Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 14-12-2010) 25-01-2011, n. 2406

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

La prima sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 13.5.2010, ha annullato con rinvio l’ordinanza del TdR di Roma del 24.7.2009, che aveva respinto la richiesta di riesame avanzata nell’interesse di T.A.V. e D.A., sottoposti a indagine, il primo con riferimento al delitto ex art. 416 bis c.p., il secondo del delitto ex artt. 110 e 416 bis c.p..

Rispondono anche dei delitti ex D.L. n. 306 del 1992, art. 513 bis e art. 12 quinquies e D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

Nel corso delle indagini, furono disposte ed eseguite intercettazioni telefoniche e ambientali.

La Corte di legittimità (sez. prima), ritenendo che non fosse stato dato conto – in relazione alla autorizzata utilizzazione di impianti collocati al di fuori degli Ufficio di Procura – della sussistenza, oltre che della inadeguatezza dei predetti impianti, anche della eccezionale urgenza, ha, sul punto, come premesso, annullato il provvedimento impugnato.

Ha annullato il predetto provvedimento anche per vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli estremi dei delitti contestati e delle esigenze cautelari.

Il TdR di Roma, in sede di rinvio, con ordinanza 2.8.2010, ha nuovamente rigettato la richiesta di riesame, confermando l’ordinanza custodiale GIP Roma 1.7.2009.

Ricorre per Cassazione il comune difensore di T. e D. deducendo sei motivi. a) violazione dell’art. 273 c.p.p., comma 1, in relaz.ne art. 416 bis c.p., D.L. n. 306 del 1992, artt. 513 bis e 12 quinquies e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e carenze dell’apparato motivazionale. I più importanti elementi a carico di T. e D. sono tratti dal contenuto delle conversazioni intercettate. Esse tuttavia non hanno quei caratteri di chiarezza e decifrabilità che devono assisterle, di talchè non può sostenersi che il compendio indiziario sia grave, preciso e concordante. Le conversazioni sono spesso incomplete, criptiche, frammentarie, tenute in dialetto calabrese.

Il testo riportato su carta non è una fedele trascrizione di quanto risulta dall’ascolto dei nastri registrati. L’interpretazione che ne dà il TdR è sempre in malam partem, anche quando sono possibili e molto più plausibili interpretazioni alternative. I collaboratori di giustizia riferiscono notizie vaghe, imprecise, contraddittorie e relative a un passato piuttosto remoto (gli anni 90). Il costrutto accusatorio contrasta con quanto emerso dalle indagini della DDA presso la Procura repubblica Napoli. Secondo tale organo inquirente, il controllo del mercato ortofrutticolo (MOF) di (OMISSIS) era tenuto dal clan camorristico dei casalesi e non certo dal T..

In particolare, da un lato, le intercettazioni rispecchiano normali contatti commerciali e anche ruvidi (ma legittimi) contrasti tra commercianti, dall’altro, non emerge affatto che il T. abbia atteggiamenti di minaccia, di prevaricazione e, meno che mai, espressivi di mafiosità.

Prova ne sia, ad es. che, nel contrasto che lo ha visto opposto a tale M.E., furono adite le vie legali.

Lo stesso ha, a seconda dei casi, a volte potuto imporre le sue condizioni, altre volte, ha dovuto, subire quelle dei suoi interlocutori, come quando, nel contattare il supermercato "AZ" di (OMISSIS), il T. ha dovuto assumere un atteggiamento sottomesso, non riuscendo nemmeno a parlare con i titolari.

Non si esclude che il ricorrente possa avere, a volte, assunto atteggiamenti improntati a una certa "guasconeria", ma si tratta di pure e semplici vanterie, tipiche di un individuo orgoglioso che indulge in atteggiamenti di autocompiacimento.

Per quanto riguarda il D., il ruolo di portatore di minacciosi messaggi del T. viene meno, ovviamente, in considerazione della penale irrilevanza della condotta di quest’ultimo e del fatto che, a una attenta analisi degli elementi a carico del D. stesso, essi si rivelano di nessuna consistenza.

Per altro, anche se le tesi sposate dal TdR fossero fondate, non per questo ricorrerebbero gli estremi del delitto ex art. 416 bis c.p. in quanto, perchè possa dirsi realizzato il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., occorre che la forza di intimidazione promani impersonalmente dalla struttura criminosa e la ipotizzata spendita del nome del solo T. non può rilevare. Dalle stesse argomentazioni del TdR, per altro, si evince che non si instaurò alcun clima di intimidazione. T.V. tratta direttamente con i suoi interlocutori e questa non è certo una condotta da boss mafioso. Le sue origini calabresi e il fatto che egli sia figlio di Domenico, considerato un esponente della ndrangheta, non bastano certamente per farlo ritenere colpevole del reato di associazione mafioso. Nè, d’altra parte, possono essere scambiate per alleanze mafiose quelli che sono meri rapporti personali b) violazione dell’art. 273 c.p., comma 1, in relaz.ne artt. 110 e 416 bis c.p., e carenza dell’apparato motivazionale. Con specifico riferimento alla posizione del D., si assume che lo stesso sarebbe stato un "portatore di ambasciate", ma, ad analizzare le dichiarazioni di B.C., F.G. e A.F., si giunge alla conclusione che gli stessi rendono versioni contraddittorie, scarsamente credibili, ovvero penalmente irrilevanti con riferimento al D.. In sintesi, secondo il Collegio cautelare, questo indagato avrebbe avuto il compito specifico di sollecitare con metodi spicci i debitori dei fratelli Pe. ovvero del T., ma, anche dall’esame delle conversazioni intercettate, non emergono modalità tali da far ritenere che il D. avesse usato violenza, minaccia o comunque avesse tentato di intimidire i suoi interlocutori. Insomma si tratta di vicende di nessuna valenza probatoria circa la utilizzazione di metodi mafiosi.

Per quanto specificamente riguarda la imputazione ex art. 513 bis c.p., sembrerebbe che essa sia stata "abbandonata" dal PM perchè non ve ne è traccia (per il D’Errigo) nella richiesta di rinvio a giudizio. c) violazione dell’art. 407 c.p.p., comma 3 e art. 419 c.p.p., comma 3, atteso che le dichiarazioni di Ba.Ca. sono inutilizzabili in quanto assunte dopo la conclusione delle indagini, ma prima della richiesta di rinvio a giudizio. Il giudice di rinvio ha risposto alla censura sostenendo che esse sarebbero state raccolte nell’ambito di un nuovo e non meglio specificato procedimento, ma così non può essere perchè dallo stesso interrogatorio del Ba. emerge che il PM chiede notizie dei fratelli T. e del MOF di (OMISSIS). d) violazione dell’art. 24 Cost., art. 270 c.p.p., commi 2 e 3 – art. 268 c.p.p., atteso che non risultano presenti nel CD audio fornito al difensore alcune conversazioni tra quelle intercettate. Al proposto il TdR ha osservato che, in base a quanto stabilito da Corte cost. sent. 336/08, il GIP può utilizzare e porre a base dell’ordinanza cautelare le intercettazioni, anche se contenute in brogliacci, ovvero riportate in forma riassuntiva, pur se non trascritte. Il fatto è che la medesima sentenza ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 268 c.p.p. nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza custodiate, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni delle conversazioni o comunicazioni intercettate utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento. e) violazione dell’art. 267 c.p.p., comma 1, art. 268 c.p.p., comma 3, art. 271 c.p.p., comma 1 e carenze dell’apparato motivazionale.

Le intercettazioni sono inutilizzabili in quanto i decreti autorizzativi non contengono un’adeguata motivazione. E’ certamente possibile la motivazione per relationem, ma il giudice non può limitarsi a rinviare agli atti redatti dalla pg, facendoli confluire acriticamente in un provvedimento giudiziario. La considerazione vale per la posizione di entrambi i ricorrenti, non potendosi ritenere sufficienti neanche le mere formule di stile (relative alla indispensabilità della prosecuzione della attività di intercettazione). Quanto all’utilizzo di apparecchiature collocate al di fuori degli Uffici di Procura (primo profilo di annullamento nella sentenza del 13.5.2010), il TdR, ancora una volta, non fornisce adeguata risposta circa i motivi di urgenza che avrebbero legittimato il ricorso a tale procedura;

f) violazione dell’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e carenze dell’apparato motivazionale, atteso che, quanto al reato sub HH), la sussistenza delle esigenze cautelari non può esser presunta, non essendo stata contestata – come si precisa – la aggravante ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7. Al proposito la giustificazione motivazionale manca del tutto. Sul punto dunque l’ordinanza va annullata.

Il 26.11.2010, è stata depositata memoria con allegata documentazione relativa alla procedura civile che ha visto la Società Finanziaria Costruzioni, vicina al T. (di pertinenza di P.F.), opposta a M.E., nonchè la trascrizione delle conversazioni telefoniche intercorse tra il T. e i dipendenti del supermercato "AZ".

MOTIVI DELLA DECISIONE Per una ragione che non è dato comprendere, i ricorrenti hanno (come del resto nel primo ricorso) posposto le censure in rito – da c) ad e) – alle altre.

Poichè con esse si contesta la utilizzabilità delle intercettazioni e delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Ba., sarebbe stato evidentemente più logico che tal tipo di censure, avesse avuto la precedenza nella esposizione dei motivi di ricorso, essendo le stesse potenzialmente dirimenti, nel senso che, se fondate, determinerebbero, di per sè sole, l’accoglimento del gravame, assorbendo le successive.

Tanto premesso e chiarito che, comunque, le censure proposte dai ricorrenti verranno da questo Collegio affrontate nell’ordine che si ritiene metodologicamente corretto, l’analisi dei motivi di ricorso deve prendere le mosse da quello sopra indicato sub c).

Con esso si assume che le dichiarazioni del collaborante Ba.

C. sono inutilizzabili perchè raccolte quando la fase delle indagini era ormai conclusa e non era ancora attivabile la procedura ex art. 430 c.p.p., che, come è noto, consente attività integrativa di indagine "successivamente alla emissione del decreto che dispone il giudizio".

Il TdR, investito della questione, ha replicato che la predetta normativa era, nel caso in esame, inapplicabile, dovendo, viceversa, trovare applicazione quella di cui all’art. 238 c.p.p., in quanto le dichiarazioni del Ba. furono rilasciate nell’ambito di altro procedimento penale.

La considerazione è esatta, con la precisazione, derivante dalla elaborazione giurisprudenziale (cfr. la citata decisione ASN 200949595-RV 245746), in base alla quale la preclusione ex art. 238 c.p.p. (che vuole che siano valutabili solo le dichiarazioni rese nell’incidente probatorio o nel dibattimento), non opera se le predette dichiarazioni vengono utilizzate a fini cautelari.

I ricorrenti sostengono che il diverso procedimento è un "non meglio specificato" procedimento, ma poi ne indicano il numero (62007/09 DDA Roma), che è, ovviamente, quello che si legge nel provvedimento del TdR che essi impugnano.

Lo stesso contenuto della censura, dunque, smentisce tale enunciazione, nè il fatto che, nel corso dell’interrogatorio del Ba., il PM abbia chiesto notizie anche sui fratelli T. muta i termini della questione, atteso che, a quanto si apprende, le indagini del predetto Ufficio inquirente erano, anche esse, relative a vicende interne al MOF di (OMISSIS) ed è dunque logico che mirassero ad acquisire anche informazioni circostanziali. D’altronde, come si è visto, sono gli stessi ricorrenti che sollevano il problema dei rapporti tra T. e i casalesi. La censura pertanto va considerata generica (e intrinsecamente contraddittoria) e, come tale, inammissibile.

La censura sub d) pone un problema che il TdR ha affrontato e risolto in maniera non corretta.

Non di meno la conseguenza non può essere quella auspicata dai ricorrenti. E’ infatti certamente pertinente affermare che, dopo la ricordata sentenza della Corte cost.le (336/08), sussiste il diritto del difensore di chiedere al PM il rilascio di copia dei DVD contenenti le videoriprese riguardanti il proprio assistito, così come sussiste l’obbligo del PM di provvedere in tempo utile, per consentirne la disamina in vista del riesame.

Sul punto, come è noto, si sono pronunziate le SS.UU. di questa Corte (sent. n. 20300 del 2010, ric. Lasala, RV 246907), le quali hanno chiarito che costituisce vero e proprio diritto delle difesa quello di ottenere la trasposizione fonica delle conversazioni intercettate e poste alla base delle richiesta (accolta) di misura cautelare.

Il diniego del PM (che è l’Organo cui la richiesta va inoltrata) comporta la "produzione" di nullità generale a regime intermedio.

La sentenza delle SS.UU. in questione, tuttavia, chiarisce (punto 7.3) che "il diritto di acquisizione della copia può concernere solo le intercettazioni in cui esiti captativi siano stati posti a fondamento della richiesta della emissione del provvedimento cautelare; non altri…".

Dunque, nel caso in esame, in primo luogo, non vi è stato diniego da parte del PM alla riproduzione fonica e consegna al difensore del testo delle conversazioni intercettate, ma incompleto "riversamento" su disco delle stesse; in secondo luogo, il ricorrente non ha chiarito come la mancanza proprio di quelle conversazioni abbia negativamente influito sul concreto esercizio del diritto di difesa.

Vale a dire: non è stata evidenziata la rilevanza, ai fini cautelari, delle conversazioni che, tra le tante, si assumono mancanti.

La censura, per tanto, è generica e, come tale, inammissibile;

generica essa era, evidentemente (essendo identica), anche quando fu proposta al TdR. Ora, per quel che si è detto, il TdR, al proposito, ha fornito la "risposta" sbagliata, ma ha comunque assunto la decisione esatta, dichiarando che non ricorreva la inutilizzabilità delle intercettazioni. Nè sussiste, a maggior ragione e per i motivi sopra specificati, la nullità del provvedimento cautelare.

Al proposito, va ricordato che, quando è censurata la applicazione di una norma processuale, non ha alcuna rilevanza, in sede di legittimità, il fatto che tale scelta sia stata, o non, correttamente motivata dal giudice di merito, atteso che, quando viene sottoposta al giudizio della Corte suprema la correttezza di una decisione in rito, la Corte stessa è giudice dei presupposti della decisione, sulla quale esercita il proprio controllo, quale che sia il ragionamento esibito per giustificarla. Ne consegue che la decisione, in sede di legittimità, prescinde dall’esame della motivazione, che tale opzione ha sorretto (ASN 200215124-RV 221322).

La censura sub e) è infondata nella sua prima parte, inammissibile nella seconda.

Per quanto riguarda la regolarità e completezza delle motivazioni poste a base dei decreti di autorizzazione o proroga della attività di intercettazione, non deve, ovviamente, farsi riferimento al decreto che, per indicazione dello stesso ricorrente è stato revocato (pag. 69-70 del ricorso). Di esso, deve ritenersi, si fa menzione semplicemente adcolorandum.

Quanto al decreto di proroga 12.11.2007 e ai decreti autorizzativi 30.11.2007, 24.1.2008, 14.5.2007, 26.11.2007, 8.11.2007, nonchè -sembrerebbe – a tutti quelli relativi alle utenze nella disponibilità del D., si osserva che, innanzi al TdR, oltre al predetto decreto di proroga (12.11.2007), il ricorrente aveva elencato altri decreti (rispetto a quelli sopra indicati), vale a dire, quelli in data 23.3.07 e 28.9.07.

Con riferimento ad essi, il Collegio cautelare aveva ritenuto infondata la doglianza, osservando che nel concetto di motivazione per relationem ben possono essere ricondotti quegli apparati argomentativi nei quali il giudicante, condividendo il ragionamento da altri formulato ed esplicitato, si limiti a richiamarlo, ovviamente ponendolo in relazione alla fattispecie concreta sottoposta alla sua attenzione.

Il principio fu, a suo tempo, con chiarezza, affermato da S.U., sent.

17 del 2000, ric. Primavera e altri, RV 216664 per la quale, come è noto, la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima se ricorrono tre condizioni (rinvio a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione, dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia ritenute coerenti con la sua decisione, conoscenza o conoscibilità – da parte dell’interessato – dell’l’atto di riferimento).

Orbene, i ricorrenti non contestano la sussistenza di nessuna delle tre predette condizioni, limitandosi ad affermare, del tutto genericamente, che non appare congruo che l’AG si richiami, per motivare un suo provvedimento, ad apparati argomentativi che altri soggetti, non giurisdizionali, hanno approntato.

Non può dunque che essere fornita -sia pure con riferimento alle altre conversazioni elencate dai ricorrenti- la medesima risposta già somministrata dal Collegio cautelare.

Per altro, specificamente in tema di intercettazioni, questa Corte, tornando sull’argomento, ha nuovamente statuito che, nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, legittimamente il decreto autorizzativo della attività di intercettazione emesso dal giudice può fondarsi su informative di polizia (ASN 201020262-RV 247209).

Si assume, poi, nel ricorso, che il provvedimento del giudice di rinvio non avrebbe fatto corretta applicazione del principio di diritto enucleato nella sentenza di annullamento con rinvio della prima sezione di questa Corte, annullamento intervenuto con riferimento all’utilizzo – per la attività di intercettazione- di impianti siti al di fuori della Procura della Repubblica.

Orbene, al proposito il giudice di rinvio ha chiarito che la formulazione della censura ha trovato suo fondamento in un equivoco, atteso che le intercettazioni sono state eseguite con apparecchiature presenti nel predetto ufficio giudiziario, anche se l’ascolto è stato, come si suoi dire, "emotizzato" e gli "strumenti" utilizzati, pur presenti, si ripete, nell’Ufficio di Procura, erano stato presi a noleggio.

Il TdR osserva al proposito, da un lato, che tale procedura non è affatto irregolare (e questo Collegio condivide sulla base di SU, sent. n. 36359 del 2008, ric. Carli, RV 240395), dall’altro, che ciò che rileva non è la proprietà dell’apparato, ma la sua localizzazione. E in tal senso, come ricordato nel provvedimento impugnato, si è anche espressa la giurisprudenza di legittimità (ASN 200545103-RV 232700).

La ratio della norma che impone – come regola, pur prevedendo un’eccezione – l’utilizzo di apparecchiature presenti presso l’Ufficio del PM è quella di evitare, per quanto possibile, che operazioni invasive della altrui sfera privata, avvengano, non solo senza la autorizzazione della dell’A3, ma anche al di fuori del suo diretto controllo. Se dunque l’attività di intercettazione è localizzata in Procura, non si vede quale rilievo possa avere il fatto che le apparecchiature utilizzate siano di proprietà di un privato.

Ebbene, di tutta tale problematica (e delle relative argomentazioni) i ricorrenti sembra non abbiano colto l’essenza, in quanto si limitano a ignorare – tamquam non essent – le parole che il TdR ha speso in proposito.

Evidentemente il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione sez. prima con la sentenza del 13.5.2010 fondava su di una situazione di fatto diversa da quella rappresentata dal TdR in sede di giudizio di rinvio.

La seconda parte della censura sub e) dunque, come si premetteva, è inammissibile per la sua aspecificità.

La censura nel suo complesso, deve ritenersi – in ragione di quanto già detto a proposito della sua prima parte – meritevole di essere dichiarata infondata.

Le censure sub a) e b) sono inammissibili in quanto sostanzialmente esse mirano a una rivalutazione delle emergenze fattuali che il TdR ha sottoposo a coerente vaglio interpretativo e che ha posto, tra loro, in collegamento non illogico.

Invero il Collegio cautelare:

a) prende in considerazione le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, e, tra queste, quelle del ricordato Ba., rilasciate in data recente (18.2.2010), il collaborante esplicitamente afferma che T.V. a (OMISSIS) "fa il bello e il cattivo tempo"; senza il suo consenso non si poteva lavorare nel MOF: egli infatti decideva anche con chi i commercianti e i trasportatori potessero avere rapporti. Il T., inoltre, aggiunge Ba., gli mandava messaggi attraverso il suo collaboratore, C.I..

Gli altri "pentiti" ( S.C. – esponente, come è noto, del clan dei casalesi – L.G., D.S.M.) anche tracciano un quadro che descrive il ricorrente come personaggio autorevolmente inserito nel network criminale, spalleggiato dal D. ( L.), influente nel MOF di (OMISSIS) ( D.S.), in contatto con il clan La Torre di Mondragone (zona della Campania, limitrofa al basso Lazio). I La Torre (a dire di S.), per operare su (OMISSIS), dovevano avere il consenso di T..

A riscontro delle dichiarazioni del casalese, il TdR, ricorda quanto emerso a proposito dei rapporti del T. con tale A. F., da S.A.. Al predetto il ricorrente comunicò che egli aveva conoscenze importanti in Campania ad es. con il clan di Mondragone e che quindi era bene per lui (per A.) che stesse ai patti (p. 22 intercettaz. 1050);

b) sottolinea come siano emersi significativi contatti tra il T. e personaggi importanti della malavita organizzata ( R. G., Z.N. – del quale T. avrebbe favorito la latitanza in (OMISSIS) – C.U., la cui frequentazione è stata fotograficamente documentata dagli inquirenti);

c) evidenzia come lo stesso possa far conto su di un certo gruppo di gregari: i già ricordati D.A. e C.I., portatori dei messaggi (le "ambasciate") non sempre rassicuranti del loro mandante, e poi P.G., B.G. (parlando col quale, il T. si ripromette di fare a pezzi una persona;

cfr. intecett. ambientale 9.6.2006 citata a pag. 20 del provvedimento);

d) descrive con dovizia di particolari la funzione di stabile nuncius criminalis svolta dal D. nei confronti delle vittime F., D.B., Be. (funzione che sembrerebbe avvicinarlo più a un associato pieno jure, per vero, che a un concorrente esterno). Il Be., in particolare, afferma che il T.V. gli aveva mandato "i suoi ragazzi", i quali avevano un "fare spavaldo", tanto che egli, alla fine si era deciso anche a fare dei "prestiti" al T. perchè intimorito dal suo modus operandi. Al proposito viene anche ricordato nel provvedimento ricorso il fatto che T.V. abbia messo il D. a disposizione di tale Te. (che ricompensa il D. con Euro 250). Il T., in oltre, comunica al Te. che, in caso di bisogno, D. e altre due persone sono a sua disposizione (in merito a ciò la Polizia ebbe ad accertare che nel medesimo albergo avevano soggiornato il D. e tali N.V. e M.G., pregiudicati calabresi);

e) ricostruisce – essenzialmente attraverso le conversazioni intercettate – la sfera di influenza del T. all’interno del MOF di (OMISSIS), chiarendo che lo stesso percepisce "una percentuale" del 12% sulle transazioni (cfr, pag. 9 dell’ordinanza, intercett.

4568) e descrivendo il rapporto che lo lega alla potente famiglia dei commercianti ortofrutticoli Pe., i quali, per parte loro, frequentemente "spendono il suo nome" (pag. 11 intercett. 697). E che non si tratti di una millanteria dei predetti, il TdR lo deduce, ad es., dalla intercett. 28212 (pag. 20), nella quale a Pe.

P., che non riesce a recuperare un credito da tale Pa.

R., il T. risponde che la cosa ricade sotto la sua autorità e che quindi bisogna aspettare il suo rientro a (OMISSIS).

Il Collegio cautelare poi, a tal proposito, ricorda come, sempre dalle intercettazioni, emerga, per stessa bocca del ricorrente che il T. ha imposto di servirsi della ditta di trasporto dei Paganesi (pag. 11 intercett. 697), chiarendo che costoro erano sotto la sfera di influenza del clan camorristico di Casal di Principe. E con ciò il provvedimento impugnato, affronta "in concreto" anche la problematica del rapporto tra gli esiti delle indagini a carico del T. e quelle gestite dalla DDA della Procura repubblica Napoli, evidenziando la esistenza di veri e propri accordi con i cosatesi (circostanza chiarita da Ba.), i quali garantirono la presenza dei calabresi all’interno del MOF fino a tutto il 2003 (e tuttavia dalle intercettazioni emerge che, almeno fino al 2008, T. non è certo un personaggio secondario nel MOF di (OMISSIS)).

Successivamente, scrive il TdR, lo stesso è costretto a un ridimensionamento, in quanto la ditta "La Paganese" (appoggiata dai casalesi, appunto) prende il controllo dei trasporti dalla Campania e dalla Sicilia.

A riprova dei buoni rapporti con i clan campani e della sua influenza nella predetta regione, il Collegio cautelare ricorda alcuni specifici episodi. Ricorda, tra gli altri, che, per intimidire tale Bu.Lu., il T. afferma che a Casal di Principe) egli è il primo tra gli amici (di chi comanda in zona) e gli nomina Z.V., gli nomina anche G.R. e alla vittima "un altro po’ gli pigliava un infarto… moriva" (pag 12 dell’ordinanza intercett. 254). In altra occasione, egli chiarisce – rileva il TdR- che con bu. vuole parlare pochi minuti con c., altrimenti è costretto a mandargli un’"ambasciata".

Afferma di aver parlato anche con il fratello della vittima e confida al suo interlocutore che costui stava davvero "soggezionato" (pag. 19 int. 8410).

Invero, il provvedimento impugnato – diffuso e puntuale- ricorda numerosi episodi che ritiene sintomatici della "mafiosità" dei ricorrenti. Esemplare è quello che vede vittima un tal Illuminato, concessionario auto di (OMISSIS). Costui, si legge nell’ordinanza, aveva venduto 18 auto, tramite l’autosalone (OMISSIS), a tal G.M.. La partita era stata pagata con assegni, risultati scoperti.

A tal punto il TdR ricorda come dagli atti del procedimento emerga l’intervento di T.V., che rimprovera l’Illuminato di aver fatto affari a (OMISSIS) senza il suo permesso. Lo minaccia, quindi, indirettamente, dicendo di essere armato e di avere "problemi con la polizia". La fa riaccompagnare al suo paese da C. I., che, durante il viaggio, lo avverte che T. è persona con molte importanti amicizie in Calabria, ma anche in Campania.

Sulla via del ritorno, i due, per iniziativa di C., si fermano a (OMISSIS) per far visita a un boss della camorra appena scarcerato, il quale consegna a C. regali destinati proprio a T.V..

Orbene, a fronte di tali e tante emergenze (altre ve ne sono, puntualmente illustrate dal Collegio cautelare nel suo provvedimento), il ricorso propone una lettura del tutto neutra delle conversazioni intercettate, quasi che esse possano esser considerate separatamente dagli altri elementi acquisiti al procedimento (e sopra illustrati).

Anche le espressioni più crude ed esplicite vengono, nella lettura dei ricorrenti, banalizzate, decontestualizzate e, per così dire, sezionate, nel tentativo di spogliarle della loro carica di minaccia o di esibito orgoglio criminale.

Il ricorso si incarica, dilungandosi per 63 delle complessive 75 pagine, di reinterpretare le conversazioni (telefoniche e ambientali) intercettate, proponendone, come si diceva, una lettura rassicurante, in base alla quale il T. sarebbe un semplice collaboratore della famiglia Pe., "delegato" ai rapporti con i commercianti e i trasportatori meridionali.

Si propone anche di ridimensionare la portata accusatoria delle dichiarazioni che alcune vittime hanno reso all’AG, assumendo che si tratta di menzogne o di esagerazioni (ma, ad es. si apprende che, per quanto riguarda l’episodio che ha visto come vittima l’ I., è intervenuto rinvio a giudizio).

Si tratta, evidentemente, di "operazione" non consentita innanzi al giudice di legittimità, in presenza di una motivazione, esibita dal provvedimento impugnato, compiuta e congrua (della quale si è dato conto nelle pagine precedenti).

Che le condotte sopra ricordate possano esser ritenute sintomatiche dell’appartenenza di chi le ha tenute a una associazione al tipo mafioso poi non è dubbio.

I ricorrenti hanno evidentemente una concezione "metafisica" di tali strutture malavitose. A loro modo di vedere, esse dovrebbero operare quasi senza contatto fisico con la realtà circostante, forti del loro prestigio criminale.

Di talchè si giungerebbe al paradosso che, quando la vittima è minacciata (o quando si ricorre ad atti di violenza intimidatoria:

es. l’incendio dell’auto di p.), non potrebbe mai parlarsi di societas sceleris di stampo mafioso – perchè, si dice, essa non ha bisogno di minacciare o di dare dimostrazioni di forza- e che quando, viceversa, lo scopo illecito è raggiunto senza minacce e senza condotte percepibili nel mondo fenomenico, esso non sarebbe mai percepibile ab extrinseco.

In realtà, l’esperienza giudiziaria insegna altro; insegna che anche le più potenti strutture malavitose "hanno bisogno", per affermarsi, specie in territori nei quali non sono storicamente radicate, di atti intimidatori e dimostrativi; la stessa esperienza insegna che, a volte, le vittime denunziano e che non sono certo tali denunzie a togliere – ex post – il carattere di mafiosità a una condotta o a una associazione. Il prestigio criminale, di cui si diceva sopra, deve essere, ovviamente, "acquisito sul campo".

La forza di intimidazione promana dalla struttura, ma anche dai singoli associati e, va da sè, dai vertici della struttura, i quali non perdono la loro "qualifica" – come credono i ricorrenti – per essere entrati in diretto contatto con le vittime.

La posizione che il provvedimento impugnato attribuisce al T. è quella di un mafioso, che, per un certo periodo, nel suo "feudo" è stato superiorem non recognoscens e che, quindi, quando i cosatesi hanno esteso il loro potere, ha dovuto accontentarsi di una collocazione di minor prestigio criminale, cosa che ha potuto fare anche grazie ai suoi buoni rapporti con la criminalità campana.

Nella ricostruzione di tale scenario criminale (che si fonda -come premesso – su concrete emergenze procedimentali), non può dirsi, per le ragioni sopra esposte, che il TdR sia caduto in errores in procedendo o in judicando.

A prescindere dalle formali attribuzioni di gradi e livelli all’interno della struttura criminale, ciò che è rimasto evidenziato in base al costrutto argomentativo del provvedimento impugnato è il metodo mafioso, metodo che non necessariamente è escluso dal ricorso alle vie legali, di talchè, nell’episodio M., la vittoria processuale della parte vicina al T., non vale a togliere significato alla condotta minacciosa (e dal TdR interpretata come mafioso), per la quale – si legge – è stato, oltretutto, già disposto il rinvio a giudizio.

Quanto alle esigenze cautelari (censura sub f), mentre devono, come è noto, ritenersi presunte (ex art. 275 c.p.p., comma 3) in relazione ai delitti ex art. 416 bis e 110 e 416 bis c.p., va ricordato che il TdR non si è comunque sottratto a una globale valutazione della personalità degli indagati, valutazione che emerge dall’intero ordito motivazionale e che è esplicitamente formulata a pag. 24 del provvedimento impugnato, con riferimento anche ai precedenti penali.

Ne consegue che, anche per i reati non connotati da mafiosità, la predetta valutazione risulta sufficientemente giustificata Conclusivamente i ricorsi meritano rigetto e i ricorrenti vanno singolarmente condannati al pagamento delle spese del procedimento.

Deve farsi luogo alle comunicazioni di cui all’art. 94 disp. att. C.p.p..

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento; manda alla Cancelleria per le comunicazioni ex art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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