienza dalla
    quale riemergerebbero il pericolo per la sicurezza delle cure e il rischio della “medicina
    difensiva”, in un vortice negativo destinato ad autoalimentarsi.
    Non, dunque, norme regolamentari che specificano quelle ordinarie senza potervi derogare, ma
    regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico
    caso del paziente e implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli
    operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene.
    4. Tutto ciò premesso, può ora più efficacemente riassumersi il senso del contrasto
    giurisprudenziale rilevato.
    4.1. Il primo orientamento è sostenuto dalla sentenza De Luca-Tarabori sopra citata,
    concernente il caso di un medico psichiatra, responsabile del piano riabilitativo redatto per un
    paziente e chiamato a rispondere, a titolo di colpa, dell’omicidio volontario da questi compiuto,
    con un mezzo contundente, nella occasione della convivenza con la futura vittima, posta
    unitamente all’imputato in una struttura residenziale a bassa soglia assistenziale: posizione,
    quella del medico prosciolto dal Gip ai sensi dell’art. 425 cod. proc. pen., che la Cassazione ha
    fatto oggetto di annullamento con rinvio, tra l’altro, per il necessario raffronto con le linee-
    guida del caso concreto, anche nella prospettiva della operatività del decreto Balduzzi quale
    legge più favorevole.

Tale decisione, confrontandosi con le potenzialità apparentemente liberatorie della novella,
muove dal preliminare rilievo di incongruenze interne alla formulazione del precetto dell’art. 6
cit. che porrebbero in crisi la possibilità stessa di comprendere la ratio della norma e poi quella
di applicarla, se dovesse darsi corso ad una adesione acritica alla lettera della legge.
Questa, infatti, con l’enunciato della non punibilità dell’agente che rispetti le linee-guida
accreditate, nel caso in cui esse risultino adeguate alle specificità del caso concreto, sarebbe
una norma quantomeno inutile perchè espressione dell’ovvio; e cioè del fatto che chi rispetta le
linee-guida scelte in modo appropriato non può che essere riconosciuto esente da
responsabilità, sia a titolo di imperizia che ad altro titolo, perchè non ha tenuto alcun
comportamento rimproverabile.
La sentenza ripudia anche la interpretazione della norma secondo cui l’ambito della imperizia
esclusa dall’area della colpevolezza sarebbe quello che vede prodotto l’evento lesivo in una
situazione nella quale, almeno “in qualche momento della relazione terapeutica”, il sanitario
“abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate”.
Infatti, ove tale evento lesivo fosse legato causalmente ad un comportamento in sè connotato
da imperizia ed esulasse dall’ambito specificamente regolato dalle linee-guida adottate dal
sanitario nel caso concreto, sarebbero traditi, con l’applicazione della causa di non punibilità, lo
stesso principio costituzionale di colpevolezza e i connotati generali della colpa. Questa, pur
non estendendosi a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione di una
prescrizione, è tuttavia inscindibilmente connessa ai risultati che la regola mira a prevenire e,
soggettivamente, alla prevedibilità e prevenibilità oltre che, in sintesi, alla rimproverabilità.
In conclusione, per l’orientamento in esame, non è consentito invocare l’utilizzo di direttive non
pertinenti rispetto alla causazione dell’evento, per vedere esclusa la responsabilità colpevole,
non dovendosi per giunta dimenticare il carattere non esaustivo e non cogente delle linee-
guida.
La scelta contraria sarebbe in violazione dell’art. 32 Cost., implicando un radicale
depotenziamento della tutela della salute, e del principio di uguaglianza, ove stabilisse uno
statuto normativo irrazionalmente diverso rispetto a quello di altre professioni altrettanto
rischiose e difficili.
Secondo la sentenza De Luca-Tarabori, dunque, va escluso che il sintagma enunciativo della
“causa di non punibilità” possa davvero reputarsi riferibile dogmaticamente a tale istituto,
dovendo piuttosto essere inteso come un atecnico quanto ripetitivo riferimento al giudizio di
responsabilità con riguardo alla parametrazione della colpa.
Ne discende che, in primo luogo, va dato per certo che la nuova disciplina specificatrice dei
precetti generali in tema di colpa comunque non è destinata ad operare negli ambiti che, per
qualunque ragione, non siano governati da linee-guida, rientrando in questa ipotesi anche il
caso di linee-guida pertinenti ma aventi ad oggetto regole di diligenza o prudenza e non di
perizia; nè nelle situazioni concrete nelle quali le raccomandazioni dipendenti da quelle
debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o
per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate (la previsione
della possibile inadeguatezza, nella relazione terapeutica esecutiva, peraltro, è essa stessa
evidenza della impossibilità di qualificare la linea-guida come fonte di colpa specifica); nè in
relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico
regolato da linee-guida pertinenti ed appropriate (con riferimento, dunque, al momento della
scelta delle linee stesse), non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo.
Negli altri casi, il riferimento alle linee-guida è null’altro che il parametro per la individuazione-
graduazione-esclusione della colpa secondo le regole generali, quando quella dipenda da
imperizia.
Dal punto di vista del regime intertemporale, la previgente disciplina – che pure abrogata
continuerebbe ad operare se risultasse essere legge sostanziale più favorevole – appare avere
tale connotato alla stregua della novella del 2017. Essa infatti, come interpretata dalla
giurisprudenza maggioritaria di legittimità, introduceva una ipotesi di decriminalizzazione delle
condotte connotate da colpa lieve, a prescindere dal tipo di colpa, evenienza invece cancellata
dalla legge Gelli-Bianco, con la conseguenza della impossibilità di continuare a distinguere, per
i comportamenti futuri, ai fini della esclusione della responsabilità penale, la colpa lieve da
quella grave.

In chiusura, la sentenza De Luca-Tarabori auspica che possa continuare a rappresentare un
valido contributo la tradizione ermeneutica che accredita la possibile rilevanza, in ambito
penale, dell’art. 2236 cod. civ., quale regola di esperienza cui attenersi nel valutare, in ambito
penalistico, l’addebito di imperizia.

4.2. La sentenza Cavazza che sostiene l’orientamento opposto è della Sez. 4, n. 50078 del
19/10/2017, intervenuta in un caso di doppia pronuncia conforme di condanna, nei confronti di
un medico che aveva effettuato un intervento di ptosi (lifting) del sopracciglio, cagionando al
paziente una permanente diminuzione della sensibilità in un punto della zona frontale destra
per la lesione del corrispondente tratto di nervo. Tale decisione ha dichiarato la prescrizione del
reato rilevando che la condotta del sanitario, descritta dai giudici del merito come gravemente
imperita, non poteva godere della novella causa di non punibilità sol perchè nella motivazione
della sentenza non si affrontava il tema dell’eventuale individuazione di corrette linee-guida,
omissione non più emendabile per il sopravvenire della causa di estinzione; non poteva
neppure beneficiare della previsione liberatoria della legge Balduzzi, data la accertata “gravità”
della colpa e dell'”errore inescusabile”, come plasmato dalla giurisprudenza della Cassazione
con riferimento tanto alla scelta del sapere appropriato quanto al minimo di correttezza della
fase esecutiva.
In essa si sostiene il carattere innovativo e in discontinuità col passato, sul versante
penalistico, della legge Gelli-Bianco.
Questa viene recepita eminentemente in base al criterio della interpretazione letterale, il quale
evidenzia che si è voluta adottare una causa di esclusione della punibilità per la sola imperizia,
la cui operatività è subordinata al rispetto delle linee-guida ufficiali. Non manca, nella stessa
sentenza, l’inquadramento sistematico di tale conclusione, basato sulla considerazione della
finalità perseguita e cioè quella di attenuare specifici profili della colpa medica, favorendo tale
professione di cui il legislatore ha inteso diminuire l’ambito della responsabilità penale, ferma
restando quella civile.
Tale rispetto viene però preteso soltanto nella fase della selezione delle stesse, cosicchè resta
fuori dalla gamma delle condotte punibili la “imperita applicazione” di esse, cioè la imperizia
che cada nella fase esecutiva.
Si tratterebbe di una previsione, quella della non punibilità, che opera al di fuori delle categorie
dogmatiche della colpevolezza e della causalità colposa e trova giustificazione nell’intento del
legislatore di non vedere mortificata la professionalità medica dal timore di ingiuste
rappresaglie e, con una sola espressione, di prevenire la c.d. medicina difensiva.
5. Ritengono le Sezioni Unite che in ciascuna delle due contrastanti sentenze in esame siano
espresse molteplici osservazioni condivisibili, in parte anche comuni, ma manchi una sintesi
interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in
considerazione. Sintesi che richiede talune puntualizzazioni sugli elementi costitutivi della
nuova previsione, da individuare attraverso una opportuna attività ermeneutica che tenga
conto, da un lato, della lettera della legge e, dall’altro, di circostanze anche non esplicitate ma
necessariamente ricomprese in una norma di cui può dirsi certa la ratio, anche alla luce del
complesso percorso compiuto negli anni dal legislatore sul tema in discussione. Percorso al
quale non risultano estranei il contributo della Corte costituzionale nè gli approdi della
giurisprudenza di legittimità, di cui, dunque, ci si gioverà.
Infatti, val la pena osservare che il canone interpretativo posto dall’art. 12 preleggi, comma 1,
prevede la valorizzazione del significato immediato delle parole, di quello derivante dalla loro
connessione nonchè della “intenzione del legislatore”. E da tale disposizione – che va
completata con la verifica di compatibilità coi principi generali che regolano la ricostruzione
degli elementi costitutivi dei precetti – si evince un solo vincolante divieto per l’interprete, che
è quello riguardante l’andare “contro” il significato delle espressioni usate, con una modalità
che sconfinerebbe nell’analogia, non consentita nella interpretazione del comando penale. Non
gli è invece vietato andare “oltre” la letteralità del testo, quando l’opzione ermeneutica
prescelta sia in linea con i canoni sopra indicati, a maggior ragione quando quella, pur a fronte
di un testo che lascia aperte più soluzioni, sia l’unica plausibile e perciò compatibile col
principio della prevedibilità del comando; sia, cioè, il frutto di uno sforzo che si rende
necessario per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato, candidandosi così a dare
luogo, in presenza di una divisione netta nella giurisprudenza delle sezioni semplici, al “diritto
vivente” nella materia in esame.

Il tentativo di sperimentare una interpretazione costituzionalmente conforme è, d’altro canto, il
passaggio necessario e, se come nella specie concluso con esito positivo, ostativo
all’investitura della Corte costituzionale, in contrasto con quanto auspicato dal Procuratore
generale.
Ed è, quella anticipata, l’elaborazione che le Sezioni Unite intendono rendere, essendo proprio
compito, nell’esercizio della funzione nomofilattica, individuare il significato più coerente del
dato precettivo, anche scegliendo tra più possibili significati e plasmando la regola di diritto la
quale deve mantenere il carattere generale ed astratto.
Ciò, in altri termini, senza che sia riconducibile alla attività interpretativa che ci si accinge a
compiere un’efficacia sanante di deficit di tassatività della norma, non condividendosi il
sospetto che la scelta sulla portata normativa dell’art. 6 sia sospinta dalla esistenza di
connotati di incertezza e di imprevedibilità delle conseguenze del precetto, le quali, se
ravvisate, avrebbero condotto alla sola possibile soluzione di sollevare, nella sede propria, il
dubbio di costituzionalità.
6. E’ utile premettere, all’analisi degli enunciati delle due sentenze in contrasto, che la
ricostruzione del sistema di esenzione da pena della legge Gelli-Bianco usufruisce in maniera
consistente del dibattito già avviato su temi affacciatisi alla disamina della giurisprudenza e
della dottrina in relazione al decreto Balduzzi, essendo presente anche in questo la previsione
del raffronto del comportamento medico con il complesso di linee-guida o buone pratiche
oggetto di accreditamento da parte della comunità scientifica e scaturendo da esso la necessità
di confrontarsi col problema delle diverse forme di colpa generica.
6.1. Occorre ribadire che la valutazione da parte del giudice sul requisito della rispondenza (o
meno) della condotta medica al parametro delle linee-guida adeguate (se esistenti) può essere
soltanto quella effettuata ex ante, alla luce cioè della situazione e dei particolari conosciuti o
conoscibili dall’agente all’atto del suo intervento, altrimenti confondendosi il giudizio sulla
rimproverabilità con quello sulla prova della causalità, da effettuarsi ex post. Ma con la
ulteriore puntualizzazione che il sindacato ex ante non potrà giovarsi di una soglia temporale
fissata una volta per sempre, atteso che il dovere del sanitario di scegliere linee-guida
“adeguate” comporta, per il medesimo così come per chi lo deve giudicare, il continuo
aggiornamento della valutazione rispetto alla evoluzione del quadro e alla sua conoscenza o
conoscibilità da parte del primo. Attività, quella qui descritta, destinata a rimanere estranea al
pericolo di vedere confuso il giudizio sulla “adeguatezza” delle linee-guida (ex ante) con quello
sulle modalità e gli effetti della loro concreta “attuazione” che, essendo necessariamente
postumo, non è incluso fra i criteri di individuazione della condotta esigibile.
6.2. Nella stessa ottica di fissazione delle linee generali lungo le quali sviluppare la disamina
qui richiesta, va anche ribadita la consapevolezza della estrema difficoltà, che talvolta si
presenta, nel riuscire ad operare una plausibile distinzione tra colpa da negligenza e colpa da
imperizia. Distinzione comunque da non potersi omettere in quanto richiesta dal legislatore del
2017 che, consapevolmente, ha regolato solo il secondo caso, pur in presenza di un
precedente, articolato dibattito giurisprudenziale sulla opportunità di non operare la detta
differenziazione quando non espressamente richiesta dalla lettera della legge (come avveniva
per il decreto Balduzzi) per la estrema fluidità dei confini fra le dette nozioni.
La distinzione riacquista oggi una peculiare rilevanza perchè, nell’ipotesi di colpa da negligenza
o imprudenza, la novella causa di non punibilità è destinata a non operare; mentre la semplice
constatazione della esistenza di linee-guida attinenti al caso specifico non comporta che la loro
violazione dia automaticamente luogo a colpa da imperizia.
Si è già rilevato che non può escludersi che le linee-guida pongano regole rispetto alle quali il
parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza, come nel caso in cui
siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera della accuratezza di compiti magari
particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale (Sez. 4, n. 45527 del
01/07/2015, Cerracchio, non massimata sul punto).
E’ da citare il caso paradigmatico della omessa valutazione del sintomo e della conseguente
omessa o ritardata diagnosi: una ipotesi da ascrivere, di regola, all’imperizia per inosservanza
delle leges artis che disciplinano tale settore della attività sanitaria, salvo il caso che il
comportamento del sanitario sia improntato ad indifferenza, scelleratezza o comunque assoluta
superficialità e lassismo, sicchè possa escludersi di essere nel campo della negligenza propria
dell’agire del sanitario o specifica di esso e dunque della imperizia.

Il superamento di tali difficoltà che attengono, in genere, all’inquadramento del caso concreto
più che alle categorie astratte, va perseguito mediante il ricorso agli ordinari criteri sulla prova,
sul dubbio e sulla ripartizione dell’onere relativo che, nella fattispecie qui in discussione, hanno
condotto più che plausibilmente alla delineazione di un caso di negligenza, dal quale non vi è
ragione di prescindere, anche per mancanza di specifiche contestazioni sul punto da parte
dell’interessato. Con la conseguenza che anche la prospettazione della questione di legittimità
costituzionale sull’art. 590-sexies, da parte del Procuratore generale, è destinata a mostrare la
sua irrilevanza, non venendo in considerazione l’ipotesi della imperizia.

  1. Può ora entrarsi nel merito del contrasto giurisprudenziale.
    7.1. La sentenza Tarabori-De Luca ha il pregio di richiamare alla necessità di perimetrazione
    dell’ambito di operatività della novella, in modo da evidenziarne la notevole efficacia riduttiva
    rispetto al passato, pur non facendo a meno, nel prosieguo, di criticare in radice la eventualità
    stessa di trovarsi al cospetto di una vera e propria causa di non punibilità.
    E’ condivisibile la prima parte del ragionamento seguito, laddove si pongono in luce gli evidenti
    limiti applicativi alla causa di non punibilità enunciati dall’art. 590-sexies, posto che la
    dipendenza di questa dal rispetto delle linee-guida adeguate allo specifico caso in esame,
    nell’ipotesi di responsabilità da imperizia, non consente di sfuggire alla esatta osservazione che
    lo speciale abbuono non può essere invocato nei casi in cui la responsabilità sia ricondotta ai
    diversi casi di colpa, dati dalla imprudenza e dalla negligenza; nè quando l’atto sanitario non
    sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche; nè quando queste siano individuate
    e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con
    riferimento allo specifico caso. Evenienza, quest’ultima, comprensiva sia della ipotesi in cui la
    scelta è stata del tutto sbagliata, sia della ipotesi in cui la scelta sia stata incompleta per non
    essersi tenuto conto di fattori di co-morbilità che avrebbero richiesto il ricorso a più linee-guida
    regolatrici delle diverse patologie concomitanti o comunque la visione integrata del quadro
    complesso, sia, infine, della ipotesi in cui il caso avrebbe richiesto il radicale discostarsi dalle
    linee-guida regolatrici del trattamento della patologia, in ragione della peculiarità dei fattori in
    esame.
    Situazioni, quelle descritte, che danno conto della incompatibilità della novella con qualsiasi
    forma di appiattimento dell’agente su linee-guida che a prima vista possono apparire
    confacenti al caso di specie (e magari risultano, in rapporto al caso specifico, sbilanciate verso
    la tutela del generale contrasto del rischio clinico e quindi verso interessi aziendalistici
    piuttosto che verso la tutela della sicurezza della cura del singolo paziente) e
    conseguentemente con ipotesi di automatismo fra applicazione in tale guisa delle linee-guida
    ed operatività della causa di non punibilità.
    Una conclusione che consente anche di escludere che il precetto in esame possa essere
    sospettato di tensione col principio costituzionale di libertà della scienza e del suo
    insegnamento (art. 33 Cost.), come pure di quello dell’assoggettamento del giudice soltanto
    alla legge (art. 101 Cost.).
    Ciò posto, va tuttavia osservato che la sentenza richiamata commette l’errore di non rinvenire
    alcun residuo spazio operativo per la causa di non punibilità, giungendo alla frettolosa
    conclusione circa l’impossibilità di applicare il precetto, negando addirittura la capacità
    semantica della espressione “causa di non punibilità” e così offrendo, della norma, una
    interpretazione abrogatrice, di fatto in collisione con il dato oggettivo della iniziativa legislativa
    e con la stessa intenzione innovatrice manifestata in sede parlamentare. Senza considerare
    che la principale obiezione della sentenza in questione, e cioè la confusione della formulazione
    legislativa e la sua incongruenza interna, avrebbero dovuto trovare sfogo nella denuncia di
    incostituzionalità per violazione del principio di legalità.
    7.2. Dal canto suo, la sentenza Cavazza ha il pregio di non discostarsi in modo patente dalla
    lettera della legge, ma, per converso, nel valorizzarla in modo assoluto, cade nell’errore
    opposto perchè attribuisce ad essa una portata applicativa impropriamente lata: quella di
    rendere non punibile qualsiasi condotta imperita del sanitario che abbia provocato la morte o le
    lesioni, pur se connotata da colpa grave. E ciò, sul solo presupposto della corretta selezione
    delle linee-guida pertinenti in relazione al caso di specie, sì da rendere più che concreti i profili
    di illegittimità della interpretazione stessa, quantomeno per violazione del divieto costituzionale
    di disparità ingiustificata di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti che
    parimenti operano con alti coefficienti di difficoltà tecnica.

8. Invero, proprio a partire dalla interpretazione letterale, non può non riconoscersi che il
legislatore ha coniato una inedita causa di non punibilità per fatti da ritenersi inquadrabili – per
la completezza dell’accertamento nel caso concreto – nel paradigma dell’art. 589 o di
quello dell’art. 590 cod. pen., quando l’esercente una delle professioni sanitarie abbia dato
causa ad uno dei citati eventi lesivi, versando in colpa da imperizia e pur avendo individuato e
adottato, nonchè, fino ad un certo punto, bene attualizzato le linee-guida adeguate al caso di
specie.
8.1. Il comportamento dell’esercente la professione sanitaria oggetto di scrutinio è quello che
ha prodotto un evento causalmente connesso ad un errore colpevole, a sua volta dipendente
dalla violazione di una prescrizione pertinente. Sono destinati a rimanere esclusi i casi di eventi
lesivi o letali connessi a comportamenti in relazione ai quali la violazione di prescrizioni
potrebbe non essere per nulla ravvisabile o comunque potrebbe non essere stata qualificante,
avendo il sanitario, ad esempio, fatto ricorso, pur senza l’esito sperato, e fatti salvi i principi in
materia di consenso del paziente, a raccomandazioni o approdi scientifici di dimostrato,
particolare valore i quali, pur sperimentati con successo dalla comunità scientifica, non risultino
ancora avere superato le soglie e le formalità di accreditamento ufficiale descritte dalla legge.
8.2. La previsione della causa di non punibilità è esplicita, innegabile e dogmaticamente
ammissibile non essendovi ragione per escludere apoditticamente – come fa la sentenza De
Luca-Tarabori – che il legislatore, nell’ottica di porre un freno alla medicina difensiva e quindi
meglio tutelare il valore costituzionale del diritto del cittadino alla salute, abbia inteso ritagliare
un perimetro di comportamenti del sanitario direttamente connessi a specifiche regole di
comportamento a loro volta sollecitate dalla necessità di gestione del rischio professionale:
comportamenti che, pur integrando gli estremi del reato, non richiedono, nel bilanciamento
degli interessi in gioco, la sanzione penale, alle condizioni date.
Semmai, è da sottolineare che era il decreto Balduzzi, non messo in discussione dalla
giurisprudenza passata sotto il profilo della tecnica legislativa, ad agire sul terreno della
delimitazione della colpa che dà luogo a responsabilità, circoscrivendo la operatività dei principi
posti dall’art. 43 cod. pen. e dunque derogando ad essa, tanto che il risultato è stato ritenuto
quello della parziale abolitio criminis. Viceversa, la legge Gelli-Bianco non si muove in senso
derogatorio ai detti principi generali, bensì sul terreno della specificazione, ricorrendo
all’inquadramento nella non punibilità, sulla base di un bilanciamento ragionevole di interessi
concorrenti.
La possibile disparità di trattamento dovuta a tale opzione, rispetto ad altre categorie di
professionisti che pure siano esposti alla gestione di peculiari rischi, non è automaticamente
evocabile, una volta che l’intera operazione si riveli, anche per la delimitazione enucleata dallo
stesso precetto, non irragionevole ed anzi in linea con uno schema già collaudato dalla Corte
costituzionale (sent. n. 166 del 1973; ord. n. 295 del 2013).
Anche la modifica in senso limitativo, rispetto all’art. 3 del decreto Balduzzi, della esenzione da
pena ai soli comportamenti che causano uno degli eventi descritti dagli artt. 589 e 590 cod.
pen. fa ritenere più adeguatamente finalizzato il nuovo precetto al contrasto del sospetto – che
si materializzò con riferimento al citato art. 3 – di incompatibilità con il divieto costituzionale di
disparità di trattamento (art. 3 Cost.), data l’ampiezza allora reputata ingiustificata, dal giudice
che sottopose la norma allo scrutinio costituzionale, della platea dei soggetti che potevano
avvantaggiarsene.
Appare infatti oggi, diversamente che in passato, direttamente connesso, l’intervento
protettivo del legislatore, con la ragione ispiratrice della novella, che è quella di contrastare la
c.d. “medicina difensiva” e con essa il pericolo per la sicurezza delle cure, e dunque creare – in
relazione ad un perimetro più circoscritto di operatori ed atti sanitari che si confrontano con la
necessità della gestione di un rischio del tutto peculiare in quanto collegato alla mutevolezza e
unicità di ognuna delle situazioni patologiche da affrontare – un’area di non punibilità che valga
a restituire al sanitario la serenità dell’affidarsi alla propria autonomia professionale e, per
l’effetto, ad agevolare il perseguimento di una garanzia effettiva del diritto costituzionale alla
salute. 

  1. La formulazione della causa di non punibilità nell’art. 590-sexies sollecita dunque a
    sperimentare una interpretazione della norma che consenta di darle concreta applicazione.

Non è condivisibile, in senso ostativo, il rilievo contenuto nella sentenza De Luca-Tarabori,
anche sulla scia di una parte della dottrina, secondo cui la formulazione lessicale del precetto
creerebbe un corto circuito capace di renderlo inservibile.
La norma descrive un presupposto per la operatività della causa di non punibilità – quella del
versare, il sanitario, nella situazione di avere cagionato per colpa da imperizia l’evento lesivo o
mortale, pur essendosi attenuto alle linee-guida adeguate al caso di specie – che non è
incongruente con la soluzione che promette. Le fasi della individuazione, selezione ed
esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida adeguate sono, infatti, articolate
al punto che la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso giustifica ed è
compatibile tanto con l’affermazione che le linee-guida sono state nel loro complesso
osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante ciò, si
sia verificato, con valenza addirittura decisiva per la realizzazione di uno degli eventi descritti
dagli artt. 589 e/o 590 cod. pen..
Si tratta, d’altro canto, di una struttura del precetto che ricalca quella dell’art. 3 del decreto
Balduzzi il quale, allo stesso modo, ricavava un’area di irresponsabilità a favore del sanitario
che, pur rispettoso (“si attiene”) delle linee-guida, potesse riconoscersi in colpa nella
causazione dell’evento lesivo dipendente dalla propria professione. Una struttura, cioè,
metabolizzata dalla giurisprudenza che su di essa ha edificato un complesso apparato
ricostruttivo del precetto.
In tal senso, la sentenza Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, nel commentare la portata
dell’art. 3 del decreto Balduzzi, aveva osservato, con una affermazione utile anche
relativamente alla formulazione dell’art. 590-sexies, che “il professionista (che) si orienti
correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal
sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia,
nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento
delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello
specifico caso clinico” è l’agente che in base al decreto del 2012 non rispondeva per colpa
lieve.
9.1. L’errore non punibile non può, però, alla stregua della novella del 2017, riguardare – data
la chiarezza dell’articolo al riguardo – la fase della selezione delle linee-guida perchè,
dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle “adeguate”, qualsiasi errore sul punto,
dovuto a una qualsiasi delle tre forme di colpa generica, porta a negare l’integrazione del
requisito del “rispetto”.
Ne consegue che la sola possibilità interpretativa residua non può che indirizzarsi sulla fase
attuativa delle linee-guida, sia pure con l’esigenza di individuare opportuni temperamenti che
valgano a non esporre la conclusione a dubbi o censure sul piano della legittimità
costituzionale, per irragionevolezza o contrasto con altri principi del medesimo rango.
La ratio di tale conclusione si individua nella scelta del legislatore di pretendere, senza
concessioni, che l’esercente la professione sanitaria sia non solo accurato e prudente nel
seguire la evoluzione del caso sottopostogli ma anche e soprattutto preparato sulle leges artis
e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali; aggiornato in relazione non solo alle nuove
acquisizioni scientifiche ma anche allo scrutinio di esse da parte delle società e organizzazioni
accreditate, dunque alle raccomandazioni ufficializzate con la nuova procedura; capace di fare
scelte ex ante adeguate e di personalizzarle anche in relazione alle evoluzioni del quadro che
gli si presentino. Con la conseguenza che, se tale percorso risulti correttamente seguito e,
ciononostante, l’evento lesivo o mortale si sia verificato con prova della riconduzione causale al
comportamento del sanitario, il residuo dell’atto medico che appaia connotato da errore
colpevole per imperizia potrà, alle condizioni che si indicheranno, essere quello che chiama in
campo la operatività della novella causa di non punibilità.
Infatti, nel caso descritto, che è indispensabile contemplare per dare attuazione alla nuova
riforma, può dirsi che si rimanga nel perimetro del “rispetto delle linee guida”, quando cioè lo
scostamento da esse è marginale e di minima entità.
9.2. Viene di nuovo in considerazione, per tale via, la necessità di circoscrivere un ambito o, se
si vuole, un grado della colpa che, per la sua limitata entità, si renda compatibile con la
attestazione che il sanitario in tal modo colpevole è tributario della esenzione dalla pena per
avere rispettato, nel complesso, le raccomandazioni derivanti da linee-guida adeguate al caso
di specie.

Tanto più ove si consideri contestualmente che, come sottolineato nel parere espresso dalla
Commissione giustizia del Senato sul disegno di legge approvato dalla Camera in prima lettura,
il testo è volto ad assicurare una tutela effettiva della salute del paziente anche nello specifico
ambito del processo civile garantendogli il risarcimento dovutogli in base ad una sentenza,
attraverso una serie di strumenti disciplinati dall’art. 7, oltre, tra l’altro, la previsione del
sistema di assicurazione obbligatoria (art. 9) accompagnato dalla azione diretta nei confronti
della compagnia assicuratrice (art. 12).
A ciò va aggiunto che la contemplazione di un errore lieve (da imperizia) esente da sanzione
penale ha, come pendant e rafforzamento sul piano sistemico, all’interno della legge Gelli-
Bianco, la disciplina (art. 16) che favorisce i flussi informativi volti a far emergere le criticità
nel compimento della ordinaria attività professionale, onde elaborarle e superarle, con divieto
di utilizzazione di quei flussi nel processo penale: un insieme coordinato di regole, cioè,
finalizzato ad una gestione del rischio clinico sempre più responsabilizzante per la stessa
struttura organizzativa e senza la frustrante ricerca, in ogni caso, di un capro espiatorio.
E’ necessario peraltro sottolineare che non osta a tale scelta interpretativa l’obiezione di fondo,
scaturente dalla giurisprudenza passata in tema di esclusione della operatività in ambito
penale dell’art. 2236 cod. civ., nonchè da una parte dalla dottrina, secondo cui non è
consentita e comunque non ha senso la distinzione tra colpa lieve e colpa grave nel diritto
penale ove, applicando rigorosamente il criterio della valutazione ex ante ed in concreto il
giudizio di prevedibilità ed evitabilità proprio della colpa, sono già presenti tutti gli strumenti
per la risoluzione dei casi liminari, potendosi giungere, per essi, alla esclusione, in radice, della
ravvisabilità della colpa.
Invero, non solo la previsione esplicita della “colpa lieve” come ambito di esclusione della
responsabilità, nel decreto Balduzzi, ha dimostrato che è già stato legittimato, dal legislatore,
un approccio dogmatico diverso, apprezzabile non solo come opzione meramente interpretativa
o ricognitiva dei termini generali di definizione della colpa, ma come possibilità aggiuntiva di
misurazione di questa a fini diversi da quelli – già previsti dall’art. 133 cod. pen., comma 1, n.
3, – di commisurazione della pena. In più, l’interpretazione qui accolta, rispetto a quella
appena ricordata, è destinata ad ampliare il novero dei comportamenti che si sottraggono
legittimamente all’intervento del giudice penale e a far risaltare concretamente la intuibile
volontà del legislatore di proseguire lungo la direttrice segnata dal decreto Balduzzi;
soprattutto con la finalità di impedire che l’abrogazione di questo apra scenari di automatica
reviviscenza dei pregressi indirizzi interpretativi che, per la loro estrema severità nel passato,
sono all’origine del porsi del tema delle risposte difensive dei sanitari.
D’altra parte, il timore che la distinzione tra colpa lieve e colpa grave possa essere anche fonte
di scelte non prevedibili e ondivaghe, dipendenti dalla ampiezza della valutazione del giudice e
quindi in contrasto con la necessaria tassatività del precetto, non tiene conto che analogo
timore sarebbe ravvisabile, a monte, riguardo al giudizio sulla “esigibilità” della condotta, ossia
al momento valutativo, qualificante per la individuazione stessa della colpevolezza: timori da
sempre adeguatamente contrastati dalla complessa opera ricostruttiva, in seno alla dottrina e
alla giurisprudenza, riguardo ai criteri utili per la tendenziale definizione dei giudizi in esame e,
nella presente decisione, utilmente richiamati.
10. La ricerca ermeneutica conduce a ritenere che la norma in esame continui a sottendere la
nozione di “colpa lieve”, in linea con quella che l’ha preceduta e con la tradizione giuridica
sviluppatasi negli ultimi decenni. Un complesso di fonti e di interpreti che ha mostrato come il
tema della colpa medica penalmente rilevante sia sensibile alla questione della sua
graduabilità, pur a fronte di un precetto, quale l’art. 43 cod. pen., che scolpisce la colpa senza
distinzioni interne.
Dal punto di vista teorico non si individua alcuna ragione vincolante per la quale tale
conclusione debba essere scartata, diversamente da quanto ritenuto da entrambe le sentenze
che hanno dato luogo al contrasto.
Queste, peraltro, proprio sulla base di una conclusione di tal genere, fatta discendere dal
silenzio della legge, si sono trovate a polarizzare in modo opposto le relative conclusioni,
avendo osservato, la sentenza De Luca-Tarabori, che l’esonero complessivo da pena, destinato
ad inglobare anche il responsabile di colpa grave da imperizia, non è praticabile perchè genera
una situazione in contrasto con il principio di colpevolezza e, la sentenza Cavazza, che la
novella causa di non punibilità è destinata a operare senza distinzione del grado della colpa.

Al contrario, ritengono le Sezioni Unite che la mancata evocazione esplicita della colpa lieve da
parte del legislatore del 2017 non precluda una ricostruzione della norma che ne tenga conto,
sempre che questa sia l’espressione di una ratio compatibile con l’esegesi letterale e
sistematica del comando espresso.

10.1. In tale prospettiva appare utile giovarsi, in primo luogo, dell’indicazione
proveniente dall’art. 2236 cod. civ..
L’articolazione colpa grave/altre tipologie di condotte rimproverabili, pur causative dell’evento,
è presente nelle valutazioni giurisprudenziali sui limiti della responsabilità penale del sanitario
che, sotto diversi profili, hanno valorizzato nel tempo i principi e la ratio della disposizione
contenuta nella norma citata, plasmata, invero, nell’ambito civilistico del riconoscimento del
danno derivante da prestazioni che implichino soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà
e che lo esclude, appunto, salvo il caso di dolo o colpa grave.
Ebbene, tralasciando l’ormai sopito dibattito sulla non diretta applicabilità del precetto al
settore penale per la sua attinenza alla esecuzione del rapporto contrattuale o al danno da
responsabilità aquiliana, merita di essere valorizzato il condivisibile e più recente orientamento
delle sezioni penali che hanno comunque riconosciuto all’art. 2236 la valenza di principio di
razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il
caso concreto imponga la soluzione del genere di problemi sopra evocati ovvero qualora si
versi in una situazione di emergenza.
Ciò che del precetto merita di essere ancor oggi valorizzato è il fatto che, attraverso di esso,
già prima della formulazione della norma che ha ancorato l’esonero da responsabilità al
rispetto delle linee-guida e al grado della colpa, si fosse accreditato, anche in ambito
penalistico, il principio secondo cui la condotta tenuta dal terapeuta non può non essere
parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso
si è svolto (Sez. 4, n. 4391 del 12/11/2011, dep. 2012, Di Lella, Rv.251941; Sez. 4, n. 16328
del 05/04/2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Buggè, Rv. 237875;
Sez. 4, n. 1693 del 29/09/1997, dep. 1998, Azzini, non massimata sul punto). Sicchè
l’eventuale addebito di colpa era destinato a venire meno nella gestione di un elevato rischio
senza errori rimproverabili connotati da gravità. Viceversa, quando non si fosse presentata una
situazione emergenziale o non fossero da affrontare problemi di particolare difficoltà, non
sarebbe venuto in causa il principio dell’art. 2236 cod. civ. e non avrebbe avuto base
normativa la distinzione della colpa lieve. Ne conseguiva che il medico in tali ipotesi, come in
quelle nelle quali venivano in considerazione le sole negligenza o imprudenza, versava in colpa,
essendo pacifico che in queste si dovesse sempre attenere ai criteri di massima cautela.
Un precetto, quello appena analizzato, che mostra di reputare rilevante, con mai perduta
attualità, la considerazione per cui l’attività del medico possa presentare connotati di elevata
difficoltà per una serie imprevedibile di fattori legati alla mutevolezza del quadro da affrontare
e delle risorse disponibili. Sicchè, vuoi sotto un profilo della non rimproverabilità della condotta
in concreto tenuta in tali condizioni, vuoi sotto quello della mera opportunità di delimitare il
campo dei comportamenti soggetti alla repressione penale, sono richieste misurazioni e
valutazioni differenziate da parte del giudice.
Non è marginale, del resto, l’avallo dato a tale interpretazione da parte della Corte
costituzionale, con sentenza n. 166 del 1973, per taluni aspetti ribadita dalla ordinanza n. 295
del 2013. Un avallo cui, viceversa, va riconosciuta riacquisita rilevanza ai fini che ci occupano,
soprattutto a seguito della scelta, operata dalla legge Gelli-Bianco, di rendere la causa di non
punibilità operativa soltanto in relazione alla colpa da imperizia, pur dopo che, nel recente
passato, la giurisprudenza di legittimità applicativa del sopravvenuto decreto Balduzzi, aveva
invece mostrato di propendere per la estensione della irresponsabilità da colpa lieve a tutte le
forme di colpa generica. La prima pronuncia del Giudice delle leggi aveva, infatti, ammesso che
gli artt. 589 e 42 cod. pen. potessero essere integrati dall’art. 2236 cod. civ., così da
ricavarsene il principio, costituzionalmente compatibile, della graduabilità della colpa da
“imperizia” del sanitario impegnato nella soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e il
riconoscimento della possibilità di esenzione di una parte di essa dal rilievo pena listico.
La stessa sentenza De Luca-Tarabori evoca tale soluzione sia pure per presentarla come
strumento tecnico residuo per perseguire il pur meritevole fine di mandare esente da
rimproverabilità l’errore colpevole del sanitario contestato a titolo di imperizia.

10.2. In secondo luogo, è un dato di fatto che il legislatore del 2012 abbia espressamente
utilizzato e disciplinato l’ipotesi della “colpa lieve” del sanitario come quella da sottrarre, a
condizioni date, alla responsabilità penale.
Tale opzione legislativa prescindeva dalla pregiudiziale della dimostrata situazione di
particolare difficoltà tecnica ed era invece plasmata sul criterio della conformazione alle linee-
guida, con riferimento a situazioni che potevano sottrarsi alla repressione penale anche quando
non qualificate da speciale difficoltà. Con l’avvertenza che se, da un lato, tale ultima condizione
è quella che, di regola, ha minore attitudine a generare “colpa lieve”, dall’altro possono darsi
condotte del sanitario che, pur rientranti agevolmente in linee-guida standardizzate, risultano
di difficile esecuzione per la urgenza o per l’assenza di presidi adeguati.
Quella opzione ha dato luogo ad una cospicua elaborazione giurisprudenziale volta a fissare i
criteri utili per individuare preventivamente e, quindi, in sede giudiziaria riconoscere il grado
lieve della colpa, del quale – stante l’esplicito testo normativo sopravvenuto – non sembra
ragionevole negarsi la idoneità alla convivenza con i principi generali dettati dall’art. 43 cod.
pen..
Questi, peraltro, continuano ad avere piena applicazione con riferimento alla colpa da
negligenza e da imprudenza.
Basterà, al fine di dare pratica attuazione alla lettura dell’art. 590-sexies qui accreditata,
rievocare i canoni maggiormente condivisi nel recente passato, sollecitati dall’esigenza di
contrastare gli effetti di interpretazioni eccessivamente severe, nella cui filigrana traspariva
una non condivisibile tendenza a fare della relazione sanitaria una “obbligazione di risultato”,
laddove il fine di garantire la “sicurezza delle cure” ne ribadisce la natura di “obbligazione di
mezzi”.
E’ da ribadire, cioè, quanto già sostenuto in molte sentenze pubblicate sotto la vigenza del
decreto Balduzzi (tra le molte, Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105; Sez. 4,
n. 23283 del 11/05/2016, Denegri) in ordine al fatto che la colpa sia destinata ad assumere
connotati di grave entità solo quando l’approccio terapeutico risulti marcatamente distante
dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni
del paziente. Ovvero, per converso, quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono
delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un
dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla
peculiare condizione del paziente: come nel caso di “patologie concomitanti” emerse alla
valutazione del sanitario, e indicative della necessità di considerare i rischi connessi.
Nella demarcazione gravità/lievità rientra altresì la misurazione della colpa sia in senso
oggettivo che soggettivo e dunque la misura del rimprovero personale sulla base delle
specifiche condizioni dell’agente e del suo grado di specializzazione; la problematicità o
equivocità della vicenda; la particolare difficoltà delle condizioni in cui il medico ha operato; la
difficoltà obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche; il grado di atipicità e novità
della situazione; la impellenza; la motivazione della condotta; la consapevolezza o meno di
tenere una condotta pericolosa (oltre alle precedenti, Sez. 4, n. 22405 del 08/05/2015,
Piccardo, Rv. 263736; Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260740).
In altri termini, è da condividere l’assunto consolidato nella giurisprudenza di legittimità
secondo cui la valutazione sulla gravità della colpa (generica) debba essere effettuata “in
concreto”, tenendo conto del parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis, che è
quello del modello dell’agente operante in concreto, nelle specifiche condizioni concretizzatesi.
Meritano di essere ricordati, tali criteri, non sempre in relazione diretta al loro contenuto,
riferito anche alla rimproverabilità del momento di “scelta” delle linee-guida adeguate al caso
concreto che, come si è visto, esorbita dal perimetro di operatività della novella causa di non
punibilità. Piuttosto è utile richiamare l’elaborazione del metodo “quantitativo”, del quantum
dello scostamento dal comportamento che ci si sarebbe attesi come quello utile, per
determinare il grado della colpa.
La discrezionalità del giudice, ravvisabile nel dare pratica attuazione ai detti criteri nel contesto
del decreto Balduzzi che li connetteva a linee-guida e buone pratiche di non univoca
individuazione, risulta oggi drasticamente ricomposta attraverso la novella che riguarda il
procedimento pubblicistico per la formalizzazione delle linee-guida rilevanti.

Oltre a ciò, la circoscrizione, dovuta alla legge Gelli-Bianco, della causa di non punibilità alla
sola imperizia spinge ulteriormente verso l’opzione di delimitare il campo di operatività della
causa di non punibilità alla “colpa lieve”, atteso che ragionare diversamente e cioè estendere il
riconoscimento della esenzione da pena anche a comportamenti del sanitario connotati da
“colpa grave” per imperizia – come effettuato dalla sentenza Cavazza – evocherebbe, per un
verso, immediati sospetti di illegittimità costituzionale per disparità di trattamento ingiustificata
rispetto a situazioni meno gravi eppure rimaste sicuramente punibili, quali quelle connotate da
colpa lieve per negligenza o imprudenza; determinerebbe, per altro verso, un evidente
sbilanciamento nella tutela degli interessi sottesi, posto che la tutela contro la “medicina
difensiva” e, in definitiva, il miglior perseguimento della salute del cittadino ad opera di un
corpo sanitario non mortificato nè inseguito da azioni giudiziarie spesso inconsistenti non
potrebbero essere compatibili con l’indifferenza dell’ordinamento penale rispetto a gravi
infedeltà alle leges artis, nè con l’assenza di deroga ai principi generali in tema di
responsabilità per comportamento colposo, riscontrabile per tutte le altre categorie di soggetti
a rischio professionale; determinerebbe, infine, rilevanti quanto ingiuste restrizioni nella
determinazione del risarcimento del danno addebitabile all’esercente una professione sanitaria
ai sensi dell’art. 7 della legge Gelli-Bianco, poichè è proprio tale articolo, al comma 3, a
stabilire una correlazione con i profili di responsabilità ravvisabili ex art. 590-sexies cod. pen..
10.3. E’ indicativa, in terzo luogo, l’evoluzione dei lavori parlamentari.
L’originario testo della legge approvato dalla Camera mostrava di volere differenziare, ai fini
della esenzione da responsabilità, la colpa grave (da imperizia) dagli altri minori gradi della
(stessa tipologia di) colpa, in una prospettiva specifica. Nel senso, cioè, che la colpa non grave
(da imperizia) era automaticamente inclusa in detta esenzione anche a prescindere dal
raffronto con linee-guida, mentre quella grave dello stesso tipo lo era alla condizione del
rispetto delle stesse linee-guida.
La scomparsa della detta previsione dal testo successivamente passato al vaglio dell’altro ramo
del Parlamento non può però dirsi un ripudio tout court della differenziazione del grado della
colpa, non risultando in tal senso esplicitata la volontà del legislatore in alcun passo dei lavori
preparatori, quanto piuttosto, come auspicato nel citato Parere della Commissione Giustizia del
Senato, l’espressione della rinuncia a quella peculiare distinzione che si poneva come
tendenzialmente apparente e quindi fortemente a rischio di censura per incostituzionalità,
perchè garantiva una tutela eccessivamente e irragionevolmente estesa alla colpa tecnica del
sanitario in tutte le sue espressioni, essendo per di più, la esclusione della imperizia grave in
caso di rispetto delle linee-guida, conformata in una sorta di presunzione che poteva essere
vinta soltanto con la prova delle “rilevanti specificità del caso concreto”.
Si apprende, dai resoconti delle discussioni della Commissione giustizia del Senato del 7, 8 e
21 giugno 2016 – mostratasi interessata a cristallizzare certi approdi della giurisprudenza di
legittimità e a sollecitare una apposita riformulazione dell’art. 6 poi realizzata -, semmai un
reiterato ed esplicitato timore del legislatore che il comma 2 del precetto della legge in itinere
si prestasse, attraverso la condizione del rispetto delle linee-guida, ad una interpretazione
aperta alla esclusione della responsabilità penale anche per imperizia grave; evenienza non
perseguita, oltre che in aperta discontinuità con i principi del decreto Balduzzi, nel cui solco,
tanto nei lavori della Camera in prima lettura quanto in quelli del Senato, si dichiara di volersi
mantenere.
Specularmente, può dunque ammettersi che la colpa lieve è rimasta intrinseca alla
formulazione del nuovo precetto, posto che la costruzione della esenzione da pena per il
sanitario complessivamente rispettoso delle raccomandazioni accreditate in tanto si comprende
in quanto tale rispetto non sia riuscito ad eliminare la commissione di errore colpevole non
grave, eppure causativo dell’evento.
In conclusione, la colpa dell’esercente la professione sanitaria può essere esclusa in base alla
verifica dei noti canoni oggettivi e soggettivi della configurabilità del rimprovero e altresì in
ragione della misura del rimprovero stesso. Ma, in quest’ultimo caso – e solo quando
configurante “colpa lieve” -, le condizioni richieste sono il dimostrato corretto orientarsi nel
campo delle linee-guida pertinenti in relazione al caso concreto ed il progredire nella fase della
loro attuazione, ritenendo l’ordinamento di non punire gli adempimenti che si rivelino
imperfetti.
11. Sul quesito proposto devono quindi affermarsi i seguenti principi di diritto:

“L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali
derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:
a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;
b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non
è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella
scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del
caso concreto;
d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni
di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di
rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico”.
12. Il connesso tema concernente la individuazione della legge più favorevole, in dipendenza
dai principi posti dall’art. 2 cod. pen., comma 4, sulla successione delle leggi penali nel tempo,
trova il proprio naturale sviluppo raffrontando il contenuto precettivo dell’art. 590-sexies cod.
pen., come individuato, con quello dell’art. 3, abrogato.
Si enucleano soltanto i casi immediatamente apprezzabili.
In primo luogo, tale ultimo precetto risulta più favorevole in relazione alle contestazioni per
comportamenti del sanitario – commessi prima della entrata in vigore della legge Gelli-Bianco –
connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve, che solo per il decreto
Balduzzi erano esenti da responsabilità quando risultava provato il rispetto delle linee-guida o
delle buone pratiche accreditate.
In secondo luogo, nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve, che
sia caduto sul momento selettivo delle linee-guida e cioè su quello della valutazione della
appropriatezza della linea-guida era coperto dalla esenzione di responsabilità del decreto
Balduzzi (v. Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, non massimata sul punto), mentre
non lo è più in base alla novella che risulta anche per tale aspetto meno favorevole.
In terzo luogo, sempre nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve
nella sola fase attuativa andava esente per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non
punibilità in base all’art. 590-sexies, essendo, in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla
attività del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti
verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello
strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio.
Analogamente, agli effetti civili, l’applicazione dell’art. 3, comma 1, del decreto Balduzzi
prevedeva un coordinamento con l’accertamento del giudice penale, nella cornice dell’art. 2043
cod. civ., ribadito dall’art. 7, comma 3, della legge Gelli-Bianco. La responsabilità civile anche
per colpa lieve resta ferma (v. Sez. 3 civ., n. 4030 del 19/02/2013; Sez. 4 civ., ord. n. 8940
del 17/04/2014) a prescindere, dunque, dallo strumento tecnico con il quale il legislatore regoli
la sottrazione del comportamento colpevole da imperizia lieve all’intervento del giudice penale.
13. In ordine ai motivi di ricorso, deve rilevarsene la inammissibilità perchè diversi da quelli
che possono legittimamente fondare l’impugnazione dinanzi a questa Corte di legittimità. La
inammissibilità del ricorso impedisce, altresì, la rilevazione della prescrizione atteso che il
termine per la estinzione del reato non è più decorso dalla data della pronuncia della sentenza
impugnata, che non può dirsi seguita dalla valida instaurazione di un rapporto processuale in
prosecuzione.
13.1. La prima doglianza viene prospettata come vizio di motivazione anche nella forma del
travisamento della prova (quella dichiarativa della teste A.) con riferimento alla ricostruzione
dei fatti che precedettero il finale ricovero della persona offesa. In altri termini, posto che la
rimproverabilità della condotta del neurochirurgo, censurata dai giudici di merito come
ingiustificatamente manchevole, si fonda sull’assunto della sua piena consapevolezza dei
gravissimi sintomi neurologici, comunicatigli dallo stesso P. la mattina del 24 ottobre 2008, il
punto toccato dalla difesa è quello del mancato raggiungimento della prova – e a maggior
ragione di una plausibile motivazione – riguardo alla effettività e pienezza di detta conoscenza.
Per far ciò, il difensore ricorrente aggredisce la motivazione nel punto riguardante la asserita
attendibilità della persona offesa – che tanto ha sostenuto – nonchè il giudizio della Corte di
merito riguardo alla idoneità della testimonianza della A. a costituire valido riscontro e

comunque prova aggiuntiva della bontà del costrutto del denunciante: tale prova dichiarativa
sarebbe, sul punto, frutto di domande suggestive della accusa.
Si tratta di censure volte, in realtà, a criticare inammissibilmente il punto di vista accolto e
ampiamente motivato nella sentenza impugnata, sul piano della opinabilità piuttosto che su
quello della decisiva carenza o manifesta illogicità.
La evenienza di domande suggestive da parte del pubblico ministero risulta dedotta per la
prima volta con il ricorso e in nessun modo riesce a dare corpo a una ammissibile censura sulla
illogicità della motivazione riguardante la credibilità della teste, la quale è stata fondata su una
serie di ulteriori elementi di fatto valorizzati in sentenza e non contestati nel ricorso.
Anche il tema della prova oggettiva della effettiva manifestazione, sin dal 24 ottobre, dei
sintomi della cauda per i quali le linee-guida prescrivono un intervento di decompressione nelle
24-48 ore, risulta congruamente affrontato nella sentenza impugnata ove sono posti in
evidenza i numerosi e gravi elementi (la certificazione rilasciata dal dott. D.B.; la assoluta non
significatività della diversa data riportata nella relazione di dimissione del paziente dal C.T.O. di
Firenze l’11 novembre; il grado di recupero incompleto del paziente, dopo l’intervento, come
accertato dal c.t. della persona offesa) dimostrativi della correttezza della ricostruzione
sostenuta dalla accusa e del tutto razionalmente condivisa dai giudici, con una motivazione alla
quale la difesa ricorrente oppone soltanto diversi elementi di fatto, considerazioni congetturali
e, in definitiva, una alternativa ricostruzione di quelli, che è prospettiva non perseguibile nella
sede di legittimità.

13.2. Il secondo motivo è inammissibile per analoghe considerazioni.
La contestazione della motivazione sul nesso di causalità ha natura e valenza meramente
fattuali, fondandosi sul presupposto della preferibilità della tesi dell’imputato circa il momento
in cui ebbe effettivamente conoscenza della gravità dei sintomi e della condizione del paziente
e, conseguentemente spostata in avanti di una settimana tale evenienza -, sulla richiesta che
sia riconosciuta la assenza di qualsiasi rimproverabilità nelle sue scelte diagnostiche e
terapeutiche. Il tutto, con sollecitazione, altresì, del riconoscimento che il rapporto di causalità
con l’evento andrebbe ridelineato, dovendo esso essere riferito all’unica condotta colpevole
individuabile: quella della persona offesa che, pure invitata tempestivamente a recarsi al
pronto soccorso, avrebbe lasciato trascorrere numerosi giorni prima di sottoporsi all’intervento
chirurgico.
Ebbene, va ribadito che la proposta di alternativa ricostruzione delle emergenze fattuali non è
ricevibile dalla Cassazione, dovendosi piuttosto notare che il rapporto di causalità è stato
razionalmente delineato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, nel rispetto degli
approdi condivisi della giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002,
Franzese, Rv. 22213). Con riferimento, cioè, alla natura della patologia accertata; alla gravità
dei relativi sintomi che danno indicazione di intervento urgente nelle 48 ore secondo le
acquisizioni scientifiche non contestate nemmeno dalla difesa; al momento di acquisizione della
conoscenza dei sintomi da parte del sanitario cui il paziente si era affidato; al comportamento
gravemente negligente e ingiustificatamente omissivo, motivo dell’inescusabile ritardo che ha
dato luogo al non tempestivo riconoscimento della patologia, al suo aggravamento e
all’instaurarsi dei postumi neurologici accertati.
Un comportamento che la giurisprudenza costante di questa Corte inquadra nella cornice della
negligenza avendo il medico l’obbligo di seguire, appunto con diligenza, il decorso della
sintomatologia del paziente che a lui si affida ed essendo suo dovere assicurare, attraverso i
concordati controlli periodici, nonchè interpretando e valorizzando le sintomatologie riferite, o
comunque apprese, che l’intervento eventualmente richiesto con urgenza abbia luogo o venga
indicato come indifferibile, mediante le necessarie comunicazioni (vedi, tra le molte, Sez. 4, n.
40703 del 14/06/2016, Roggia, Rv. 267778).
14. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma che si reputa equo
determinare in Euro 2.000,00.
In virtù del principio della soccombenza, il ricorrente deve anche essere condannato alla
rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate, alla luce della nota
depositata, come in dispositivo.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di Euro 2.000,00 alla cassa delle ammende, nonchè alla rifusione delle spese
sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 4.000,00, oltre gli accessori
di legge.
Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2018

Corte Costituzionale sentenza numero 20 del 2 febbraio 2018 . La pensione privilegiata, è illegittima.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo
CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo
CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS,
Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, giudice unico delle pensioni, nel procedimento instaurato da R.A. C. nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 31 gennaio 2017, iscritta al n.
92 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente delConsiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 gennaio 2018 il Giudice relatore
Silvana Sciarra.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 31 gennaio 2017, iscritta al n. 92 del registro
ordinanze 2017, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, giudice unico delle pensioni, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto- legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.
1.1.– Il giudice rimettente espone di dover decidere sulla domanda di pensione privilegiata ordinaria, proposta da un dirigente medico e rigettata in sede amministrativa dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), sul presupposto che la cessazione dal servizio fosse intervenuta il 1° ottobre 2012, in data successiva all’abrogazione dell’istituto disposta dalla disciplina censurata.
Il giudice a quo esclude che il ricorrente possa beneficiare della
disciplina previgente, che continua a trovare applicazione soltanto «nei confronti del personale appartenente ai comparti sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico» e «ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai procedimenti per i quali, alla predetta data, non sia ancora scaduto il termine di presentazione della domanda, nonché ai procedimenti instaurabili d’ufficio per eventi occorsi prima della predetta data».
1.2.– Sulla base di tali premesse, il rimettente ritiene rilevante, e non superabile con una «interpretazione adeguatrice», la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 del d.l. n. 201 del 2011, che abroga anche per il ricorrente nel giudizio principale l’istituto della pensione privilegiata ordinaria.
1.3.– Il giudice a quo assume che tale disciplina contrasti con l’art. 3 Cost. sotto un duplice profilo.
La disposizione censurata, nel salvaguardare la pensione privilegiata ordinaria per isoli appartenenti ai compartisicurezza, difesa, vigili delfuoco e soccorso pubblico, determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento per la generalità dei dipendenti pubblici che, pur «in presenza della stessa
infermità», non possono più accedere a tale beneficio.
Per altro verso, l’art. 6 del d.l. n. 201 del 2011 si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., perché lesivo dei princìpi di ragionevolezza e proporzionalità. La disciplina censurata, «sostanzialmente priva di una stima dei risparmi di spesa indotti dalla abrogazione dell’istituto della pensione

privilegiata ordinaria per una parte di dipendenti pubblici (e non per la generalità)», sacrificherebbe irragionevolmente i diritti dei dipendenti pubblici esclusi da tale beneficio.
2.– Nel giudizio, con memoria del 18 luglio 2017, è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile e in subordine infondata la questione di legittimità costituzionale.
Quanto alla paventata disparità di trattamento, la difesa dell’interveniente esclude l’omogeneità delle situazioni poste a raffronto. La scelta di salvaguardare la pensione privilegiata per gli appartenenti ai comparti
sicurezza, difesa, vigili delfuoco e soccorso pubblico sarebbe sorretta da una giustificazione oggettiva, legata alla «diversità dei rischi immanenti all’attività propria dei singoli comparti» e al fatto che tali categorie, al contrario del personale civile pubblico, siano escluse «dalla tutela INAIL» (si richiamano i chiarimenti forniti dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni
sul lavoro – INAIL – nella nota del 13 febbraio 2012).
Peraltro, il ricorrente, già titolare di pensione di inabilità, non avrebbe potuto conseguire l’ulteriore beneficio della pensione privilegiata ordinaria, inragione del «divieto di cumulo di benefici erogati da Pubbliche Amministrazioni in caso di medesimo evento invalidante»: il ricorrente, pertanto, avrebbe dovuto rinunciare alla pensione di inabilità e optare per il trattamento privilegiato in esame. L’omessa considerazione di tale profilo, connesso all’interesse ad agire, potrebbe «eventualmente ricadere sulla
rilevanza della questione».
Quanto alla mancata stima dei risparmi, la difesa dello Stato richiama le considerazioni svolte nella sentenza n. 124 del 2017 con riguardo alla disciplina del limite alle retribuzioni pubbliche, racchiusa nello stesso d.l. n.201 del 2011. Dalla mancanza di una quantificazione precisa dei risparmi attesi non si potrebbe evincere l’irragionevolezza della disciplina censurata, allorché una credibile valutazione preventiva sia preclusa dalla molteplicità
delle variabili in gioco.
Nel caso di specie, la «stratificazione normativa» di precedenti misure restrittive in tema di pensioni privilegiate (art. 70 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la
perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), l’articolata disciplina transitoria prevista dalla norma censurata, la necessità di considerare l’applicazione del generale regime INAIL imporrebbero «una valutazione ex post deirisparmi dispesa».
Considerato in diritto
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, giudice unico delle pensioni, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.
La disposizione censurata abroga l’istituto della pensione privilegiata per la generalità dei dipendenti pubblici e conserva tale beneficio soltanto agli appartenenti «al comparto sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico».
Il rimettente denuncia il contrasto della disciplina in esame con l’art. 3 della Costituzione sotto un duplice profilo.
L’assetto delineato dal legislatore determinerebbe, in primo luogo, una irragionevole disparità di trattamento a danno della generalità dei dipendenti pubblici. Situazioni obiettivamente omogenee sarebbero assoggettate, senza alcuna giustificazione, a una disciplina differenziata: pur «in presenza della stessa infermità», la generalità dei dipendenti pubblici non potrebbe beneficiare di quella pensione privilegiata ordinaria che è attribuita, per contro, agli appartenenti «al comparto sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico».
Inoltre, la disposizione censurata contrasterebbe con il principio di ragionevolezza e di proporzionalità, in quanto, senza neppure richiamare le «contingenti situazioni finanziarie» e senza illustrare i risparmi di spesa derivanti dall’abrogazione dell’istituto della pensione privilegiata, sacrificherebbe in maniera arbitraria i diritti dei dipendenti pubblici esclusi da tale beneficio.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, per difetto di rilevanza, e ha argomentato, a tale riguardo, che la parte ricorrente nel giudizio a quo non potrebbe conseguire la pensione privilegiata, senza prima rinunciare alla pensione di inabilità che già le è stata attribuita. Difetterebbe, pertanto, l’interesse ad agire.
L’eccezione deve essere disattesa.
Questa Corte ha chiarito che «la rilevanza di una determinata questione va valutata, non già in relazione agli ipotetici vantaggi di cui potrebbero beneficiare le parti in causa, ma, piuttosto, in relazione alla semplice applicabilità nel giudizio a quo della legge di cui si contesta la legittimità costituzionale e, quindi, alla influenza che sotto tale profilo il giudizio di costituzionalità può esercitare su quello dal quale proviene la questione» (sentenza n. 344 del 1990, punto 2. del Considerato in diritto). Con argomentazione non implausibile, il rimettente osserva che la disciplina denunciata impedisce in radice l’accoglimento del ricorso e, in questa prospettiva, si coglie la necessità di fare applicazione della norma censurata, con la conseguente rilevanza del dubbio di costituzionalità prospettato.
3.– Le questioni non sono fondate.
3.1.– La disposizione censurata ha eliminato per la generalità dei dipendenti pubblici la pensione privilegiata, oggi riconosciuta soltanto al personale appartenente ai comparti sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico. A dire del rimettente, il trattamento deteriore riservato alla generalità dei dipendenti pubblicisarebbe privo di ogni giustificazione: «in presenza della stessa infermità», arbitrariamente diversa sarebbe la tutela
accordata dalla legge.
La censura di disparità di trattamento non è fondata.
La pensione privilegiata, che si atteggia come «una sorta di “riparazione”» per il danno alla persona riconducibile al servizio prestato (sentenze n. 241 del 2016, punto 6.1. del Considerato in diritto, e n. 43 del 2015, punto 4. del Considerato in diritto), è «un istituto previdenziale che attribuisce un trattamento speciale di quiescenza e perciò presuppone la cessazione del rapporto d’impiego» (sentenza n. 428 del 1993, punto 2. del Considerato in diritto).
L’art. 6 del d.l. n. 201 del 2011 ha accentuato i caratteri di specialità di tale trattamento di quiescenza, delimitando la platea dei beneficiari rispetto alla formulazione originaria, che includeva i dipendenti statali e i militari (articoli da 64 a 67 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, recante «Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato»).
La disciplina della pensione privilegiata, contraddistinta da una spiccata specialità sul versante oggettivo e soggettivo, non può assurgere a tertium comparationis, idoneo a giustificare l’estensione della normativa derogatoria a tutti i dipendenti pubblici.
Il regime speciale apprestato dal legislatore rispecchia la peculiarità dei comparti difesa, sicurezza, vigili del fuoco e soccorso pubblico, individuati secondo caratteristiche ragionevolmente omogenee, e si raccorda, per un
verso, al più elevato livello di rischio ordinariamente connesso al servizio svolto nei comparti indicati e, per altro verso, alla mancanza di una specifica tutela assicurativa contro gli infortuni per le infermità contratte dai dipendenti di talisettori.
Le situazioni poste a raffronto non si prestano, pertanto, a una valutazione comparativa, che imponga l’estensione della disciplina derogatoria a tutti i dipendenti pubblici.
3.2.– Il rimettente ravvisa un ulteriore profilo di contrasto con l’art. 3 Cost. nell’irragionevolezza della disciplina, introdotta senza una stima analitica deirisparmi attesi.
Neppure tali censure sono fondate.
3.2.1.– Alla carente illustrazione delle esigenze finanziarie e dei risparmi questa Corte conferisce ilrilievo di un indice sintomatico dell’irragionevolezza del bilanciamento di volta in volta attuato dal legislatore (sentenza n. 70 del 2015, punto 10. del Considerato in diritto). La valenza significativa di tale dato si inquadra, tuttavia, nell’àmbito di uno scrutinio più ampio, diretto a ponderare ogni elemento rivelatore dell’arbitrarietà e della sproporzione del sacrificio imposto agli interessi costituzionalirilevanti.
Nelsindacato demandato a questa Corte rivestono rilievo cruciale l’arco temporale delle misure restrittive, l’incidenza sul nucleo essenziale dei diritti coinvolti, la portata generale degli interventi, la pluralità di variabili e la complessità delle implicazioni, che possono anche precludere una stima
ponderata e credibile dei risparmi (sentenza n. 124 del 2017, punto 8.4. del Considerato in diritto).
3.2.2.– Nel caso di specie, il legislatore persegue l’obiettivo tendenziale di attribuire all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) la gestione della materia degli infortuni e delle malattie professionali dei dipendenti pubblici, con la particolare eccezione dei comparti sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 23 luglio 2013, n. 17895).
L’applicazione del nuovo regime è stata scandita secondo un percorso graduale, volto a salvaguardare le aspettative meritevoli di tutela. La relazione tecnica, allegata al disegno di legge di conversione del d.l. n. 201 del 2011 (A.C. 4829), prefigura «economie quantificabili solo a consuntivo» e puntualizza che «l’esclusione esplicita di alcune categorie di personale nonché la necessaria gradualità delle modalità di applicazione,
determina nel primo triennio effetti non puntualmente quantificabili tenuto conto, anche, dei tempi di liquidazione dei benefici previsti».
Il legislatore, con apprezzamento che si sottrae alle censure del rimettente, ha indicato in maniera puntuale gli ostacoli che si frappongono a una plausibile previsione dei risparmi e rendono ineludibile una valutazione «a consuntivo».
L’eliminazione della pensione privilegiata, attuata nell’àmbito di un
graduale disegno di armonizzazione, non contrasta, pertanto, sotto il profilo dedotto dal rimettente, con il generale canone di ragionevolezza, che si configura come «principio di sistema», chiamato a orientare le scelte del legislatore in materia previdenziale (sentenza n. 250 del 2017, punto 6.5.1.
delConsiderato in diritto).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, sollevate dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, giudice unico delle pensioni, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2018.
F.to:
Giorgio
LATTANZI,
Presidente
Silvana
SCIARRA,
Redattore
Roberto
MILANA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il
2 febbraio
2018.

La Cassazione ribalta la legge ?? La colpa del medico non deve essere provata dal paziente.

Corte  di  Cassazione,  sez.  III  Civile,  sentenza  13  settembre  –  9  novembre  2017,  n.  26517 Presidente  Travaglino  –  Relatore  Rossetti Fatti  di  causa 1.  Ma.  Lu.  Sp.,  Ra.  Za.  e  Fr.  Za.  nel  1994  convennero  dinanzi  al  Tribunale  di  Viterbo  Gi.  La., esponendo  – per  quanto  in  questa  sede  ancora  rileva  –  che: (-)  a  novembre  del  1990  Gi.  Za.  era  affetto  –  come  si  sarebbe  accertato  in  seguito  –  da  un  epitelioma  alle mucose  buccali; (-)  il  14.11.1990  si  fece  visitare  da  Gi.  La.,  dermatologo; (-)  Gi.  La.  non  solo  non  si  avvide  della  natura  maligna  della  malattia,  ma  consegnò  al  paziente  un  referto istopatologico  nel quale  si escludeva  la  presenza  di neoplasie; (-)  la  malattia,  non  tempestivamente  curata,  progredì  e  condusse  a  morte  Gi.  Za.,  che  decedette  il 23.8.1991. Dedussero  che  tale  condotta  del  sanitario  fu  imperita  e  negligente,  in  quanto  se  egli  avesse  saputo tempestivamente  diagnosticare  la  malattia,  essa  si  sarebbe  potuta  curare  più  prontamente,  e  più efficacemente. Chiesero  la  condanna  del  convenuto  al  risarcimento  dei  danni  rispettivamente  patiti  in  conseguenza  della morte  del  loro  congiunto. 2.  Gi.  La.  si  costituì  eccependo  che: (-)  quando  il  paziente  fu  da  lui  visitato  non  presentava  alcuno  dei  sintomi  tipici  dell’epitelioma,  ma  solo una  escoriazione  della  mucosa  dovuta  alla  protesi  dentaria; (-)  l’unica  prestazione  medica  da  lui  eseguita  fu  la  sutura  della  suddetta  escoriazione; (-)  non  aveva  mai  né  disposto,  né  eseguito,  alcun  esame  istopatologico  sui  tessuti  del  paziente; (-)  dopo  il  suddetto  intervento  non  ebbe  più  occasione  di visitare  il paziente. 3.  Il  Tribunale  di  Viterbo  con  sentenza  14  gennaio  2003  n.  42  accolse  la  domanda. La  Corte  d’appello  di  Roma,  adita  dal  soccombente,  con  sentenza  21  maggio  2013  n.  2917  rigettò  il gravame. Ritenne  la  corte  d’appello  che: (a)  la  storia  clinica  del  paziente  e  i  sintomi  da  questi  presentati,  al  momento  della  prima  visita  eseguita da  Gi.  La.,  avrebbero  dovuto  indurre  quest’ultimo  almeno  a  sospettare  la  possibilità  dell’esistenza  d’un epitelioma,  ed  a  disporre  quindi esami più  approfonditi; (b)  era  onere  del  convenuto,  in  applicazione  dei  principi  sul  riparto  dell’onere  della  prova,  dimostrare  di avere  eseguito  quell’esame,  ovvero  di  averlo  consigliato  al  paziente,  prova  che  invece  mancò. 4.  La  sentenza  d’appello  è  stata  impugnata  per  cassazione  da  Gi.  La.,  con  ricorso  fondato  su  due  motivi; resistono  con  controricorso  Ra.  e  Fr.  Za.,  anche  nella  veste  di  eredi  di  Ma.  Lu.  Sp.,  deceduta  nelle  more del  giudizio. Ragioni  della  decisione 1.  Questioni  preliminari. 1.1.  Va  preliminarmente  disattesa  la  richiesta,  compiuta  dal  Procuratore  Generale  nella  pubblica  udienza del  13  settembre  2017,  di  improcedibilità  del  ricorso,  sul  presupposto  che  ad  esso  fosse  allegata  una copia  incompleta  del  provvedimento  impugnato. Dall’esame  degli  atti,  infatti,  si  rinviene  allegata  al  fascicolo  del  ricorrente  una  copia  integrale  del provvedimento  impugnato. 1.2.  I  controricorrenti  hanno  eccepito  l’inammissibilità  del  primo  motivo  di  ricorso,  sul  presupposto  che nel  caso  di  cd.  “doppia  conforme”  non  è  prospettabile  in  sede  di  legittimità  il  vizio  di  omesso  esame  del fatto  decisivo, ai sensi dell’articolo  348  ter, quinto  comma, c.p.c. L’eccezione  è  infondata. Questa  Corte  ha  già  stabilito  che  le  regole  sulla  cd.  “doppia  conforme”,  di  cui  all’art.  348  ter  c.p.c.  si applicano  ai  giudizi  di  appello  introdotti  con  ricorso  depositato  o  con  citazione  di  cui  sia  stata  richiesta  la notificazione  dal  trentesimo  giorno  successivo  a  quello  di  entrata  in  vigore  della  legge  di  conversione  del decreto  che  le  ha  introdotte,  ossia  ai  giudizi  introdotti  in  grado  di  appello  dal  giorno  11  settembre  2012  in poi  (Sez.  5,  Sentenza  n.  26860  del  18/12/2014). Il  giudizio  di  appello  deciso  dalla  sentenza  oggi  in  esame,  invece,  venne  introdotto  nell’anno  2003, sebbene  si  sia  poi  concluso  soltanto  un  decennio  appresso. 2.  Il  primo  motivo  di  ricorso. 2.1.  Col  primo  motivo  di  ricorso  il  ricorrente  lamenta  che  la  sentenza  impugnata  sarebbe  affetta  dal  vizio di  omesso  esame  d’un  fatto  decisivo  e  controverso,  ai  sensi  dell’art.  360,  n.  5,  c.p.c.  (nel  testo  modificato dall’art.  54  D.L.  22  giugno  2012,  n.  83,  convertito  nella  legge  7  agosto  2012,  n.  134). Deduce,  al  riguardo,  che  la  Corte  d’appello  avrebbe  omesso  di  esaminare  il  “fatto  decisivo”  rappresentato dalla  circostanza  che  causa  del  decesso  del  paziente  fu  il  ritardo  diagnostico  e  terapeutico  in  cui  incorsero gli  altri  medici  che,  dopo  di  lui,  si  occuparono  del  caso. 2.2.  Il  motivo  è  infondato. La  Corte  d’appello  ha  esaminato  il  problema  del  nesso  di  causa  tra  la  condotta  ascritta  al  convenuto,  e  la morte  del  paziente,  a  p.  8  della  sentenza  impugnata,  affermando  che:  “l’esecuzione  di  un  esame istologico  [se  fosse  stato  disposto  dal convenuto]  avrebbe  permesso  di accertare  l’esistenza  della  malattia molto  prima  di  quanto  effettivamente  avvenuto”,  e  soggiungendo  che  “l’eventuale  concorso  anche maggioritario  dei  medici  successivamente  intervenuti  non  potrebbe  comportare  alcuna  riduzione dell’obbligo  risarcitorio  dell’appellante”,  in  puntuale  applicazione  dell’articolo  2055  c.c..  La  circostanza  di fatto  costituita  dall’esistenza  del rapporto  di causalità  tra  la  condotta  del convenuto, quella  degli altri medici  che  si  occuparono  del  causa,  e  la  morte  del  paziente,  è  stata  dunque  esaminata  dalla  Corte d’appello,  ed  il  vizio  di  omesso  esame  non  sussiste. Né,  ovviamente,  è  consentito  in  questa  sede  tornare  ad  esaminare  se  davvero  il  convenuto  abbia  o  non abbia  fornito  un  contributo  concausale  alla  produzione  dell’evento,  trattandosi  di  questione  squisitamente di  merito,  istituzionalmente  sottratta  all’esame  di  questa  Corte. 3.  Il  secondo  motivo  di  ricorso. 3.1.  Col  secondo  motivo  di  ricorso  il  ricorrente  sostiene  che  la  sentenza  impugnata  sarebbe  affetta  da  un vizio  di  violazione  di  legge,  ai  sensi  dell’art.  360,  n.  3,  c.p.c.  E’  denunciata,  in  particolare,  la  violazione dell’art.  2697  c.c.. Deduce,  al  riguardo,  che  la  Corte  d’appello  avrebbe  violato  le  regole  sul  riparto  dell’onere  della  prova, poiché: (-)  gli  attori  avrebbero  dovuto  dimostrare  che,  al  momento  in  cui  il  paziente  si  fece  visitare  da  Gi.  La.,  vi fosse  una  lesione  “ragionevolmente  interpretabile  come  anticamera  di una  situazione  patologica” tumorale,  e  tale  prova  era  mancata; (-)  la  Corte  d’appello  non  ha  “preso  posizione”  sul  referto  datato  10  gennaio  1991,  prodotto  e  poi sottratto  dagli  atti  di  causa,  il  quale  era  stato  da  lui  disconosciuto,  e  non  era  a  lui  riferibile. 3.2.  Il  motivo  è  infondato. Stabilire  se  determinati  sintomi,  ad  una  determinata  epoca,  siano  stati  correttamente  o  scorrettamente interpretati,  significa  accertare  se  il  medico  abbia  tenuto  una  condotta  negligente  o  diligente. Ma  l’accertamento  della  diligenza  della  condotta  del  medico  forma  oggetto  dell’accertamento  della  colpa, ed  in  tema  di  responsabilità  medica  non  è  onere  dell’attore  provare  la  colpa  del  medico,  ma  è  onere  di quest’ultimo  provare  di  avere  tenuto  una  condotta  diligente  (come  questa  Corte  viene  ripetendo  da  molti anni:  per  tutti,  in  tal  senso,  Sez.  3,  Sentenza  n.  589  del  22/01/1999). 3.3.  La  corretta  applicazione,  compiuta  dalla  Corte  d’appello,  dei  principi  sul  riparto  dell’onere  della prova,  rende  inconsistente  anche  il  secondo  profilo  di  censura. Il  ricorrente  si  ostina  a  ripetere  che  gli  attori  avevano  depositato  un  referto  istopatologico  a  lui  attribuito, dal  quale  risultava  una  diagnosi  benigna,  ma  che  lui  non  aveva  mai  sottoscritto  quel  documento,  poi sparito  dagli  atti. Tuttavia  che  un  referto  istopatologico  negli  atti  vi  fosse  o  non  vi  fosse;  ovvero  che  fosse  o  non  fosse riferibile  al  convenuto,  sono  questioni  che  non  toccano  la  posizione  degli  attori:  gli  attori  avevano  il  solo onere  di  allegare  la  colpa  del  convenuto;  questi  aveva  l’onere  di  provare  la  propria  assenza  di  colpa. E  il  convenuto  non  poteva  certo  provare  l’assenza  di  colpa  limitandosi  a  disconoscere  la  sottoscrizione  di quel  referto  istopatologico. Delle  due,  infatti,  l’una: –  se  il  referto  esisteva  e  lui  lo  firmò,  il  convenuto  è  in  colpa  per  avere  sbagliato  la  diagnosi; –  se  il  referto  non  esisteva,  il  convenuto  è  in  colpa  per  non  aver  suggerito  od  ordinato  esami  più approfonditi,  ovvero  per  non  avere  fornito  la  prova  (per  quanto  detto,  gravante  su  di  lui),  che  alla  data  in cui  visitò  il  paziente,  questi  non  presentava  alcun  sintomo  tale  da  suscitare  nemmeno  il  più  piccolo sospetto  che  fosse  affetto  da  una  patologia  tumorale. Correttamente,  pertanto,  la  Corte  d’appello  ha  trascurato  di  esaminare  il  problema  della  esistenza dell’autenticità  del  suddetto  referto. 4.  Le  spese. 4.1.  Le  spese  del  presente  grado  di  giudizio  vanno  a  poste  a  carico  del  ricorrente,  ai  sensi  dell’art.  385, comma  1,  c.p.c,  e  sono  liquidate  nel  dispositivo. 4.2.  Il  rigetto  del  ricorso  costituisce  il  presupposto,  del  quale  si  dà  atto  con  la  presente  sentenza,  per  il pagamento  a  carico  della  parte  ricorrente  di  un  ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo  unificato  pari  a quello  dovuto  per  l’impugnazione,  ai  sensi  dell’art.  13,  comma  1  quater,  D.P.R.  30  maggio  2002,  n.  115 (nel  testo  introdotto  dall’art.  1,  comma  17,  legge  24  dicembre  2012,  n.  228). P.Q.M. la  Corte  di cassazione: (-)  rigetta  il  ricorso; (-)  condanna  Gi.  La.  alla  rifusione  in  favore  di  Ra.  Za.  e  Fr.  Za.,  in  solido,  delle  spese  del  presente giudizio  di  legittimità,  che  si  liquidano  nella  somma  di  Euro  7.200,  di  cui  200  per  spese  vive,  oltre  I.V.A., cassa  forense  e  spese  forfettarie  ex  art.  2,  comma  2,  D.M.  10.3.2014  n.  55; (-)  dà  atto  che  sussistono  i  presupposti  previsti  dall’art.  13,  comma  1  quater,  D.P.R.  30.5.2002  n.  115, per  il  versamento  da  parte  di  Gi.  La.  di  un  ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo  unificato  pari  a  quello dovuto  per  l’impugnazione.

Condannato il marito che proibisce alla moglie di lavorare

 

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 6 – 31 ottobre 2017, n. 49997 Presidente Conti – Relatore Calvanese

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

1. Con la sentenza, indicata in epigrafe, la Corte di appello di Venezia ha parzialmente riformato la sentenza di condanna emessa nei confronti di B.A. per i reati di cui agli artt. 572 e 612 cod. pen., dichiarando per il secondo reato non doversi procedere perché estinto per difetto di querela e rideterminando la pena per il restante reato, nonché confermando le statuizioni civili. All’imputato era stato contestato di aver maltrattato la moglie, rendendole la vita impossibile, con ripetute percosse, minacce di morte e condotte di intimidazione psicologica e vessazione, atteggiamenti di umiliazione e svilimento, quali volerle impedire di svolgere attività lavorativa. 2. Ricorre per cassazione l’imputato, chiedendo l’annullamento della suddetta sentenza per violazione di legge, in quanto il quadro probatorio sarebbe basato soltanto sulle dichiarazioni della persona offesa, prive di riscontri esterni ed estremamente ondivaghe e generiche, quanto all’oggetto delle condotte illecite; difetterebbe inoltre l’abitualità dei comportamenti costituenti l’elemento oggettivo del reato, in quanto in 11 anni di convivenza sarebbero stati indicati dalla persona offesa solo pochissimi episodi, soltanto litigi e diverbi tra coniugi slegati tra loro, e sarebbero state pretermesse le deposizioni a favore dell’imputato, che definivano i coniugi una coppia normale, dando credito invece a testi che avevano riferito quanto appreso dalla stessa persona offesa, nonché si sarebbe dato adito a supposizioni prive di fondamento, là dove l’unica programmazione rinvenibile era quella della persona offesa di voler anteporre il lavoro alla famiglia; la Corte di appello avrebbe sussunto una errata concezione della famiglia tutelata dalla norma penale, avulsa dalla realtà (avendo la persona offesa scelto di vivere da single, senza legami, dedicandosi al lavoro, senza alcun obbligo nei confronti degli altri componenti del nucleo familiare e nei confronti del marito invalido); difetterebbe altresì l’elemento soggettivo, in assenza della prova di un programma criminoso animato da volontà unitaria di vessare la moglie (così enunciati i motivi nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.). 3. Il ricorso è da ritenersi inammissibile in ogni sua articolazione. Il ricorrente – a fronte di un duplice conforme specifico apprezzamento in fatto dei due Giudici del merito, sorretto da motivazione non apparente ed immune dai vizi che rilevano ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen. – si è limitato a proporre deduzioni difensive che si risolvono nella mera reiterazione di questioni già dedotte e risolte in sede di appello e nella sollecitazione ad una diversa valutazione del quadro probatorio, del tutto preclusa in questa sede di legittimità. Le censure si rivelano infatti aspecifiche, nella misura in cui non si correlano al tessuto argomentativo della sentenza impugnata, non consentite, là dove prospettano questioni di mero fatto, e comunque manifestamente infondate, per la evidente erroneità degli argomenti proposti. 3.1. Quanto alla prima e alla seconda censura è sufficiente osservare quanto segue. La Corte di appello ha puntualmente e correttamente proceduto alla verifica della attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e la pretesa del ricorrente che il riscontro delle stesse debba essere dotato di autonoma forza probatoria per tutti i singoli episodi non ha fondamento alcuno (altrimenti le dichiarazioni della persona offesa non avrebbero alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe comunque su tali elementi esterni). È principio oramai consolidato che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). Le stesse Sezioni Unite hanno altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, possa essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. La Corte di appello ha ben evidenziato per ogni episodio i riscontri esterni, ripercorrendo analiticamente tutte le dichiarazioni della persona offesa ed evidenziando le condotte abituali addebitate al ricorrente (ovvero aggressioni che fino al 2010 riguardavano gli oggetti e non la sua persona, per poi degenerare
nell’epoca successiva in minacce anche di morte, in percosse, in reazioni d’ira del ricorrente, in ritorsioni, nella violenza sugli oggetti, in pugni, in tirate di capelli, in occasione di continue discussioni che vedano il ricorrente adirarsi in particolare per gli impegni lavorativi della moglie, che lo stesso viveva problematicamente quanto alle modalità con cui la donna svolgeva il suo lavoro, con impegni non conciliabili, a suo avviso, con i rapporti familiari, tanto da stilare su una lavagna i giorni in cui avrebbero potuto pranzare assieme, con conseguente sue reazioni in caso in cui venissero disattesi gli accordi). La sentenza impugnata ha poi sottolineato come la donna fosse stata costretta a rifugiarsi da parenti e vicini per sottrarsi al ricorrente, tanto poi da prendere in affitto un appartamento temendo di essere aggredita nel sonno. La Corte di appello, nel ricostruire lo snodarsi degli eventi, ha evidenziato la risalenza nel tempo degli episodi di maltrattamenti (a partire dal 2011 con più atti di violenza e costanti minacce di morte alla persona offesa), e ha proceduto poi a rispondere dettagliatamente a tutti i rilievi difensivi, compresa la questione della attendibilità dei testi indicati dalla difesa, là dove gli stessi avevano tratteggiato una coppia serena o smentito le dichiarazioni della persona offesa. La Corte di appello ha in particolare dato logica e motivata spiegazione del perché le loro deposizioni non avevano rilievo. Ha poi fornito risposta sulle testimonianze de relato, rilevando come le eccezioni difensive fossero generiche e assertive. La stessa Corte ha ragionevolmente evidenziato sul punto come le condotte maltrattanti fossero avvenute tra le mura domestiche, quindi in assenza di diretti testimoni, e come chi le subisca tenti di conservare il rapporto familiare cercando di gestire la situazione, anche per paura di comprometterlo con denunce o temendo ritorsioni, confidandosi piuttosto con vicini o parenti dai quale ricevere aiuto in situazioni di emergenza. Sulla base di quanto in fatto ricostruito dalla sentenza impugnata, devono ritenersi all’evidenza infondate le critiche del ricorrente in ordine alla mancanza degli elementi tipici della fattispecie penale contestata, proponendo piuttosto le censure una rivisitazione del quadro probatorio, non consentita in questa sede. 3.2. Ad identiche conclusioni deve pervenirsi per il terzo motivo, in cui si prospetta una visione della vita familiare che dovrebbe giustificare i comportamenti posti in essere dal ricorrente. Nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari (tra tante, Sez. 6, n. 37019 del 27/05/2003, Caruso, Rv. 226794). Anche su tale punto la risposta della Corte di appello ad analoga questione versata dal ricorrente nell’appello appare quindi corretta. 3.3. La stessa Corte territoriale ha infine correttamente affrontato anche il tema dell’elemento soggettivo, ponendo in evidenza gli elementi dimostrativi del dolo generico. Nel reato abituale, il dolo non richiede infatti – a differenza che nel reato continuato – la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice (tra tante, Sez. 6, n. 15146 del 19/03/2014, D’A, Rv. 259677). 4. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della cassa delle ammende della somma a titolo di sanzione pecuniaria, che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro 3.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 in favore della cassa delle ammende.