Cass. civ. Sez. V, Sent., 09-03-2011, n. 5580 Imposta di successione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I coeredi tutti di P.V.A. impugnavano l’avviso di liquidazione conseguente alla relativa denuncia di successione;

sostenevano che il valore dell’attivo ereditario, da riconoscere come base imponibile, era quello conseguente alle denunce correttive presentate, da ultima quella presentata coevamente al ricorso introduttivo. L’ufficio controdeduceva invocando il rispetto dei termini previsti per la presentazione delle denunce integrative.

L’adita Commissione Tributaria Provinciale accoglieva solo con riferimento al cespite indicato come sub 35 perchè trattatasi di immobile originariamente sfornito di rendita per il quale gli eredi si erano avvalsi della disposizione di cui alla L. n. 154 del 1988, art. 12; rigettava nel resto.

Proponeva appello l’Agenzia sostenendo che anche per tale immobile i coeredi avevano dichiarato il valore effettivo senza chiedere, al momento della presentazione della dichiarazione, che il valore fosse determinato in base alla rendita che sarebbe stata attribuita successivamente.

La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello. Contro quest’ultima sentenza, riportata in epigrafe, solo P.G. propone ricorso per cassazione articolato in un unico motivo;

l’ufficio controdeduce.

MOTIVAZIONE
Motivi della decisione

Con l’unico motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 346 del 1990, artt. 31, 33 e 34 nonchè la violazione dei principi generali in materia di retrattabilità delle dichiarazioni tributarie, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; ed il vizio della motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto non valida la denuncia di successione in rettifica presentata dagli eredi nel 1999. Ad avviso della controricorrente Amministrazione finanziaria, invece, la dichiarazione rettificativa presentata dai contribuenti contestualmente al ricorso avverso l’avviso di liquidazione era tardiva e quindi inidonea a modificare la base imponibile dei tributi ed in tal modo si era pronunciata la sentenza di primo grado.

Conseguentemente deve ritenersi inammissibile il ricorso su tale punto, essendosi oramai formato il giudicato a seguito della mancata impugnazione da parte dei contribuenti, e vertendo l’atto d’appello, proposto da esso ufficio, su altro. La censura svolta nel ricorso è inammissibile ed il ricorso va pertanto rigettato.

Va premesso che dalla sentenza impugnata e dalle controdeduzioni dell’Agenzia risulta accertato in fatto, e non contestato, che per il bene de quo (sub 35), in quanto privo di rendita catastale, era stato chiesto il beneficio della valutazione automatica ex L. n. 154 del 1988 e presentata denuncia di successione in rettifica (fuori termine). In proposito va, invero, rilevato che nella giurisprudenza di questa corte si è ormai ampiamente affermato il criterio della generale emendabilità della dichiarazione da qualsiasi errore di fatto o di diritto anche se non direttamente rilevabile dalla stessa dichiarazione. Emendabilità per un verso, resa possibile dalla stessa natura della dichiarazione tributaria, in quanto integrante non un atto negoziale e dispositivo ma una mera esternazione di scienza o di giudizio modificabile in ragione dell’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione; e, per altro verso, imposta dall’esigenza di non assoggettare il dichiarante ad oneri diversi e più gravosi di quelli che, per legge, devono restare a suo carico, in conformità con i principi costituzionali della capacità contributiva e dell’oggettiva correttezza dell’azione amministrativa, sanciti dagli artt. 53 e 97 Cost.. In virtù di tanto tale emendabilità è, di principio esercitabile senza altro limite temporale che quello derivante dell’esaurimento, provocato dal trascorrere del tempo o dal sopravvenire di decadenze del rapporto tributario cui inerisce la dichiarazione, e che, in assenza di tali evenienze, può esplicarsi anche dopo l’emissione del provvedimento impositivo, nel processo tributario secondo le regole di esso (cfr.

Cass. s.u. 14088/04, 17394/02, 15063/02 e Cass. 12791/04,8153/03).

L’indirizzo giurisprudenziale richiamato non è tuttavia applicabile al caso di specie nel quale, come pacifico, il ricorso introduttivo aveva fatto esplicito richiamo alla dichiarazione in rettifica tardiva, allegata al ricorso; l’ufficio aveva contestato la ricevibilità della stessa per tardività; la sentenza del giudice di primo grado aveva accolto la domanda solo con riferimento all’immobile n. 35 in virtù di altra e diversa motivazione (in quanto lo stesso era originariamente sfornito di rendita e gli eredi ne avevano richiesto la c.d. valutazione automatica); l’appello era stato proposto solo dall’ufficio. In vero, come risulta dall’impugnata sentenza, l’ammissibilità della dichiarazione in rettifica tardiva, – oggetto in primo grado sia di specifica doglianza da parte dei contribuenti, che di eccezione da parte dell’ufficio, che di esame da parte del primo giudice -, non ha formato oggetto di censura innanzi al giudice dell’appello, nè, (secondo quanto è dato conoscere al giudice di legittimità per il principio di autosufficienza) di specifica riproposizione da parte degli eredi, così rimanendo totalmente estranea al giudizio di appello. In forza delle considerazioni è inammissibile la censura svolta in questa sede con la quale la ricorrente si duole che " la Commissione Tributaria Regionale ha omesso qualsiasi valutazione in ordine alla denuncia di successione in rettifica (allegata al fascicolo di parte innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale)".

Viene così obliterata sia la natura devolutiva dell’appello, in virtù della quale viene devoluto al giudice dell’appello solo l’esame dell’oggetto della domanda e dei punti specifici dell’impugnazione ( D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53), sia il disposto di cui all’art. 346 c.p.c. – applicabile al processo tributario in forza del disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 61 -, come interpretato costantemente da questa Corte che ha affermato (ex plurimis: Cass n. 14673 del 2009 anche se su diversa fattispecie;

conf. n 6965 del 2010): "La disposizione dell’art. 346 c.p.c., secondo cui le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado si intendono rinunciate se non espressamente riproposte in appello, è dettata per la parte vittoriosa, la quale, non onerata dall’impugnazione per difetto di interesse, deve tuttavia riproporre specificamente nell’atto di costituzione in secondo grado, oltrechè le domande, le questioni non accolte dal primo grado, tra cui i fatti che per il loro rilievo giuridico siano serviti a contrastare l’altrui pretesa, come quelli giustificativi del licenziamento impugnato dal lavoratore". Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese vengono regolate come in dispositivo in applicazione del principio della soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese di giudizio che liquida in Euro 5000,00 delle quali Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e competenze come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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