Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
persona del Dott. MONETTI Vito che ha concluso per il rigetto.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Milano ha parzialmente riformato, ritenendo la continuazione fra i reati e rideterminando la pena, la sentenza in data 3 luglio 2009 del Tribunale di Lecco, appellata da G.J., che l’aveva giudicato responsabile dei delitti di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità e di violazione delle disposizioni della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di dimora, commessi il (OMISSIS). Propone ricorso per cassazione il prevenuto sulla base di quattro motivi.
Con il primo deduce violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento al rigetto dell’istanza di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento del difensore a presenziare all’udienza del 26 giugno 2009. Aveva presentato l’istanza a mezzo fax, e successivamente inoltrato l’originale a mezzo posta, con cui indicava tutti i procedimenti pendenti davanti a diverse autorità giudiziarie di Milano che gli avrebbero impedito di raggiungere Lecco per il dibattimento, fissato in prosecuzione; al fax era unita parziale documentazione, integrata in allegato all’originale trasmesso per posta, indicando anche i motivi per cui non era possibile una sostituzione. L’istanza era stata respinta e la difesa aveva sollevato eccezione nel corso del procedimento di primo grado.
La Corte d’appello sul relativo motivo di appello aveva rigettato l’eccezione con motivazione che il ricorrente ritiene insufficiente.
Da ciò deriverebbe la nullità dell’attività istruttoria del 26 giugno e del 3 luglio 2009, che aveva compreso anche l’esame dell’imputato, e delle sentenze di merito.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione sulla valutazione delle emergenze processuali e sull’identificazione dell’attuale imputato come la persona che era stata controllata dalla p.g. sulla strada ed aveva rilasciato le proprie indicazioni sull’identità personale.
Deduce anche difetto di motivazione sulla doglianza del gravame relativa alla revoca dell’ammissione di testi a difesa, citati e non comparsi, che avrebbero potuto corroborare le dichiarazioni difensive dell’imputato.
Con un terzo articolato motivo deduce erronea qualificazione del fatto da inquadrarsi nella previsione di cui all’art. 496 c.p. invece che in quella di cui all’art. 495 c.p. non essendo destinate le sue dichiarazioni a confluire in un atto pubblico. In ogni caso la Corte territoriale avrebbe errato nel non ritenere le sue dichiarazioni false scriminante dall’esigenza di evitare l’incriminazione per altro reato.
Con un quarto (indicato come 5^) motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione sulle condizioni legittimanti l’operatività di un aumento di pena per la recidiva e sulla mancata concessione delle attenuanti generiche. Il ricorso deve essere rigettato.
Infondata è la doglianza di cui al primo motivo.
Invero la Corte territoriale ha ampiamente giustificato la propria decisione, ripercorrendo i tempi ed i passaggi in cui si erano sviluppate le istanze di rinvio ed i provvedimenti del giudice, così da fondare la propria decisione su di un accertamento in fatto del tutto completo ed adeguato. In diritto ritiene il Collegio che la Corte di merito abbia correttamente applicato i principi elaborati in proposito dalla giurisprudenza e, da ultimo, dalle S.U. di questa Corte (cfr. Sez. U, sent. n. 29529 del 25/6/2009, Rv. 244109, ric.:
P.G. in proc. De Marino) secondo cui il difensore non deve limitarsi a documentare la contemporanea esistenza di un altro impegno professionale, ma deve fornire l’attestazione dell’assenza di un codifensore nell’altro procedimento e prospettare le specifiche ragioni per le quali non possa farsi sostituire nell’uno o nell’altro dei due processi contemporanei, nonchè i motivi che impongono la sua presenza nell’altro processo, in relazione alla particolare natura dell’attività che deve svolgersi, al fine di dimostrare che l’impedimento non sia funzionale a manovre dilatorie.
Come rilevato da questa Corte nella motivazione, la concomitanza dell’impegno in un altro procedimento può essere riconosciuta quale legittimo impedimento a comparire in udienza quando siano dimostrate, non solo l’esistenza dell’impegno, ma anche le ragioni che rendono indispensabile l’espletamento delle funzioni difensive in tale procedimento, correlate alla particolare natura dell’attività cui occorre presenziare ed alla mancanza o assenza di altro codifensore ed alla impossibilità di avvalersi di un sostituto, a norma dell’art. 102 c.p.p., sia nel procedimento al quale il difensore intende partecipare, sia in quello del quale si chiede il rinvio per assoluta impossibilità a comparire.
Come risulta dal ricorso stesso e come ha rilevato la Corte di merito, il difensore si era limitato ad elencare, in più riprese, gli impegni contemporanei di quel giorno e ad affermare, semplicemente, la propria impossibilità a farsi sostituire sia nel processo, con imputato detenuto, da celebrarsi a Lecco in orario pomeridiano, sia negli altri procedimenti indicati come contemporanei, senza che risultasse dimostrata un’impossibilità di sostituzione che, sola, si sarebbe potuta obiettivamente considerare come assoluta.
Da ciò la correttezza della valutazione del Tribunale e l’adeguatezza e legittimità della motivazione della Corte d’appello sul relativo motivo di gravame.
Il secondo motivo di impugnazione si risolve in inammissibili censure di merito della decisione impugnata.
Invero, la Corte d’appello ha esaminato e riportato le doglianze dell’appellante sulla validità dell’impianto probatorio che aveva portato alla sua individuazione come persona alla guida dell’auto controllata dalla polizia giudiziaria sulla strada ed alle conseguenti incriminazioni e le ha affrontate confutandole, sia con riferimento alle testimonianze degli operanti – che sono state analizzate nei motivi della loro attendibilità circa l’individuazione dell’imputato, con riguardo alle condizioni di luce in cui era stato visto al momento del controllo – sia confutando le prospettazioni alternative del prevenuto, anche con un particolare riferimento a circostanza di natura oggettiva, sulla localizzazione in zona di (OMISSIS), di un telefono cellulare utilizzato dalla sua convivente (e secondo i carabinieri presente con lui sull’auto) in orario contemporaneo al controllo su strada, che smentiva così le affermazioni del di lei padre che l’avrebbero collocata in zona diversa in sua compagnia e giustificato con un inesistente furto l’accertata presenza dell’auto di sua proprietà in (OMISSIS), dov’era stata controllata.
Non è compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione del compendio probatorio, sulla base delle prospettazioni del ricorrente, avendo questa Corte chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez. Un. n. 41476 del 25/10/2005, Misiano; Sez. Un. n. 6402 del 2.7.1997, Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. n. 930 del 29.1.1996, Clarke, rv. 203428). Non può quindi ravvisarsi nella sentenza impugnata nè un’errata applicazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, nè una mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), nè, a maggior ragione può ravvisarsi una violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 2, perchè la sentenza impugnata ha motivatamente valutato le censure degli appellanti, confutandone le prospettazioni probatorie, affrontando anche la questione relativa alla legittimità della revoca dell’ammissione di due testimoni della difesa ad opera del primo giudice.
E le doglianze al proposito del ricorrente sono infondate in quanto, come ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 2, sent. n. 9056 del 21/1/2009, Rv. 243306, ric.: Zerabib), l’art. 495 c.p.p., comma 4, conferisce al giudice il potere di revocare l’ammissione di prove che risultino superflue e tale potere, che viene esercitato sulla base delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, è ben più ampio di quello che al giudice è riconosciuto all’inizio del dibattimento, in un fase processuale caratterizzata dalla normale ignoranza che ha il giudice in ordine al fatto da giudicare, si che quest’ultimo, in tale fase iniziale, stante il diritto delle parti alla prova, può non ammettere le sole prove vietate dalla legge o quelle che manifestamente risultino superflue od irrilevanti (cfr., in termini, Sez. 4, sent. n. 36341 del 6/10/2005), mentre in un momento successivo ha la possibilità di valutare pienamente la completezza dell’istruttoria e considerare motivatamente quando si possa trattare di attività istruttoria del tutto superflua, come ha rilevato correttamente la Corte di merito nella sentenza impugnata.
Peraltro il ricorrente lamenta l’omessa audizione dei testi senza affermare, e men che meno riuscire a dimostrare, in che termini le loro dichiarazioni potessero, a fronte delle concrete acquisizioni istruttorie, essere decisive, nel senso di portare con certezza ad un esito assolutorio. Del tutto irrilevante a fronte di quanto sopra evidenziato, la doglianza relativa alla citazione di quei testimoni, peraltro eseguita per ragioni d’urgenza a cura del Pubblico Ministero. Infondate sono anche le prospettazioni in tema di qualificazione del fatto e di applicazione del principio nemo tenetur se detegere. di cui al terzo motivo.
Del tutto correttamente la Corte di merito ha ritenuto che le false dichiarazioni sulla propria identità fornite ai carabinieri nell’ambito di un controllo su strada, quando il prevenuto era stato trovato privo di documenti di identità e solo di un tesserino del codice fiscale, rivestissero quelle caratteristiche di vera e propria falsa attestazione che secondo la giurisprudenza di questa Corte, dopo l’eliminazione nel testo della norma del riferimento all’atto pubblico, costituisce l’elemento distintivo dell’ipotesi di cui all’art. 495 c.p., nel testo modificato dalla L. n. 125 del 2008, da quella di cui all’art. 496 c.p..
Esattamente i giudici del merito hanno rilevato che l’assenza di altri mezzi di identificazione della persona che si trovava alla guida dell’auto, per la mancanza di documenti, qualificava la dichiarazione delle generalità resa dal prevenuto come vera attestazione tesa a garantire ai pubblici ufficiali le proprie qualità personali.
In definitiva la Corte territoriale si è correttamente adeguata alla giurisprudenza di questa Corte, con perfetta adesione (anche grafica) alle argomentazioni della sentenza (Sez. 4, sent. n. 19963 del 15/4/2009, Rv. 244004, ric.: P.M. in proc. Asiedu Agnes Ntiamoah) che ha fissato i principi di cui sopra e che il Collegio ritiene di condividere, mentre non è comprensibile la censura del ricorrente che, asseritamente citando la medesima sentenza, afferma un principio che non risulta aderente al nuovo testo della norma e che non è affermato nella sentenza 19963/09, riferendosi ancora come elemento qualificante all’atto pubblico, e pretendendo poi che si consideri elemento discretivo quello dell’avvenuta interrogazione sulle generalità (che ricondurrebbe all’ipotesi di cui all’art. 496 c.p.), quando invece secondo la giurisprudenza quello della previa interrogazione non può considerarsi elemento specializzante, idoneo a vanificare la clausola di sussidiarietà contenuta nell’art. 496 c.p.. Privo di fondamento è poi che possa trovare applicazione nella specie la scriminante di cui all’art. 384 c.p., nella specie dell’autofavoreggiamento personale, in ossequio al principio del nemo tenetur se detegere.
Invero, come ha ritenuto giurisprudenza che il Collegio condivide (Sez. 5, sent. n. 34928 del 5/6/2007, ric. Serafino), non è richiamabile il principio nemo tenetur se detegere in relazione a comportamenti diversi che, autonomamente considerati, costituiscono l’adempimento di obblighi imposti a tutela di un diverso bene giuridico – nel caso di specie la genuinità delle attestazioni al p.u. sulle proprie generalità – e non confessione di reati (così Cass., Sez. 3, 20 marzo 1995 n. 4464). Il principio generale invocato dal ricorrente comporta (Sez. 5, sent. n. 22672 del 15/10/2004, ric.:
Liggi) la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva, il diritto di difesa non comprendendo anche il diritto di arrecare offese ulteriori.
Manifestamente infondata è infine la doglianza riguardante la motivazione sull’aumento di pena derivante dalla recidiva e la mancata concessione delle attenuanti generiche. Come ritiene giurisprudenza (Sez. 5, sent. n. 46452 del 21/10/2008, Rv. 242601, ric.: Carbone; Sez. 6, sent. n. 42363 del 25/9/2009, Rv. 244855, ric.: Dommarco) che il Collegio condivide, l’applicazione dell’aumento di pena per effetto della recidiva contestata attiene all’esercizio del potere discrezionale del giudice – fatti salvi i casi di operatività obbligatoria di cui all’art. 99 c.p.p., comma 5 – ma l’esercizio di tale potere va motivato soffermandosi in particolare sulla capacità della nuova azione costituente reato di manifestare una maggiore capacità a delinquere del colpevole, che giustifica l’aumento di pena. Il giudice è, quindi, tenuto a stabilire (Rv 129837) volta per volta se effettivamente la recidiva sia espressione di insensibilità etica e pericolosità, e giustifichi perciò la maggiore punizione del reo; o se, invece, per l’occasionalità della ricaduta, per i motivi che la determinano, per il lungo intervallo di tempo tra il precedente reato e il nuovo, per la diversità di indole delle varie manifestazioni delinquenziali, per la condotta in genere tenuta dal reo, quella pericolosità non sia riscontrabile.
Del tutto correttamente la Corte territoriale ha evidenziato, al proposito, come, oltre ad una condanna per traffico di stupefacenti, il prevenuto avesse riportato, nel periodo di circa due anni, cinque condanne per fatti analoghi a quelli per cui si procede, con ciò ponendo in risalto il numero e la significatività dei precedenti contestati sotto il profilo dell’art. 99 c.p. che, qualificando la personalità del G. come fortemente incline alla violazione del precetto penale, ne dimostrano l’insensibilità etica e la pericolosità e giustificano sia la maggiore punizione del reo, sia la mancata concessione delle attenuanti generiche, trattandosi di elementi ben valutabili anche ai sensi degli artt. 133 e 62 bis c.p..
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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