Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-04-2011, n. 7951 Licenziamento disciplinare Sanzioni disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

S.V. ha impugnato il provvedimento di destituzione irrogatole dall’Ente Poste in data 28.5.1994 a seguito di sentenza di c.d. patteggiamento pronunciata nei suoi confronti per il reato di sottrazione di corrispondenza, passata in giudicato il 3.12.1993.

Il ricorso è stato accolto dal Tribunale di Lanciano, che ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento, ritenendo tardiva la contestazione effettuata il 3.2.1994, ovvero circa due mesi dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale, tenuto conto anche del fatto che erano già trascorsi circa due mesi tra la denuncia del fatto da parte dell’Ente e l’inizio dell’azione penale.

La sentenza è stata riformata dalla Corte di Appello di L’Aquila, che ha affermato la legittimità del provvedimento espulsivo, ritenendo che non fosse stato violato il principio di immediatezza della contestazione – anche perchè, ai sensi del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 117 l’Ente non avrebbe potuto dare inizio all’azione disciplinare dopo che, per gli stessi fatti, era stato avviato procedimento penale – ed ha rigettato l’originaria domanda.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione S.V. affidandosi a sette motivi cui resiste con controricorso la società Poste Italiane spa.

La società ha depositato memoria ai sensi dell’art.. 378 c.p.c.
Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 103, comma 2, e art. 117 sull’assunto che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la semplice denuncia presentata all’autorità giudiziaria fosse ex se sufficiente a determinare la pendenza del procedimento penale con il conseguente effetto sospensivo dell’azione disciplinare, D.P.R. n. 3 del 1957, art. 117. 2.- Con il secondo e il terzo motivo di ricorso, collegati tra loro, si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 103, comma 2, e di "ogni altra norma o principio giurisprudenziale sulla necessità di immediata contestazione dell’infrazione disciplinare, assumendo che, nel ritenere che non fosse stato violato il principio di immediatezza della contestazione, il giudice d’appello non avrebbe considerato che, nella fattispecie, il datore di lavoro aveva avuto sostanziale consapevolezza della responsabilità del dipendente fin dalla trasmissione della relazione ispettiva all’autorità giudiziaria e, nonostante ciò, aveva lasciato trascorrere diversi mesi anche dopo la sentenza di patteggiamento. D’altra parte, la complessità dell’organizzazione aziendale, che pure era stata richiamata dalla Corte territoriale ai fini della valutazione della tempestività della contestazione, avrebbe potuto incidere sulla durata degli accertamenti ispettivi, ma non sulla tempestività della contestazione, una volta che il fatto fosse stato acclarato.

3.- Con il quarto e il quinto motivo si lamenta omessa motivazione su alcuni punti decisivi della controversia, costituiti dalla acritica ricezione della sentenza di patteggiamento a fondamento del provvedimento di destituzione, nonchè dalle contraddizioni insite nello stesso provvedimento, per quanto riguarda in particolare il giudizio ivi contenuto di "inaffidabilità" della dipendente rispetto ai "compiti a lei affidati". 4.- Con il sesto motivo la ricorrente lamenta omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto, sostanzialmente, l’irrilevanza della mancata adozione da parte dell’Ente Poste del provvedimento di sospensione cautelare dal servizio, essendo decisivo il rilievo che comunque non vi era stata violazione del principio di immediatezza della contestazione.

5.- Con il settimo motivo di ricorso si denuncia omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, costituito dalla eccepita violazione del diritto di difesa nel procedimento disciplinare. 6.- Preliminarmente, deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione del requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa ( art. 366 c.p.c., n. 3), sollevata dalla controricorrente, posto che il ricorso per cassazione contiene una sufficiente esposizione sia degli elementi di fatto da cui trae origine la controversia sia dello svolgersi della vicenda processuale (salvo quanto verrà precisato in ordine all’ultimo motivo) sia delle argomentazioni essenziali su cui si fonda la sentenza impugnata.

7.- Il ricorso, articolato in numerose censure da esaminarsi congiuntamente per riguardare problematiche tra loro strettamente connesse, va rigettato. Questa Corte ha costantemente affermato che il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito, la cui rado riflette l’esigenza di osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consentendo al datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per un’adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e della validità o meno delle giustificazioni da lui fornite; la relativa valutazione del giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (cfr. ex multis Cass. 29480/2008, Cass. 22066/2007, Cass. 1101/2007, Cass. 14113/2006, Cass. 4435/2004). Questa Corte ha, inoltre, già affermato che, quando il fatto che da luogo a sanzione disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio della immediatezza della contestazione, non pregiudicato dall’intervallo di tempo necessario all’accertamento della condotta del lavoratore ed alle adeguate valutazioni di questa, non può considerarsi violato dal datore di lavoro il quale, avviate le proprie indagini senza pervenire ad un sicuro accertamento di colpevolezza, avendo scelto ai fini di un corretto accertamento del fatto di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale, contesti l’addebito solo quando attraverso le scelte processuali del lavoratore nel procedimento penale, conclusosi con sentenza di applicazione della pena a richiesta dell’imputato, abbia acquisito piena consapevolezza della riferibilità dei fatti al dipendente, a nulla rilevando che tale sentenza sia priva di efficacia vincolante nel giudizio disciplinare, scaturito dai fatti ascritti, non venendo in questione il contenuto della sentenza, ma la condotta del lavoratore nel processo, quale elemento che, integrandosi con l’insieme degli indizi già acquisiti, attribuisce alla situazione complessiva la nuova caratteristica della chiarezza e della univocità (Cass. 9963/2003, Cass. 11889/2000, cui adde Cass. 18155/2006, Cass. 8730/2002). Così come aveva già sancito che, in tema di licenziamento disciplinare, il comportamento del datore di lavoro che, avuto notizia di un fatto commesso dal proprio dipendente suscettibile di avere rilevanza penale, oltre che disciplinare, denunci il fatto all’autorità giudiziaria e attenda gli esiti del procedimento penale per iniziare il procedimento disciplinare non può essere interpretato come una rinuncia alla pretesa punitiva, nè costituisce un serio impedimento ad una efficace e completa difesa, tenuto conto delle maggiori garanzie presenti per il lavoratore nel procedimento penale, derivanti dall’applicazione delle regole processuali e dalla terzietà dell’organo decidente (Cass. 12649/2004). Cass. 22 aprile 2000, n. 5308 aveva, del resto, già sottolineato che il requisito dell’immediatezza della contestazione è posto a tutela del lavoratore ed inteso a consentirgli un’adeguata difesa, onde il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore.

8.- Applicando tali principi al caso in esame, va rilevata anzitutto l’infondatezza dei primi tre motivi di impugnazione. La Corte territoriale non ha, infatti, ritenuto che la semplice denuncia presentata all’autorità giudiziaria fosse ex se sufficiente a determinare la pendenza del procedimento penale, con il conseguente effetto sospensivo dell’azione disciplinare, D.P.R. n. 3 del 1957, ex art. 117 ma ha bensì – e correttamente – ritenuto che l’azione penale avesse avuto inizio "mediante decreto di citazione emesso il 24.11.1992" e che il principio dell’immediatezza della contestazione non fosse stato violato dal lasso di tempo trascorso prima dell’inizio del procedimento penale o dopo la conclusione di questo – fermo restando che l’Ente non avrebbe potuto dare avvio al procedimento disciplinare, una volta iniziata l’azione penale, fino al termine del relativo procedimento, D.P.R. n. 3 del 1957, ex art. 117 – data la brevità del suddetto intervallo di tempo (circa due mesi), evidenziando, altresì, al riguardo, "la delicatezza del provvedimento espulsivo da irrogare e la complessità della struttura datoriale".

Si tratta di una valutazione di merito, devoluta al giudice di appello, e non censurabile nel giudizio di legittimità in quanto comunque assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria;

nè sotto altro versante può sottacersi che, a fronte di una sentenza come quella impugnata – che fa corretta applicazione nella fattispecie scrutinata dei principi giuridici in precedenza enunciati – non si è fatto in alcun modo riferimento ad elementi probatori idonei a dimostrare che l’aver atteso, da parte dell’Ente Poste, l’esito del procedimento penale o l’essersi eventualmente verificato, anche dopo la conclusione del procedimento penale, un ritardo nella contestazione abbia costituito, in qualche misura, un ostacolo alla effettiva difesa del lavoratore, ovvero ad una difesa efficace e completa dello stesso. I primi tre motivi di ricorso devono pertanto ritenersi infondati.

9.- Il quarto e il quinto motivo devono ritenersi inammissibili non essendo stato integralmente riportato nel ricorso il contenuto del provvedimento di destituzione – di cui vengono censurate carenze e contraddizioni – con evidente violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, secondo il quale il ricorso stesso deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito.

10.- Il sesto motivo deve ritenersi infondato alla stregua delle argomentazioni già espresse in ordine alla infondatezza dei primi tre motivi, restando comunque le relative censure assorbite nel rigetto di questi.

11.- Il settimo motivo è inammissibile. Invero, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, la ricorrente avrebbe dovuto precisare, a pena di inammissibilità, se e come l’eccezione di cui si discute era stata mantenuta e ritualmente riproposta anche nel secondo grado di giudizio; e tutto ciò a prescindere dal fatto che non viene comunque riportato il contenuto dei documenti (verbali dell’indagine amministrativa) e delle deposizioni sulle quali si fonda la censura (con ulteriore violazione del principio di autosufficienza del ricorso).

12.- Il ricorso va dunque rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 26,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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