Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con sentenza del 29 settembre 2009, la Corte d’Appello di Ancona confermava parzialmente la sentenza del Tribunale di Ancona con la quale, il 28 aprile 2005, P.G. era stato condannato per i reati di associazione per delinquere, contrabbando aggravato, falso ideologico per induzione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti.
Avverso tale decisione il P., tramite il proprio difensore, proponeva ricorso per cassazione.
Con il primo motivo di ricorso deduceva l’erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione sulla qualificazione dei fatti contestati ai capi B) e J) della rubrica e concernenti fattispecie di contrabbando aggravato.
Osservava, a tale proposito, che la Corte territoriale non aveva fornito, in motivazione, alcuna indicazione circa l’avvenuto accertamento dell’effettivo valore della merce presentata in dogana che si assumeva essere stato inferiore a quello reale.
Rilevava, inoltre, che anche qualora tale circostanza fosse stata accertata, il reato configurabile sarebbe stato quello contemplato dal D.P.R. 43 del 1973, art. 303 il quale si concreta con la divergenza fra i valori dichiarati in dogana e quelli accertati e non anche quello di cui all’art. 292 del medesimo decreto che richiede, per l’esecuzione, l’adozione di mezzi fraudolenti che non poteva essere rinvenuta nella fattispecie.
Con il secondo motivo di ricorso denunciava la erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del reato di falso in atto pubblico per induzione, costituente circostanza aggravante per il reato di contrabbando.
A tale proposito negava la natura di atto pubblico della bolletta doganale, rilevando che il giudice dell’appello non aveva adeguatamente motivato al riguardo, asserendo che tale natura sarebbe stata esclusa dalla nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 8 in quanto il documento assumerebbe tale natura soltanto dopo la specifica annotazione effettuata dal funzionario all’esito della definitiva liquidazione dei diritti doganali.
Aggiungeva che il falso per induzione non poteva inoltre configurarsi laddove veniva fatto riferimento ad una fattispecie, quella della L. n. 746 del 1983, art. 2, comma 4, abrogata dalla L. n. 74 del 2000, art. 25 ed evidenziava il rapporto di specialità intercorrente con il reato di falso per induzione escludendo, altresì, la possibilità di ipotizzare, nella fattispecie, una ipotesi di concorso formale tra la norma abrogata ed il falso.
Con il terzo motivo di ricorso deduceva la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione di una prova diversa da quella acquisita relativamente alla ipotesi di contrabbando aggravato di cui al capo O) della rubrica, in quanto la Corte d’Appello avrebbe fondato il proprio convincimento su prove che avrebbero dimostrato l’esatto contrario.
Con il quarto motivo di ricorso rilevava la violazione dell’art. 416 c.p. e dell’art. 192 c.p.p. e la carenza di motivazione, osservando come in ordine al reato associativo contestato mancasse del tutto la prova diretta e la Corte territoriale avesse affermato la sussistenza dello stesso considerando esclusivamente l’inserimento di altri coimputati nell’organizzazione aziendale facente capo al ricorrente e la natura delle operazioni poste in essere.
Con il quinto motivo di ricorso deduceva la violazione dell’art. 62 bis c.p. ed il vizio di motivazione, ritenendo non adeguatamente giustificato il diniego delle attenuanti generiche pur dandosi atto dell’ampia confessione resa, in quanto non erano stati considerati altri elementi fattuali non contestati.
Il sesto motivo di ricorso, infine, denunciava la erronea applicazione della legge penale in ordine al mancato dissequestro dei beni diversi da quelli oggetto di confisca, avendo la Corte territoriale rigettato la richiesta per genericità della stessa con motivazione priva di giuridico fondamento.
Insisteva, pertanto per l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
Con riferimento al primo motivo di ricorso e, segnatamente, riguardo alla dedotta violazione di legge, deve rilevarsi, che correttamente la Corte territoriale ha ritenuto la configurabilità del reato di contrabbando aggravato e non anche quella della meno grave fattispecie di cui al D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303.
La giurisprudenza di questa Corte (richiamata pure nell’impugnata decisione, anche se con riferimento errato) ha infatti precisato che la menzionata ipotesi contravvenzionale non è configurabile qualora la discordanza tra i valori denunciati e quelli accertati delle merci importate sia conseguenza non di una semplice dichiarazione ma di un fraudolento comportamento, volto a sottrarre in tutto o in parte la merce al dovuto diritto di confine essendo, in tal caso, ipotizzabile il delitto di contrabbando (Sez. 3^ n. 5625, 8 maggio 1987; conf.
Sez. 3^ n. 1194, 10 maggio 1978; Sez. 3^ n. 7773, 1 settembre 1982;
Sez. 3^ n. 26143, 8 luglio 2010).
Ciò che differenzia le due violazioni, pertanto, è la circostanza che l’elusione dell’accertamento doganale, nell’ipotesi più gravemente sanzionata, non avviene mediante una mera dichiarazione, essendo quest’ultima associata ad altre attività finalizzate ad avvalorarla come, ad esempio, la predisposizione di documentazione fittizia od altri simili artifici.
Nella fattispecie, la sentenza impugnata ha correttamente rapportato la condotta posta in essere alla più grave ipotesi prevista dal D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292 in quanto, in un caso, il valore delle merci era stato dichiarato sottraendo dal valore reale un importo fittiziamente imputato a prestazioni di servizi non soggette a pagamento dei dazi mai avvenute e, in un altro, affermandosi "esportatore abituale" conseguentemente all’esecuzione, nel medesimo anno, di acquisti con IVA per gli importi stabiliti fittiziamente predisposti.
E’ dunque evidente che la articolata condotta posta in essere dal ricorrente era del tutto idonea ad essere ricondotta al reato di contrabbando di cui al D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292 non essendosi risolta in una mera dichiarazione.
Del tutto inconsistente appare, inoltre, l’affermazione secondo la quale non sarebbe sufficiente, per la configurabilità del reato, una condotta fraudolenta posta in essere prima del controllo doganale, dovendo detto comportamento fraudolento concretarsi in una condotta commissiva che si aggiunga alla dichiarazione infedele e sia in diretto collegamento con l’evento.
La collocazione temporale del comportamento fraudolento che accompagna la dichiarazione è del tutto irrilevante quando, come nella fattispecie, risulta ampiamente dimostrato che una determinata attività era stata preordinata proprio allo scopo di sottrarre le merci al pagamento dei diritti di confine dovuti.
Per quanto riguarda, poi, il dedotto vizio di motivazione, occorre rammentare che la consolidata giurisprudenza di questa Corte è orientata nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all’art. 606 c.p.p. dalla L. n. 46 del 2006, Sez. 6^ n. 10951, 29 marzo 2006; Sez. 6^ n. 14054, 20 aprile 2006;
Sez. 6^ n. 23528, Sez. 3^ n. 12110, 19 marzo 2009).
Così delimitato l’ambito di operatività dell’art. 606 c.p.p., lett. e), va aggiunto che la Corte territoriale ha evidenziato in motivazione, quanto alla sussistenza dei fatti ed alla loro ricostruzione, che gli stessi erano stati ammessi dal ricorrente nel corso dell’esame dibattimentale a conferma delle confessioni rese in precedenza al Pubblico Ministero.
Inoltre, i giudici dell’appello hanno operato un richiamo per relationem all’articolata decisione di primo grado la cui legittimità non è oggetto di contestazione.
Ciò posto, si osserva che la sentenza impugnata risulta immune da censure avendo i giudici effettuato un’accurata analisi delle ragioni poste a sostegno della decisione di primo grado e dei rilievi della difesa sviluppati nei motivi di appello con una valutazione complessiva degli elementi fattuali offerti alla loro attenzione del tutto priva di contraddizioni, con la conseguenza che ciò che il ricorrente richiede è, in sostanza, una inammissibile rilettura del quadro probatorio e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata la quale, contrariamente a quanto affermato, si presenta del tutto priva da cedimenti logici e perfettamente coerente.
Riguardo al secondo motivo di ricorso e con specifico riferimento al vizio di motivazione dedotto, valgono le considerazioni appena espresse.
La risposta della Corte territoriale alle doglianze mosse dal ricorrente si configura, anche in questo caso, perfettamente coerente e conforme a legge.
Correttamente i giudici del gravame hanno evidenziato come, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, debba affermarsi la natura di atto pubblico della bolletta doganale anche all’epoca di commissione dei fatti.
La decisione impugnata ricorda infatti come si sia precisato che "…la bolletta doganale di importazione ha natura di atto pubblico e costituisce fattispecie documentale a formazione progressiva in quanto trae origine dalla dichiarazione di parte – formata dall’interessato e presentata nei modi e alle condizioni di legge (D.P.R. n. 43 del 1973, artt. 56 e 57), a cura dello spedizioniere doganale o da un suo procuratore – e si perfeziona, dopo i dovuti controlli, con l’attestazione da parte del pubblico ufficiale – il quale non si limita a recepire le indicazioni del privato, ma effettua sulle stesse una verifica della quale da atto specificamente – della conformità delle dichiarazioni documentali alla situazione riscontrata. Ne consegue che ricorre il delitto di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. ogni qualvolta la falsità delle attestazioni compiute dal funzionario dell’amministrazione doganale sia dovuta all’induzione in errore operata dal privato" (Sez. 5^ n. 21355, 15 maggio 2003).
Contrariamente a quanto affermato in ricorso, il principio è stato anche recentemente ribadito (Sez. 2^ n. 5224, 7 febbraio 2007).
Altrettanto esaustiva appare, inoltre, la indicazione delle ragioni per le quali si ritiene soggettivamente ed oggettivamente configurabile il delitto di falso per induzione anche con riferimento alle dichiarazioni di intento cui fa riferimento la L. n. 746 del 1983, ora abrogata.
Correttamente si è ritenuto, infatti, che tale condotta, del tutto indipendente, costituisce un mero presupposto del diverso delitto di falso per induzione errore dei funzionari doganali ai quali le predette dichiarazioni di intento vennero esibite, determinandoli così a formare una bolletta doganale ideologicamente falsa.
In ordine al terzo motivo di ricorso deve osservarsi che lo stesso, pur indicato come riferito al vizio di motivazione, propone di fatto censure attinenti al merito della decisione impugnata che, come si è già più volte affermato, risulta congruamente motivata dai giudici di merito.
Con riferimento al punto in contestazione, in particolare, l’analisi effettuata si sostanzia in una accurata ricostruzione dei fatti ed una attenta verifica del dato documentale che, in quanto sorrette da motivazione immune da vizi logici e giuridici, devono ritenersi sottratte al sindacato di legittimità.
A conclusioni analoghe deve giungersi per quanto riguarda il reato associativo, di cui tratta il quarto motivo di ricorso formulato, peraltro, in termini del tutto generici e finalizzato, ancora una volta, ad ipotizzare una diversa valutazione dei fatti.
Anche in questo caso la Corte d’Appello effettua un ineccepibile richiamo per relationem alla decisione di primo grado, richiamandone i contenuti e specificando il ruolo del ricorrente e degli altri coimputati.
Correttamente argomentata e conforme a legge appare, inoltre, la mancata concessione delle attenuanti generiche di cui tratta il quinto motivo di ricorso.
A tale proposito occorre ricordare che la concessione delle attenuanti generiche presuppone la sussistenza di positivi elementi di giudizio e non costituisce un diritto conseguente alla mancanza di elementi negativi connotanti la personalità del reo, cosicchè deve ritenersi legittimo il diniego operato dal giudice in assenza di dati positivi di valutazione (Sez. 1^ n. 3529, 2 novembre 1993; Sez. 6^ n. 6724, 3 maggio 1989; Sez. 6^ n. 10690, 15 novembre 1985; Sez. 1^ n. 4200, 7 maggio 1985).
Inoltre, riguardo all’onere motivazionale, deve ritenersi che il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o risultanti dagli atti, ben potendo fare riferimento esclusivamente a quelli ritenuti decisivi o, comunque, rilevanti ai fini del diniego delle attenuanti generiche (v. Sez. 6^ n. 34364, 23 settembre 2010) con la conseguenza che la motivazione che appaia congrua e non contraddittoria non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, neppure quando difetti uno specifico apprezzamento per ciascuno dei reclamati elementi attenuanti invocati a favore dell’imputato (Sez. 6^ n. 42688,14 novembre 2008; Sez. 6^ n. 7707, 4 dicembre 2003).
Ciò posto, nel caso in esame la Corte territoriale con apprezzamento congruo e privo di cedimenti logici ha fondato il proprio diniego sulla rilevanza del ruolo rivestito dal ricorrente nel sodalizio criminale, sulla spiccata capacità criminale manifestata attraverso la reiterazione dei delitti-scopo e confermata da una precedente condanna per bancarotta. Della confessione resa è stato invece tenuto conto nella quantificazione della pena.
Per quanto attiene, infine, il sesto motivo di ricorso, deve osservarsi che la sentenza impugnata, nell’evidenziare la genericità dell’istanza di dissequestro presentata in chiusura dei motivi di appello, dispone la conferma della decisione di primo grado anche in ordine al dissequestro "delle cose mobili indicate in dispositivo".
Il ricorso, sul punto, appare connotato da analoga genericità non essendo in alcun modo individuati se non quali beni diversi da quelli oggetto di confisca ed elencati in modo sommario ed indeterminato come "quote sociali, azioni, somme di denaro" senza alcuna ulteriore specificazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente la pagamento delle spese del procedimento.
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