Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. – Con decreto del 3 gennaio 2007, la Corte d’Appello di Roma ha accolto la domanda di equa riparazione proposta da L.C. nei confronti del Ministero della Giustizia per a violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio dinanzi al Tribunale di Nola, promosso dalla L. nei confronti del Ministero dell’Interno per il riconoscimento del diritto alla pensione di invalidità civile.
Premesso che il giudizio, iniziato nel 2001, non era ancora stato definito in primo grado, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ne ha determinato la ragionevole durata in due anni e sei mesi, avuto riguardo alla complessità del procedimento, e, tenuto conto dei parametri adottati dalla Corte Europeo dei Diritti dell’Uomo, nonchè dello stress e del patema d’animo sofferti dalla ricorrente, ha liquidato il danno non patrimoniale in Euro 2.600,00, corrispondenti ad Euro 1.200,00 per ogni anno di ritardo.
2. Avverso il predetto decreto la L. propone ricorso per cassazione, articolato in tredici motivi. Il Ministero resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. – Con il primo, il terzo ed il quarto motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89 e dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha riconosciuto l’indennizzo soltanto per il periodo di tempo eccedente la ragionevole durata del processo, anzichè per l’intera durata del giudizio presupposto, astenendosi dal disapplicare le norme interne contrastanti con la Convenzione e contravvenendo ai principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
1.1. – I motivi sono infondati.
Ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), infatti, l’indennizzo per la violazione del termine di ragionevole durata del processo non dev’essere correlato alla durata dell’intero processo, ma al solo segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole, tale criterio di calcolo appare non solo conforme al principio enunciato dall’art. 111 Cost., il quale prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza, ma, come riconosciuto dalla stessa Corte EDU nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, non si pone neppure in contrasto con l’art. 6, par. 1, della CEDU, in quanto non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione (cfr. Cass. Sez. 1, 23 novembre 2010, n. 23654:
14 febbraio 2008, n. 3716).
2. – E’ parimenti infondato il secondo motivo d’impugnazione, con cui il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha determinato in due anni e sei mesi la durata ragionevole del processo, omettendo di tener conto delle esigenze di celerità connesse alla trattazione dei procedimenti in materia previdenziale, che hanno indotto la giurisprudenza a determinarne la durata ragionevole in due anni per il primo grado.
2.1. – Nella determinazione della ragionevole durata del processo, la Corte d’Appello si è intatti attenuta ai criteri cronologici elaborati dalla Corte EDU, alle cui sentenze, riguardanti l’interpretazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU deve peraltro riconoscersi, secondo l’orientamento ormai consolidato di questa Corte, soltanto il valore di precedente, non rinvenendosi nel quadro delle fonti dell’ordinamento interno meccanismi normativi che ne comportino la diretta vincolatività per il giudice italiano (cfr.
Cass. Sez. 1^, 19 novembre 2009, n. 24399: 11 luglio 2006, n. 15750).
La natura previdenziale della causa non è d’altronde sufficiente a giustificare l’applicazione di un termine ridotto di durata, in quanto la disciplina del processo del lavoro, applicabile a tali controversie, non comporta forme di organizzazione diverse, tali da differenziarne il corso in relazione all’oggetto del giudizio, e non impone quindi di fare riferimento a parametri diversi dagli standards comuni elaborati dalla Corte EDU e recepiti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, (cfr. Cass. Sez. 1, 30 ottobre 2009, n. 23047: 24 settembre 2009, n. 20546).
3. Sono altresì infondati il quinto, il sesto ed il settimo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso, rilevando che la Corte d’Appello ha omesso di pronunciare in ordine alla domanda di riconoscimento del limite di Euro 2.000,00 dovuto in relazione alla natura del giudizio presupposto, avente ad oggetto un credito previdenziale, senza fornire alcuna motivazione.
3.1. – L’inclusione delle cause di lavoro e di quelle previdenziali nel novero di quelle per le quali la Corte EDU ha ritenuto che la violazione del termine di ragionevole durata possa giustificare il riconoscimento di un importo forfetario aggiuntivo, in ragione della particolare importanza della controversia, non significa infatti che delle cause debbano necessariamente considerarsi particolarmente importanti, con la conseguente automatica liquidazione dei predetto maggior indennizzo. Ne consegue da un lato che il giudice di merito può tener conto della particolare incidenza del ritardo sulla situazione delle parti, che la natura giuslavoristica della controversia comporta, nell’ambito della valutazione concernente la liquidazione del danno, senza che ciò componi uno specifico obbligo di motivazione al riguardo, nel senso che il mancato riconoscimento del maggior indennizzo si traduce nell’implicita esclusione della particolare rilevanza della controversia (cfr. Cass., Sez. 1^, 3 dicembre 2009, n. 25446: 29 luglio 2009, n. 17684): dall’altro che, ove sia stato negato il riconoscimento di tale pregiudizio, la critica della decisione sul punto non può fondarsi sulla mera affermazione che il bonus in questione spetta ratione materiae, era stato richiesto e la decisione negativa non e stata motivata, ma deve avere riguardo alle concrete allegazioni ed alle prove addotte nel giudizio di merito, che nella specie non sono state in alcun modo richiamate (cfr. Cass. Sez. 1^, 28 gennaio 2010, n. 1893; 28 ottobre 2009, n. 22869).
4. – Con l’ottavo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU e dell’art. 1 del relativo protocollo aggiuntivo, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha liquidato le spese processuali in misura insufficiente rispetto agli standards europei.
4.1. la censura è infondata.
Nei giudizi di equa riparazione promossi ai sensi della L. n. 89 del 2001, che si svolgono dinanzi al giudice italiano secondo le disposizioni processuali dettate dal codice di rito, la liquidazione delle spese processuali deve essere infatti effettuata applicando le tariffe professionali vigenti nell’ordinamento italiano, e non già in base agli onorari liquidati dalla Corte EDU i quali attengono esclusivamente al regime del procedimento che si svolge dinanzi alla Corte di Strasburgo, dal momento che la liquidazione del compenso per attività professionale prestata dinanzi ai giudici dello Stato deve aver luogo secondo le norme che disciplinano la professione legale davanti alle corti ed ai tribunali di quello Stato (cfr. Cass. Sez. 1^, 11 settembre 2008, n. 23397).
5. – Sono invece parzialmente fondati i motivi dal nono al tredicesimo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. e della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24, nonchè l’omessa, insufficiente o incongrua motivazione circa un punto decisivo della controversia, sostenendo che la Corte d’Appello, senza fornire un’adeguata motivazione e discostandosi dalla nota specifica da lui depositata, ha liquidato le spese processuali in misura non conforme alle tariffe professionali vigenti ed alla natura del procedimento, il quale, pur svolgendosi nelle forme del rito camerale, non costituisce espressione di volontaria giurisdizione ma ha carattere contenzioso.
5.1. Benvero, dalla motivazione del decreto impugnato non risulta in alcun modo che, come sostiene il ricorrente, la liquidazione delle spese abbia avuto luogo secondo la tariffa vigente per i procedimenti in camera di consiglio, anzichè in base a quella relativa ai procedimenti contenziosi, la cui applicabilità discende dalla natura della controversia, riguardante contrapposte posizioni di diritto soggettivo e destinata a chiudersi con un provvedimento pronunziato nel pieno contraddittorio delle parti ed avente natura sostanziale di sentenza (cfr. Cass. Sez. 1^, 7 ottobre 2009, n. 21371; 17 ottobre 2008, n. 25352). Il ricorrente, inoltre, pur dolendosi del mancato riconoscimento delle prestazioni indicate nella nota specifica asseritamene depositata nel giudizio dinanzi alla Corte d’Appello, si è astenuto dal riportarne il contenuto nel ricorso, limitandosi ad includervi alcune tabelle estratte dalla tariffa professionale, la cui trascrizione non appare sufficiente a consentire a questa Corte la necessaria verifica in ordine alla denunciata violazione, in mancanza di una specifica indicazione delle voci e degl’importi di cui si contesta l’omessa liquidazione (cfr. Cass. Sez. 3^, 19 aprile 2006, n. 9082; Cass. Sez. 1^, 16 marzo 2000, n. 3040).
Nondimeno, occorre rilevare che la Corte d’Appello, nel condannare il Ministero al pagamento delle spese processuali, si è limitata ad attribuire al ricorrente la somma di Euro 900,00 complessivamente determinata, senza distinguere, nell’ambito della stessa, gl’importi dovuti rispettivamente per onorario e per diritti. Tale modalità di liquidazione rende di per sè illegittima la pronuncia sulle spese, non consentendo alla parte interessata ed al giudice dell’impugnazione di verificare l’avvenuto rispetto dei minimi inderogabili previsti dalla tariffa professionale, alla cui osservanza il giudice è tenuto anche in caso di mancato deposito della nota specifica (cfr. Cass. Sez. 5^, 10 marzo 2008, n. 6338:
Cass. Sez. 3^, 8 marzo 2007, n. 5318).
6. – Il decreto impugnato va pertanto cassato, limitatamente alla parte concernente la liquidazione delle spese processuali, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2, mediante una nuova liquidazione delle spese, che segue come dal dispositivo, con attribuzione al procuratore dichiaratosi anticipatario.
7. – Il limitato accoglimento dell’impugnazione giustifica la parziale compensazione delle spese relative al giudizio di legittimità, che per il residuo vanno poste a carico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e si liquidano per l’intero come dal dispositivo, con attribuzione al procuratore anticipatario.
P.Q.M.
LA CORTE accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia a corrispondere a L.C. le spese del giudizio di merito, che si liquidano in complessivi Euro 911,00, ivi compresi Euro 550,00 per onorario, Euro 311,00 per diritti ed Euro 50,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’Avv. Alfonso Luigi Marra, antistatario; condanna il Ministero della Giustizia al pagamento di un terzo delle spese dei giudizio di legittimità, che si liquidano per l’intero in complessivi Euro 600,00, ivi compresi Euro 500,00 per onorario ed Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’avv. Alfonso Luigi Marra, antistatario, dichiarando compensati tra le parti i residui due terzi.
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