Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-02-2011) 09-03-2011, n. 9659 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

apano.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per Cassazione B.G. avverso la ordinanza del Tribunale del riesame di Milano in data 28 ottobre 2010 con la quale è stato accolto l’appello del PM contro il provvedimento del Gip di Milano (27 settembre 2010) che aveva sostituito la misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari, e per l’effetto – salva la sospensione della esecuzione del provvedimento stesso – è stato disposto il ripristino della custodia cautelare in carcere.

La misura era stata emessa in relazione alla contestazione provvisoria di favoreggiamento personale di F.G., latitante perchè sottrattosi alla esecuzione di ordinanza custodiale in riferimento alla contestazione di promozione e partecipazione ad associazione mafiosa.

Il titolo custodiale riguardante il B. prevedeva la contestazione del favoreggiamento aggravato ex L. n. 152 del 1991, art. 7, dal fine di favorire il sodalizio mafioso Cosa nostra.

Deduce:

1) la violazione di legge e il vizio di motivazione.

Il Tribunale non aveva replicato alle censure dell’adora resistente all’appello del PM, illustrate nella memoria presentata in udienza il 28 ottobre 2010. In particolare era stato evidenziato che erroneamente, in relazione alla posizione del ricorrente, era stata invocata la regola di giudizio dell’art. 275 c.p.p., comma 3, che fissa la presunzione di pericolosità e di adeguatezza della sola misura custodiale in carcere per taluni gravi reati. Infatti l’art. 275 c.p.p., comma 3 non menziona i reati aggravati dalla L. n. 152 del 1991, art. 7.

In secondo luogo la aggravante in questione sarebbe stata erroneamente contestata atteso che, con riferimento ai reati di associazione mafiosa, l’ipotesi normativa in contestazione, e cioè quella di favoreggiamento ex art. 378 c.p., prevede, al proprio comma 2, una specifica aggravante in tal senso. E, nella specie, la aggravante dell’art. 7 avrebbe dovuto essere esclusa perchè volta a connotare una condotta finalizzata a recare vantaggio alla associazione mafiosa mentre non era in alcun modo provato che il B. avesse perseguito un fine di tal fatta, non avendo avuto contatti anche con altri esponenti del sodalizio mafioso.

Egli si era limitato, semmai, a favorire la latitanza di un personaggio di vertice di una associazione mafiosa e, in tale situazione, la giurisprudenza della Cassazione nega che sia apprezzabile, in modo automatico, anche l’aggravante dell’avere agito per favorire l’intera associazione di riferimento (Sez. 6, n. 6571 del 2008; Sez. 6, n. 41261 del 2005);

2) la violazione degli art. 273 e 274 c.p.p. e il vizio di motivazione.

Difetterebbe comunque la esposizione delle ragioni che hanno fatto ritenere necessario il ripristino della più gravosa misura.

Si tratterebbe di fatti risalenti ad oltre un anno fa, nemmeno ritenuti meritevoli della adozione della misura all’atto dell’arresto del latitante (dicembre 2009).

Lo stesso Gip, nel concedere dopo soli sei giorni, la misura meno afflittiva, aveva evidenziato che il B., dopo l’arresto, è divenuto soggetto non più affidabile per il sodalizio mafioso e comunque nella impossibilità, dopo tanto tempo, di inquinare prove.

La difesa aggiunge poi rilievi volti a contestare la congruità dell’apparato indiziario per la equivocità dei risultati delle intercettazioni dalle quali erano stati desunti i contatti che B. – dichiaratosi sempre all’oscuro della effettiva natura della operazione cui egli si era prestato dando in locazione un suo appartamento al parente di un amico – avrebbe avuto con personaggi fiancheggiatori dello stesso F..

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

In primo luogo, manifestamente infondata deve ritenersi l’obiezione secondo cui la presunzione di pericolosità e di adeguatezza della più gravosa delle misure, posta dall’art. 275 c.p.p., comma 3, non potrebbe essere riferita anche ai reati aggravati ex L. n. 152 del 1991, art. 7.

Invero, proprio la lettera della legge porta ad una interpretazione contraria a quella auspicata dalla difesa dal momento che la norma citata, sia nel testo vigente (derivato dalla novella introdotta con D.L. n. 11 del 2009) che rimanda all’art. 51 c.p.p., commi 3 bis e quater, sia nel testo previgente a tale novella (che invece faceva direttamente riferimento ai delitti…commessi.. al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste…" dall’art. 416 bis c.p.), rende chiaro che la presunzione di pericolosità riguarda, appunto, non solo gli indagati per delitti di mafia, ma anche gli indagati di altri delitti commessi per agevolare l’attività delle associazioni mafiose.

Ora, il genere di delitti appena richiamati, in relazione ai quali opera la presunzione, non sono stati menzionati dal legislatore del codice di rito con la indicazione dell’articolo di legge ma il rinvio è, chiaramente, a tutte le fattispecie normative che presentino la connotazione appena indicata.

Non si vede dunque come possa fondatamente sostenersi che il detto richiamo non vada riferito alla fattispecie ex L. n. 152 del 1991, art. 7: norma che, come è evidente dalla relativa lettura – pur potendo non risultare in sè integratrice di un reato di criminalità organizzata (v. Sez un. 2010 Rv. 247994, ric. Donadio) – è volta a punire più gravemente, mediante la configurazione di una circostanza aggravante speciale, le condotte di coloro che realizzano delitti (punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo) commessi ….al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste"…dall’art. 416 bis c.p..

D’altra parte, sul punto si era già espressa la Corte costituzionale con la ordinanza n. 450 del 1995, emessa in relazione proprio ad un procedimento nel quale era in contestazione un delitto aggravato ex L. n. 152 del 1991, art. 7: ebbene, il giudice delle leggi aveva in quella occasione ribadito che "permane, sia in sede di adozione che di revoca della cautela, la preclusione all’applicazione di misure diverse da quella carceraria, quanto ai procedimenti per delitti aggravati dalla finalità di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p.", ritenendo ragionevole a giustificata, in quel caso, la scelta del legislatore.

Con il recentissimo intervento del 2010, poi (v.sent. n.265 del 2010) la Corte costituzionale, pur dichiarando la illegittimità costituzionale dell’art. 275 c.p.p., comma 3 in una parte che non interessa direttamente il procedimento de quo, ha confermato, nella motivazione della sentenza, "la ratio già ritenuta, sia da questa Corte che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria (sulla valutazione delle esigenze cautelari, ndr) quanto ai procedimenti relativi a delitti di mafia in senso stretto".

Infondata è poi la osservazione che nel caso di specie si sarebbe dovuta, semmai, contestare l’aggravante dell’art. 378 c.p., comma 2.

Invero, il fatto che possa ricorrere tale ultima circostanza non costituisce un argomento atto a dimostrare la non configurabilità della aggravante ex art. 7. La costante giurisprudenza di questa Corte in tema di favoreggiamento personale, afferma infatti che l’aggravante di cui all’art. 378 c.p., comma 2 è compatibile con quella prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, quando il favoreggiamento si riferisca non solo alla persona facente parte dell’associazione di stampo mafioso ma sia diretto anche ad agevolare l’intera associazione. (Rv. 246952; Massime precedenti Conformi: N. 37940 del 2004 Rv. 229912, N. 35680 del 2005 Rv. 243577).

In ordine alla osservazione secondo cui l’aggravante ex art. 7 non sarebbe ipotizzabile per il solo fatto dell’avere favorito la latitanza di un soggetto di vertice di un sodalizio, deve rammentarsi che, sul punto, si è formato un consistente orientamento di questa Corte che ha segnalato come costituisca valido e sufficiente elemento indiziante la posizione di capomafia del favorito operante in un ambito territoriale nel quale la sua notorietà si presume diffusa, considerato che l’aiuto fornito al capo per dirigere da latitante l’associazione concretizza un aiuto all’associazione la cui operatività sarebbe compromessa dal suo arresto, mentre, sotto il profilo soggettivo, non può revocarsi in dubbio l’intenzione del favoreggiatore di favorire anche l’associazione allorchè risulti che abbia prestato consapevolmente aiuto al capomafia (Rv. 245401;

Massime precedenti Conformi: N. 41587 del 2007 Rv. 238181, N. 41063 del 2009 Rv. 245386). Ad ogni buon conto, vai la pena sottolineare che il diverso orientamento giurisprudenziale evocato dal ricorrente sostiene comunque che anche nel caso di favoreggiamento del capo mafioso, la circostanza aggravante speciale possa ovviamente ricorrere – escluso ogni automatismo valutativo – quando si accerti la oggettiva funzionalità della condotta all’agevolazione dell’attività posta in essere dall’organizzazione criminale.

Ebbene, nella specie, tenuto conto del meno esigente standard indiziario che è proprio della sede cautelare, sono state escluse dal giudice del merito tutte le ipotesi investigative che potevano valere a delineare una condotta di favoreggiamento del capo mafioso con finalità circoscritte alla persona e agli interessi personali del favorito, essendo risultati del tutto mancanti – sia dal punto di vista storico che logico – i riscontri alla versione dell’indagato il quale aveva sostenuto di avere inteso soltanto favorire lo zio di un amico. Al contrario, erano emersi elementi più che cospicui attestanti i contatti che il ricorrente, proprio nel periodo in cui aveva concesso in locazione l’immobile, aveva tenuto con familiari e stretti conoscenti del latitante, a loro volta, questi ultimi, legati al "clan Fidanzati": contatti tutti direttamente apprezzati, da aprile a dicembre 2009, con servizi di osservazione dalla PG..

Su tale tema la difesa contesta la validità del materiale indiziario, in particolare quello costituito da intercettazioni telefoniche .

Si tratta però – con ciò rispondendosi al secondo motivo di ricorso – di una censura inammissibile perchè interamente versata in fatto e volta a sollecitare al giudice della legittimità la autonoma valutazione del materiale indiziario, valutazione che, come è noto, è inibita dal codice di rito. In secondo luogo, il tema prospettato dalla difesa risulta, proprio per il vizio originario di cui si è dato atto, incapace di incidere sulla ricostruzione operata dal giudice del merito, calibrata, nella sua parte decisiva e fondante, sui servizi di osservazione della PG e non su intercettazioni telefoniche.

Infondata è infine la censura con al quale si deduce la mancata considerazione del tempo trascorso.

Infatti, stante la presunzione assoluta di pericolosità che deriva dalla contestazione della aggravante ex art. 7, la omessa considerazione del tempo trascorso non appare un vizio censurabile del provvedimento impugnato, non essendo dedotto dal ricorrente in quali termini, in diritto e in fatto, il passare di alcuni mesi dal favoreggiamento potrebbe o dovrebbe costituire dimostrazione della avvenuta recisione del legame con la associazione, unico elemento capace di far ritenere inesistenti le esigenze cautelari presunte dal legislatore.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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