Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 04-11-2010) 25-02-2011, n. 7408

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 17 settembre 2009 il Tribunale di Busto Arsizio in composizione monocratica, confermando la decisione assunta dal giudice di pace di Saranno, ha riconosciuto B.P. responsabile dei delitti di ingiuria e diffamazione in danno di L.D.; ha quindi tenuto ferma la sua condanna alla pena di legge e al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

Ha ritenuto quel giudice, in esito alla valutazione delle prove assunte, che l’imputato avesse rivolto al L. le parole "uomo di merda … ti faccio vedere io cosa sono capace di fare"; e che inoltre in tempi diversi, comunicando con più persone, avesse offeso la sua reputazione attribuendogli comportamenti scorretti ed illeciti.

Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del difensore, affidandolo a due motivi.

Col primo motivo il ricorrente, riferendosi all’imputazione di ingiuria, invoca l’esimente della provocazione. A confutazione del convincimento espresso dal giudice di merito, col ritenere che il L. avesse posto in essere un comprensibile tentativo di chiarire, quale responsabile dell’ufficio di polizia locale, in contraddittorio col B. e con un altro agente di nome S.M., il reale fondamento di talune "voci" che sarebbero state diffuse dall’imputato, precisa che all’epoca dei fatti il S. non era più agente della polizia locale, in quanto transitato nei ruoli amministrativi.

Col secondo motivo, riferendosi all’imputazione di diffamazione, il ricorrente si fa portatore della tesi secondo cui ad integrare il reato di diffamazione è necessario che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente nei confronti di più soggetti, e non in tempi diversi.

Il ricorso è privo di fondamento e va disatteso.

La rado decidendi che ha ispirato la decisione del Tribunale, con l’evidenziare l’insussistenza del connotato di ingiustizia nel fatto che il L. si fosse preoccupato di chiarire il fondamento delle voci messe in giro dal B. su certi comportamenti – assertivamente scorretti – da parte di S.M., non è contraddetta dalla circostanza che quest’ultimo più non fosse a quell’epoca un sottoposto della persona offesa. Infatti rientrava pur sempre nelle attribuzioni del L., quale superiore gerarchico del B., il potere-dovere di appurare ciò che costui andava dicendo nei confronti di altri appartenenti alla pubblica amministrazione, quand’anche non facenti parte del suo stesso ufficio. D’altronde neppure è dato comprendere sotto quale profilo la richiesta di chiarimenti, in contraddittorio col S., dovrebbe essere riguardata come un comportamento ingiusto nei confronti del B., tale da scatenare un suo legittimo stato d’ira.

Parimenti infondato è il secondo motivo. Il principio affermato dalla giurisprudenza citata dal Tribunale, secondo cui "per la sussistenza del reato di diffamazione non è necessario che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente, potendo la stessa aver luogo anche in momenti diversi, purchè risulti comunque rivolta a più soggetti" (Cass. 21 dicembre 2000 n. 6920/01), non soltanto non proviene da enunciazione isolata, essendovi altri precedenti arresti in senso conforme (Cass. 11 novembre 1983 n. 485/84; Cass. 17 maggio 1983 n. 6447); ma è anche pienamente condivisibile, non essendo dato cogliere nel tenore dell’art. 595 c.p. alcun segno della volontà del legislatore di esigere, per la punibilità della diffamazione, la contestualità delle comunicazioni con più persone.

La sentenza impugnata resiste, pertanto, a tutte le critiche mossele.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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