Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
onio Ferdinando che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Milano con sentenza del 26 novembre 2009, ha confermato la condanna emessa in data 15 gennaio 2009 dal Tribunale Penale di Como nei confronti di F.E., alla pena di anni 16 di reclusione e F.D.F. alla pena di anni 10 di reclusione, entrambi, di Euro 26,000 di multa: il primo, per i delitti di cui all’art. 81 cpv, art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, art. 609-ter c.p., art. 61 c.p., n. 4 e art. 11 c.p., in esso assorbita la fattispecie di cui all’art. 609-quater, commessi in danno dei nipoti F.A. (nata il (OMISSIS)) e F.S. (nato l'(OMISSIS)), in (OMISSIS), il secondo, del delitto di cui agli artt. 81 cpv, 600-bis e 600-sexies c.p. per sfruttamento della prostituzione minorile dei propri figli, in (OMISSIS).
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso gli imputati a mezzo di proprio difensore chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:
In relazione a F.E.;
1. Inosservanza e violazione dell’art. 468 c.p.p. e art. 172 c.p.p., comma 6 e mancanza ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) inerente la tardività del deposito della lista testi da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como.
2. Inosservanza e violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 18, del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 320, art. 37, art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 190 c.p.p. e mancanza ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), inerente il diritto all’assistenza dell’imputato, nonchè il diritto di poter conferire liberamente con il proprio consulente tecnico ed esercitare il proprio diritto alla difesa ed alla prova.
3. Inosservanza e violazione dell’art. 606, lett. e) per mancanza o manifesta illogicità della motivazione in merito al mancato accoglimento dell’istanza di perizia medico legale-sessuologica volta all’accertamento delle dimensioni del pene di F.E. e della sua verginità anale nonchè di quella dei minori, in particolare di F.S., e dell’istanza di perizia psicopatologica e psichiatrica su F.E..
4. Inosservanza e violazione degli artt. 359 e 360 c.p.p., art. 228 c.p.p., comma 3 e mancanza ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. b) e e) in merito alla consulenza psicodiagnostica disposta dalla Procura della Repubblica di Como e redatta dalla dr.ssa C..
5. Inosservanza e violazione dell’art. 606, lett. e) in merito ai riscontri oggettivi individuati nella consulenza medico-legale disposta dalla Procura della Repubblica di Como e redatta dal dr. G. e mancanza ed illogicità della motivazione sul punto.
6. Inosservanza e violazione dell’art. 603 c.p.p. e mancanza ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606, lett. b) ed e) per non aver ammesso la testimonianza dei compagni di scuola, specificamente indicati ed individuati, con cui A. riferisce di aver avuto rapporti sessuali.
7. Inosservanza e violazione dell’art. 192 c.p.p. e mancanza ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 lett. b) ed e), atteso che non sono state valutate compiutamente, e secondo logica, le testimonianze di T.A. e P.G..
8. Inosservanza e violazione dell’art. 192 e 191 c.p.p. e art. 499 c.p.p., commi 2 e 3 e mancanza ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606, lett. b) ed e), per delusione del divieto di domande che pregiudicano la sincerità delle risposte o che tendono a suggerire la risposta, con consequenziale inutilizzabilità delle relative risposte, inosservanza e violazione dell’art. 606, lett. e), atteso che non è stata valutata secondo logica la testimonianza di F.S. in sede di incidente probatorio.
9. Inosservanza e violazione dell’art. 606, lett. e) relativa all’attendibilità della testimonianza di A., assunta in incidente probatorio, atteso che le censure sviluppate in appello non sarebbero state considerate dalla Corte; mancanza ed illogicità della motivazione sul punto.
10. Inosservanza e violazione dell’art. 546, lett. e) in relazione all’art. 606, lett. b) ed e) atteso che alcuni elementi a discarico introdotti in appello non sarebbero stati considerati dalla Corte, quali le testimonianze dei nonni, di altri testi della difesa e l’esito negativo della perquisizione domiciliare svolta dalla p.g. al domicilio dei F..
In relazione a F.D.:
11. Inosservanza e violazione dell’art. 192 c.p.p. e art. 492 c.p.p., commi 2 e 3 in riferimento all’art. 606, lett. b) per l’elusione del divieto di porre domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte o che tendono a suggerire la risposta e inosservanza e violazione dell’art. 606, lett. e) per mancanza ed illogicità della motivazione, in quanto non sarebbe stata valutata secondo logica la testimonianza di F.A., unica accusatrice del padre F.D..
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Il ricorrente ha lamentato la tardività del deposito della lista testi in primo grado, eccependo l’inammissibilità della stessa, in quanto depositata il 28 aprile 2008 alle ore 13.45 dopo l’orario di chiusura al pubblico della Cancelleria penale. Sul punto, la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto che, anche ritenendo tardivo il deposito successivo all’orario formale di chiusura della cancelleria (ore 13), la difesa aveva comunque potuto prendere contestuale visione della lista. Inoltre aveva anche osservato che l’ammissione della prova testimoniale, in presenza di una lista tardivamente depositata, non è motivo di nullità, in quanto rientra tra i poteri del giudice l’assunzione d’ufficio delle prove.
Ritiene questo Collegio che l’argomentazione sia corretta.
E’ principio pacifico in giurisprudenza e dottrina che il deposito della lista dei testi è funzionale all’esercizio del diritto di difesa, nel senso che ha lo scopo di consentire alla controparte di dedurre la prova contraria. Inoltre la disposizione ha anche la finalità di impedire la introduzione di prove a sorpresa consentendo alle altre parti la tempestiva predisposizione di proprie controdeduzioni (cfr. Sez. 3, n. 41691 del 21/11/2005, Latini, Rv.
232369). Di fatti il termine perentorio per il deposito della lista dei testimoni vale soltanto per la prova diretta, e non anche per quella contraria, prevista dal citato art. 468, comma 4, la quale rappresenta elemento fondamentale del diritto di difesa che non può essere vanificato, soprattutto nel caso in cui la lista dei testi della controparte sia stata presentata allo spirare del termine.
Perciò l’esercizio del diritto alla controprova, assicurato in via generale dall’art. 495 c.p.p., comma 2, non può essere subordinato, al rispetto del detto termine ma può avere luogo anche dopo la scadenza di questo fino alla fase degli atti introduttivi del dibattimento (si veda Sez. 3, n. 15368 del 22/4/2010, Areseni e altro, Rv. 246613 e Sez. 5, n. 12559 del 16/3/2004, Tortolo, Rv.
228023).
Correttamente, inoltre, i giudici di merito hanno ritenuto che comunque l’eventuale ammissione da parte del giudice di prove non tempestivamente indicate dalle parti non sarebbe mai causa di nullità, in quanto rientra comunque tra i poteri del giudice del dibattimento assumere d’ufficio, a norma dell’art. 507 c.p.p. i mezzi di prova che la parte ha indicato, sia pure intempestivamente o irritualmente (in tal senso, tra le molte: sez. 1, n. 10795 del 22/9/1999, Gusinu e altri, Rv. 214108; sez. 5, n. 46317 del 30/11/2004, Scuderi e altro, Rv. 230460). In particolare, per lo stesso motivo, è stato ritenuto che l’irrituale presentazione della lista testi effettuata a mezzo fax, anzichè nella prescritta forma del deposito in cancelleria non sia causa di nullità dell’ordinanza ammissiva della prova testimoniale nè, pertanto, della sentenza che sull’esito di detta prova abbia fondato la decisione (così Sez. 5, n. 32742 del 7/9/2010, Accordino, Rv. 248418 e Sez. 1, n. 38161 del 7/10/2008, Pisa, Rv. 241135). E’ stato affermato che tale potere di ufficio può essere esercitato anche dal giudice di appello con la rinnovazione istruttoria (Sez. 1, n. 5636 del 5/2/2008, Nunziata e altri, Rv. 238931: nel caso di specie è stato ritenuto che a fronte della dichiarazione di inutilizzabilità pronunciata per deposito tardivo della lista dei testi da parte del pubblico ministero, fosse comunque consentito al giudice di appello disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in quanto era risultato assolutamente necessario ai fini della decisione ascoltare i testimoni).
Quanto alla disciplina di cui all’art. 172 c.p.p., comma 6, che stabilisce che il termine per depositare documenti scade nel momento in cui l’ufficio viene chiuso al pubblico in base ai regolamenti, la giurisprudenza ha affermato che tale termine attiene esclusivamente all’istituto processuale della decadenza ed il deposito oltre l’orario di ufficio non può mai costituire ragione di nullità, per il principio di tassatività di cui all’art. 177 c.p.p. (in tal senso, Sez. 5, n. 4591 del 12/12/1994, Biado, Rv. 199967). La disposizione è applicabile a tutti i soggetti estranei all’ufficio e quindi anche al pubblico ministero, quando si tratta di atto da depositare presso la cancelleria di un giudice. Peraltro il concetto di "orario di ufficio", oltre a tenere conto della funzionalità dell’atto che deve essere depositato e dei successivi adempimenti che spettano all’ufficio giudiziario che ha ricevuto il deposito, deve essere valutato nella sua concretezza, caso per caso, senza negare la flessibilità, per così dire fisiologica, dell’orario di apertura al pubblico negli uffici giudiziari, spesso consuetudinaria, specie in uffici di modeste dimensioni. La rilevanza della prassi – sempre che tale flessibilità non venga utilizzata per dar luogo a favoritismi o corsie preferenziali tra i diversi utenti e che lasci intatta il principio di parità tra le parti del processo – è stata accettata ed avvalorata dalla giurisprudenza di legittimità che ha affermato, ad esempio in materia di impugnazioni, l’ammissibilità dell’atto proposto l’ultimo giorno utile dopo l’orario di chiusura dell’ufficio della cancelleria, sempre che il ricevimento del relativo atto non derivi da un’iniziativa unilaterale del funzionario, ma sia conseguenza di una consuetudine instauratasi nell’ufficio, "ovviamente purchè l’atto venga presentato in tempo prossimo all’orario di chiusura dell’ufficio stesso" (in tal senso, sez. 6, n. 7627 del 30/7/1996, PM in proc. Alleruzzo e altri, Rv. 206582 – nel caso di specie erano state ritenute ammissibili l’impugnazione del pubblico ministero e quella dell’imputato presentate rispettivamente 30 e 35 minuti dopo l’orario di chiusura della cancelleria).
Per quanto sopra illustrato, non è quindi condivisibile la censura avanzata nel ricorso, relativa al fatto che la flessibilità dell’orario della cancelleria del Tribunale rispetto agli adempimenti dell’ufficio della Procura della repubblica sarebbe significativo di un asservimento del primo rispetto all’organo dell’accusa, violando in tal modo il principio di parità delle parti, in quanto la Corte di appello ha correttamente evidenziato che la parte si duole di un’elasticità di orario, in deroga ad un ordine di servizio, fruita da tutte le parti processuali (come del resto risulta da quanto evidenziato nel ricorso circa la presenza fuori orario nella cancelleria del Tribunale anche dei difensori dei ricorrenti), nè è mai stata evidenziata alcuna disparità di trattamento che possa avvalorare un tale assunto. Anzi si deve osservare come, dalla dettagliata sintesi dello svolgimento del processo di primo grado riportata nella sentenza del Tribunale di Como, si evince che l’ordinanza di ammissione delle prove richieste dalle parti fu assunta in data 6 maggio 2008 e che l’audizione dei testimoni (in numero maggiore quelli della difesa, rispetto a quelli dell’accusa) impegnò ben nove udienze, di talchè non risulta emergere, nè risulta censura sul punto, che tale tardivo deposito della lista dei testi d’accusa abbia potuto pregiudicare il diritto alla prova contraria degli imputati, prova contraria in relazione alla quale, anche trascorso il momento delle richieste istruttorie di parte e della pronuncia dell’ordinanza di ammissione delle prove ex art. 495 c.p.p., la difesa conservava fino alla chiusura del dibattimento (dichiarata all’udienza del 15 gennaio 2009) la facoltà di sollecitare il giudice all’esercizio dei propri poteri di ufficio ex art. 507 c.p.p., facoltà che non risulta essere stata esercitata nel caso che ci occupa. La decisione impugnata risulta quindi immune dalle censure proposte in riferimento alla violazione di legge ed alla mancanza o contraddittorietà della motivazione.
2. La difesa ha eccepito il difetto di motivazione della sentenza di secondo grado che non avrebbe specificamente risposto alla censura avanzata circa il fatto che il Tribunale di Como, con ordinanza datata 22 aprile 2008, aveva rigettato, in forza del disposto degli artt. 233 e 230 c.p.p. l’istanza al rilascio del permesso di colloquio in favore del consulente tecnico regolarmente nominato, Prof. F.B., con F.E. ed inoltre aveva rigettato l’istanza di differimento avanzata all’udienza del 6 maggio 2008, durante la fase degli atti preliminari al dibattimento, affinchè il consulente tecnico potesse incontrare il proprio assistito. Tale fatto avrebbe rappresentato una violazione dei diritti costituzionalmente garantiti all’imputato quanto all’esercizio del diritto di difesa ed il diritto alla prova con conseguente nullità ex art. 178 c.p.p., lett. c): se il colloquio fosse stato concesso il consulente avrebbe potuto presentare al giudice i propri pareri e redigere una consulenza tecnica di parte sull’imputato e sul suo stato psico-fisico e psichiatrico, inoltre si sarebbe potuta espletare una consulenza medico – legale per accertare la verginità dell’ano dell’imputato. Tale motivo di ricorso è infondato.
In primis risulta corretta l’affermazione dei giudici di appello circa la diversità del ruolo del consulente tecnico rispetto a quello del difensore: non può essere estesa al consulente tecnico nominato dall’imputato la disposizione di cui all’art. 104 c.p.p., comma 1 (letto in collegamento con l’art. 36 disp. att. c.p.p. che prevede il diritto di accesso del difensore al carcere), che stabilisce il diritto della persona in stato di custodia cautelare di conferire con il proprio difensore, la cui violazione risulta sanzionata ex art. 178 c.p.p., lett. c), quale violazione al diritto all’assistenza del proprio difensore. Tale interpretazione è vieppiù avvalorata dal ben diverso tenore delle altre disposizioni del codice di rito attinenti alla difesa, nelle quali il ruolo del consulente tecnico è espressamente menzionato, quali l’art. 103 c.p.p., commi 2 e 5 che, sotto la rubrica "garanzie di libertà del difensore", vieta il sequestro presso il consulente di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa e l’intercettazione relativa a conversazioni dei consulenti tecnici e loro ausiliari e a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite, nonchè l’art. 200 c.p.p., comma 1, lett. b) che assicura anche ai consulenti tecnici la tutela del segreto professionale.
Del resto la Corte costituzionale (sentenze n. 212 del 1997 e 216 del 1996) si è occupata unicamente del tema relativo ai colloqui tra persona in vinculis e difensore, precisando che il diritto di conferire con il proprio difensore non può essere compresso o condizionato dallo stato di detenzione, se non nei limiti eventualmente disposti dalla legge a tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti (ad esempio attraverso temporanee, limitate sospensioni dell’esercizio del diritto, come quella prevista dall’art. 104 c.p.p., comma 3); peraltro è stata fatta salva la disciplina delle modalità di esercizio del diritto, disposte in funzione delle altre esigenze connesse allo stato di detenzione medesimo, sempre che tale esercizio non finisca per essere affidato ad una mera valutazione dell’autorità amministrativa.
Parimenti nella giurisprudenza della CEDU la violazione dell’accesso alla difesa da parte di una persona sottoposta a regime detentivo attiene in via esclusiva alla necessità di conferire con l’avvocato e di essere assistito giuridicamente dallo stesso. L’accusato deve avere avuto tutto il tempo e gli strumenti necessari per preparare la sua difesa: deve essere stato assistito sin dalla fase iniziale del procedimento dal difensore con il quale ha potuto consultarsi ripetutamente senza soffrire limitazioni da parte dell’autorità carceraria (Corte EDU, 28 giugno 1984, Campbell e Fell c. Regno Unito). In particolare fa Corte di Strasburgo (27 novembre 2008, Affaire Salduz c. Turchia) ha affermato che per determinare se un processo abbia o meno un carattere equo (possieda cioè i requisiti del fair tral previsti dalla CEDU, quanto all’uguaglianza delle armi tra accusa e difesa ed al diritto alla prova) bisogna prendere in considerazione l’intero procedimento ed accertare – ed è questo il vero punto discriminante – se, in concreto, la lamentata violazione del diritto al colloquio dell’accusato detenuto con il proprio difensore abbia determinato un vulnus per l’effettività della difesa, al quale nel prosieguo non sia stato più possibile porre rimedio, nel senso che emerga che la sentenza di condanna risulta fondata essenzialmente ed esclusivamente sull’atto frutto di violazione, anzichè sugli elementi a carico dell’imputato, ritualmente acquisiti come prova nel procedimento. Secondo l’interpretazione giurisprudenziale dei principi contenuti della CEDU, la violazione del diritto di difesa, o la presunta tale, deve considerarsi sanata se in concreto l’imputato abbia potuto svolgere l’attività che era stata inizialmente negata o pregiudicata e se l’iniziale omissione di tale attività non abbia determinato un pregiudizio irreversibile del diritto di difesa, in quanto la condanna non è stata fondata in via esclusiva sulle risultanze dell’attività, per così dire "viziata" (cd. prova di "resistenza" della motivazione della sentenza).
E’ peraltro vero che la facoltà di avvalersi di un consulente tecnico si inserisce a pieno titolo nell’area di operatività della garanzia posta dall’art. 24 Cost. ed è espressione del diritto di difesa tutte le volte in cui l’accertamento della responsabilità penale richieda il possesso di cognizioni tecniche che, in quanto non sono presunte nella persona del giudice, così possono non essere proprie del difensore (in tal senso Corte cost. n. 33 del 1999, che ha garantito tale possibilità anche al non abbiente, e n, 498 del 1989): pertanto ogni limitazione sostanziale imposta a tale ausilio si risolve in una menomazione di quel diritto (Corte cost. n. 345 del 1987), tanto che, con sentenza n. 559 del 1990, la Corte costituzionale ha affermato il medesimo principio anche in riferimento al consulente tecnico nominato dalla persona offesa.
Anche la giurisprudenza di legittimità ha affermato che nessuna disposizione vieta al consulente di parte di svolgere degli accertamenti al di fuori delle vere e proprie operazioni peritali e di riferirne gli esiti al giudice mediante memoria scritta, in quanto la disposizione di cui all’art. 230 c.p.p. non esaurisce l’ambito di operatività consentito al consulente, ma stabilisce solo i rapporti tra la sua attività e quella del perito di ufficio; oltre tale attività di "affiancamento" al perito di ufficio, infatti, il consulente tecnico di parte ha facoltà di procedere a qualsiasi altra indagine, ferma restando la valutazione discrezionale del giudice sulle conclusioni esposte da tale consulente nel corso dell’audizione dello stesso come teste o riassunte nella relazione scritta, che possono anche essere utilizzate, previa congrua e convincente motivazione, ai fini della decisione. (Cfr. Sez. 1, n. 7252 dell’8/6/1999, Loiacono, Rv. 213704). Quindi, in tema di istruzione dibattimentale, le dichiarazioni rese dai consulenti tecnici di parte, indipendentemente dallo svolgimento del proprio incarico in ambito peritale ovvero extraperitale, hanno il medesimo valore probatorio di quelle testimoniali, in quanto l’art. 501 c.p.p., comma 1riconosce sostanziale qualità di testimone ai consulenti tecnici ammessi su richiesta di parte. (Sez. 3, n. 8377 del 25/2/2008, Scarlassare e altro, Rv. 239281).
Naturalmente il rischio di un’eccessiva dilatazione del disposto di cui all’art. 233 c.p.p. è stato segnalato: non si può ritenere, infatti, che il consulente tecnico (nominato dall’imputato, o dalla parte offesa nel corso delle indagini preliminari o, come nel caso di specie nella fase del dibattimento, anche dalla parte civile) possa affianca la parte che assiste per qualsiasi attività processuale (in tal senso, Sez. 3, n. 35702 del 16/9/2009, Raso e altri, Rv. 244423, che ha ritenuto che tali eccessi interpretativi costituiscono il risultato di una "enfatizzazione del ragionamento assimilatorio del consulente al difensore").
Date queste premesse, questo Corte ritiene in conclusione, che l’attività del consulente tecnico di parte, in quanto risulta necessaria in riferimento a competenze che richiedono particolari competenze specialistiche e scientifiche, attiene alle garanzie di difesa, sotto il profilo dell’effettività della stessa ed esplicazione del diritto di difendersi provando, ma tale caratteristica e natura non modifica il ruolo del consulente di parte ed i diritti e le facoltà attribuite al difensore dalla legge non possono essere interpretate, in via estensiva, come anche attribuite al consulente di parte. Ciò vale, nel caso che ci occupa, per la richiesta di colloquio con il proprio consulente avanzata dalla difesa dell’imputato in prossimità della prima udienza dibattimentale.
D’altra parte va precisato che il provvedimento che dispone in merito all’istanza di permesso di colloquio con il soggetto sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere, da parte di persona diversa dal difensore, non ha natura giurisdizionale, in quanto non incide sulla libertà personale, ma amministrativa, attenendo alle modalità esecutive della custodia e al trattamento del detenuto, tanto che la giurisprudenza di legittimità, in applicazione del principio di tassatività delle impugnazioni, ha ritenuto che il rigetto della richiesta non sia impugnabile con i mezzi previsti dal sistema processuale penale, ma con quelli dell’ordinamento amministrativo (Cfr. Sez. 4, Sentenza n. 2222 del 10/5/2000, Bresciani, Rv. 216486).
Nel caso di specie non risulta che tale percorso impugnativo sia stato intrapreso dal ricorrente, il quale ha lamentato la mancata concessione del permesso di colloquio del 22 aprile 2008, limitandosi poi a richiedere il differimento dell’udienza del 6 maggio 2008 al fine di consentire tale colloquio. La Corte di appello, in applicazione di detti principi, ebbe a respingere l’istanza di differimento, motivata unicamente in relazione al colloquio con il consulente tecnico richiesto, dichiarando l’apertura del dibattimento. Di fatto, con le richieste istruttorie, il difensore dell’imputato avanzò le richieste istruttorie ritenute opportune, ivi compresa anche la perizia medico legale sessuologica, psicopatologica e psichiatrica (oggetto del terzo motivo di censura).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini dell’effettività della difesa assicurata all’imputato, il dibattimento non si risolse in quella sola udienza, ma – come già indicato al punto 1 – si sviluppò dapprima fino all’udienza del 21 ottobre 2008, con l’audizione dei testi di accusa e di difesa, tra i quali proprio il prof. Bruno (quale psichiatra consulente tecnico di parte dell’imputato), ascoltato in data 8 settembre 2008, e poi con un’ulteriore prosecuzione avendo il Tribunale disposto una perizia ginecologica e sessuologica sulle persone offese ex art. 507 c.p.p., fino all’udienza di discussione del 15 gennaio 2009. Pertanto non solo l’esame testimoniale del consulente tecnico è stato espletato (e ne è stato tenuto ampio conto nella motivazione della sentenza), ma è evidente che tale lungo sviluppo dibattimentale ha comunque consentito la realizzazione sia di momenti dialogici diretti tra il consulente e l’imputato, sia la eventuale proposizione di iniziative della difesa che avrebbero potuto richiedere un esame peritale sull’imputato allegando nuovi elementi e sollecitando il Collegio all’esercizio dei poteri di ufficio. Di talchè nessuna lesione al diritto di assistenza dell’imputato, specificamente quale esercizio del diritto alla prova, può essere ravvisata, in riferimento a quello specifico colloquio richiesto ed al differimento di udienza negato, come correttamente ritenuto dalla Corte di appello di Milano.
3. Quanto al terzo motivo di ricorso, con il quale si è lamentato che il giudice di appello avrebbe rigettato le richieste di perizie volte ad accertare gli aspetti psicopatologici dell’imputato al fine di valutare se avesse turbe, manie, patologie, disturbi della personalità e della sessualità e perversioni compatibili con i fatti per cui è stato condannato, lo stesso è del pari infondato.
Risulta corretto il richiamo al divieto di accertamenti peritali sulla personalità dell’imputato posto che va ribadito il principio che il giudice non possa ricorrere all’apporto di specifiche competenze tecnico-scientifiche e, quindi, ad accertamenti di natura peritale, sul carattere, sulla personalità e sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche dell’imputato, atteso il divieto sancito dall’art. 220 c.p.p., comma 2 (cfr, a contrariis, Sez. 3, n. 37402 del 13/11/2006, Balliu, Rv. 235034).
Quanto poi alla perizia psichiatrica, strictu sensu, che avrebbe potuto, a detta della difesa, fornire elementi in punto di imputabilità o meno del F.E., questo Collegio non può che condividere quanto affermato dalla Corte di appello milanese, circa la non ammissibilità di perizie meramente esplorative, disposte sulla base di mere asserzioni, atteso che non erano stati allegati documenti attestanti turbe psichiche pregresse o documentanti episodi di alterazioni mentali a carico dell’imputato. E’ bene ricordare, infatti, che la dottrina scientifica ritiene concordemente che la parafilia o perversione sessuale (della quale la pedofilia è considerata una sottocategoria) vada ricompresa tra i disturbi di personalità attinenti alla sfera sessuale e le nevrosi e sia molto lontana dai quadri sintomatici afferenti la malattia mentale, quadri che si caratterizzano, invece, per la perdita del rapporto con il contesto reale, la destrutturazione della personalità, la dissociazione affettiva ed ideativa, le allucinazioni ed i deliri.
Pertanto, secondo la scienza psichiatrica, la pedofilia, se non accompagnata da un’accertata malattia mentale o da altri gravi disturbi della personalità, rappresenta una semplice devianza sessuale, senza influenza alcuna sulle capacità intellettive e volitive (sul fatto che la parafilia non implichi, per ciò solo, un vizio di infermità totale o parziale di mente, si veda anche Sez. 3, n. 1518, 19/1/2011, V.A., non mass.). Pertanto tale perizia psichiatrica non poteva certo definirsi prova decisiva ai fini del giudizio (in tal senso, Sez. 6, n. 7845 dell’8/8/1997, PG in proc. Mariano, Rv. 210372).
Quanto alla negata perizia medico-legale-sessuologica volta all’accertamento della verginità anale di F.E. e delle dimensioni del suo pene, risulta del pari logicamente argomentata nella sentenza impugnata la valutazione compiuta dai giudici del merito circa la non rilevanza di tali accertamenti. Infatti poichè tale perizia avrebbe dovuto essere espletata al fine di porre in discussione l’attendibilità dei minori, che avevano riferito che anche il F.E. li aveva indotti ad infilargli oggetti vari nell’ano, la Corte ha ritenuto che anche un eventuale esito positivo non avrebbe escluso la veridicità di tali racconti, posto che gli atti riferiti, per le non conosciute modalità del loro concreto svolgimento e per la possibile tipologia degli oggetti utilizzati, avrebbero potuto non lasciare tracce evidenti. Quanto alle dimensioni dell’organo genitale dell’imputato, il giudizio di irrilevanza di una perizia, espresso nella sentenza impugnata, è stato logicamente posto in correlazione con la possibilità che la minore A., per la sua età e scarsa esperienza, possa aver descritto in modo impreciso, perchè erroneamente percepito come particolarmente piccolo, il pene dell’imputato.
4. Con il quarto motivo è stata censurata la violazione degli artt. 359 e 360 c.p.p., nonchè dell’art. 228 c.p.p., quanto alla omessa od illogica motivazione circa il vizio della consulenza tecnica della dott. C., disposta dal pubblico ministero, erroneamente intesa dalla Corte di appello come tardiva eccezione di nullità, mentre in realtà si intendeva eccepire la inutilizzabilità, per violazione ai principi della Carta di Noto, per l’erroneità del quesito proposto, per la mancanza di registrazione audiovisiva, per la mancata somministrazione di test di livello e test neuropsicologici. La CT non avrebbe tenuto conto neppure del deficit cognitivo dal quale risulta affetta F.A., come risultante dal documento di una neuropsichiatra infantile, escludendo in via apodittica l’ipotesi di erronea e falsa denuncia, senza tenere conto dell’attitudine della minore a mentire, che risulterebbe dagli atti del processo.
L’assunto non è fondato.
La Corte di appello ha correttamente respinto le eccezioni sulla consulenza tecnica della dott. C., in quanto tardive, perchè avrebbero dovuto essere formulate con il primo atto difensivo (udienza preliminare). Nè può essere invocata la sanzione dell’inutilizzabilità prevista in via generale dall’art. 191 c.p.p., poichè la stessa si riferisce alle prove assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (e quindi di prove in sè illegittime perchè vietate) e non a quelle consentite (quali la consulenza tecnica psicologica sulla capacità a testimoniare ed attendibilità della persona offesa), senza l’osservanza delle regole formali dettate per le modalità di acquisizione, in quanto in tal caso deve essere applicata, per l’appunto, la disciplina delle nullità processuali, nel rispetto del principio di tassatività (in tal senso, ex multis, si veda Sez. 6, n. 40973 del 31/10/2008, Pagano, Rv. 241318).
Inoltre i giudici di appello hanno ritenuto che le critiche rivolte alla metodologia e conclusioni di tale CT sono superate dal fatto che le valutazioni sulla capacità a testimoniare dei minori espresse in tale consulenza risultano in concreto irrilevanti, posto che la prova di tale capacità è fondata sui risultati dell’incidente probatorio, nel quale A. e S. hanno reiterato in maniera concorde le accuse di violenza nei confronti dello zio E. (ed A. anche nei confronti del padre D.), accuse che trovano un "granitico" riscontro oggettivo nelle situazioni genitali dei minori accertate (dott. G. e dott. B.).
Tale argomentazione risulta logicamente corretta e perfettamente congrua con le risultanze probatorie delle quali la sentenza da ampio conto nella motivazione. In questa sede infatti, non è consentito effettuare una nuova valutazione degli elementi probatori, ma si deve unicamente stabilire se nel giudizio di merito siano stati esaminati, e correttamente interpretati, tutti gli elementi probatori acquisiti e se degli stessi sia stata offerta una interpretazione corretta, nel senso rispettosa delle regole della logica ed esaustiva e convincente rispetto alle richieste della difesa. La mera prospettazione di una diversa valutazione, più favorevole al ricorrente, delle emergenze processuali non costituisce vizio che comporti controllo di legittimità (Sez. 5, Sentenza n. 7569 del 11/6/1999, Jovino, Rv.
213638). Resta perciò esclusa la possibilità di sindacare le scelte che il giudice ha operato sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova, a meno che le stesse non siano il frutto di affermazioni apodittiche o illogiche. (Cfr. Sez. 3, n. 40542 del 6/11/2007, Marrazzo e altro, Rv. 238016). In particolare il giudizio di capacità a deporre e di attendibilità dei testi-persone offese è un giudizio di fatto che può essere effettuato in sede di merito mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria. (In tal senso, Sez. 3, n. 41282 del 18/12/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578). Per quello che riguarda, in particolare, l’attendibilità delle persone offese nei reati sessuali, è stato affermato che essa deve essere valutata in senso globale, "tenendo conto di tutte le dichiarazioni e circostanze del caso concreto e di tutti gli elementi acquisiti al processo" (Cost., Sez. 3, n. 21640 dell’8/6/2010, P., Rv. 247644).
La Corte di appello ha pertanto fatto corretto uso dei principi consolidati in giurisprudenza circa l’attendibilità del minore- persona offesa, ritenendo logico e coerente quanto narrato dai bambini e confermando in tal modo la valutazione espressa dal giudice di primo grado. Infatti, come è stato più volte affermato da questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 15227 dell’11/4/2008, Baretti, Rv. 239735;
Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061), quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente e forma con essa un unico complessivo corpo argomentativo.
Peraltro è necessario precisare che si decade dalla facoltà di eccepire l’inutilizzabilità dell’accertamento tecnico disposto dal pubblico ministero sotto il profilo dell’assenza del presupposto dell’irripetibilità, se non si sia formulata riserva di promuovere l’incidente probatorio (cfr.. Sez. 1, n. 47502 del 21/12/2007, Talat e altro, Rv. 238365). Nè le asserite violazioni alle guidelines della Carta di Noto, la mancanza della videoregistrazione, la mancata somministrazione di certi tipi di test possono ritenersi sanzionate dall’inutilizzabilità processuale o dalla nullità: tali prescrizioni non fanno parte della disciplina dettata per l’espletamento della consulenza, nè della perizia. E’ consolidato orientamento di questa Corte che "in tema di esame testimoniale dei minorenni parti offese nei reati di natura sessuale, le cautele prescritte dalla cosiddetta Carta di Noto, pur di autorevole rilevanza nell’interpretazione delle norme che disciplinano l’audizione di detti soggetti, presentano carattere non tassativo, sicchè l’eventuale inosservanza di dette prescrizioni non comporta nullità dell’esame stesso". Il contenuto di tale Carta si limita, come indicato nel preambolo, a suggerimenti volti a garantire meglio l’attendibilità delle dichiarazioni del minore e la protezione psicologica dello stesso. Quindi l’inosservanza alle guidelines della Carta di Noto non determina automaticamente la inattendibilità delle dichiarazioni del minore e neppure la nullità dell’esame o la sua inutilizzabilità, a meno di non volere introdurre un’ipotesi non prevista di nullità o di inutilizzabilità. Nè può concludersi, con un sillogismo astratto, che alla violazione di tali prescrizioni debba conseguire un giudizio di inattendibilità del minore. (Così Sez. 3, n. 6464 dell’11/2/2008, G., Rv. 239091; n. 20568 del 22/05/2008, Gruden, Rv. 239879 e n. 44472 del 17/12/2010, D.M. e altri, non mass.) Quanto affermato è da ritenersi valido non solo per l’esame testimoniale in senso stretto, ma anche in relazione all’esame dei minori condotto dal consulente tecnico in sede di consulenza (o perizia).
Da ultimo, neppure corrisponde a verità il fatto che il Tribunale di Como abbia recepito acriticamente le conclusioni della consulenza della dott. C., senza tenere conto dei rilievi critici mossi dal consulente tecnico di parte, Prof. F.B., in quanto, come già menzionato, un apposito capitolo della sentenza di primo grado è proprio dedicato integralmente all’analisi delle osservazioni svolte dal consulente tecnico anche a tal proposito.
5. Anche la censura di manifesta illogicità della motivazione per aver ritenuto le dichiarazioni dei minori riscontrate dalla consulenza medico legale espletata dalla Procura della repubblica di Como e dalle valutazioni espresse in dibattimento dai consulenti e dal perito nominato ex art. 507 dal Tribunale è infondata. Le argomentazioni svolte con il motivo di ricorso propongono interpretazione difensiva contrastante con i dati acquisiti del processo, invero non opinabili, come rilevato nella diffusa, logica ed esauriente motivazione della sentenza impugnata (in particolare pp. 24 e 25), quanto alle risultanze della situazione genitale ed anale di A. e della situazione anale del piccolo S., motivazione nella quale i giudici hanno già fornito una chiara e coerente risposta a ciascuna di tali argomentazioni difensive, volte a sovvertire l’entità e la cronologia degli abusi (soprattutto in riferimento alla violenza sessuale vaginale di A., per cercare di attribuirne la paternità ad altri). Tale parte motiva risulta immune da doglianze di presunta illogicità e finisce per rappresentare il dato oggettivo di pieno ed indiscutibile riscontro delle dichiarazioni rese dai minori.
6. Del pari infondato risulta essere il sesto motivo di ricorso, ove si lamenta che la Corte di appello non ha rinnovato il dibattimento ex art. 603 c.p.p. per assumere la testimonianza di alcuni compagni di scuola di F.A., che avrebbero dovuto riferire sui rapporti sessuali avuti con la stessa.
E’ opportuno ricordare che in tema di rinnovazione del dibattimento in appello, la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio che il giudice di secondo grado ha l’obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso in cui la accolga, mentre se ritiene che debba essere respinta, potrebbe anche motivarne il rigetto in via implicita, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare (o negare) la responsabilità del reo (Sez. 3, n. 24294 del 25/6/2010, D. S. B., Rv. 247872; sottolinea il carattere eccezionale dell’istituto: Sez. 5, n. 15320 del 21/4/2010, Pacini, Rv. 246859).
Inoltre, quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fonda su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità, l’eventuale rigetto dell’istanza di rinnovazione istruttoria in appello si sottrae al sindacato del giudice di legittimità (Sez. 6, Sentenza n. 40496 del 19/10/2009, Messina e altro, Rv. 245009).
Ad abundantiam, questo Collegio precisa che, nel caso di specie, la Corte di appello, con una motivazione priva di salti logici e perfettamente coerente con la valutazione di attendibilità della minore, espressa in correlazione con le risultanze probatorie, ha chiarito le ragioni per le quali la richiesta rinnovazione istruttoria fosse del tutto superflua ed inconcludente rispetto agli elementi probatori già acquisiti al processo e valutati dal giudice di prime cure: la verifica di presunti episodi sessuali tra la minore e compagni di scuola, episodi successivi ai fatti per cui è processo, oltre ad essere difficilmente realizzabile per la possibile e presumibile reticenza di tali testi, sarebbe stata comunque irrilevante rispetto all’attendibilità della minore, perchè nel caso in cui fossero stati confermati tali episodi, gli stessi sarebbero successivi a quelli di violenza ascritti agli imputati, per i quali non potrebbe essere esclusa la responsabilità degli stessi, e perchè nel caso fossero stati negati, e dovesse darsi credito all’invenzione da parte della minore di tali episodi in ambito scolastico, tale invenzione sarebbe invece segno evidente del tentativo di decontestualizzare dall’ambito familiare gli abusi subiti. Peraltro anche la sentenza di primo grado aveva ritenuto che il racconto di tali presunti abusi scolastici fosse stato uno strumento utilizzato dalla bambina per comunicare il suo forte disagio e per cercare un interlocutore in grado di prestarle aiuto, "trasponendo dal piano familiare (per lei psicologicamente inaccettabile) al piano scolastico la vicenda". 7. Del tutto infondata risulta la censura circa la manifesta illogicità della valutazione di attendibilità delle testimonianze di T.A. e P.G.. Come già evidenziato, non è possibile nel giudizio di legittimità operare una rilettura dei fatti risultanti dal processo: il giudizio di attendibilità dei testi attiene al merito ed il controllo qui operato attiene unicamente al profilo della logicità e non contraddittorietà della motivazione. Orbene, il giudizio di attendibilità di tali testimoni è stato espresso dai giudici di merito con una motivazione congrua ed immune da smagliature logiche (pp. 26, 27 e 28 della sentenza), anche laddove ha esaminato alcune apparenti discrasie comportamentali del T. e quando ha ricostruito la cronologia degli eventi che portarono alle rivelazioni dei gravi abusi subiti da parte del minori A. e S..
8. Quanto alla doglianza relativa alla violazione degli artt. 191 e 192 c.p.p. e art. 499 c.p.p., commi 2 e 3 in relazione all’espletamento degli incidenti probatori in violazione al divieto di domande suggestive e per motivazione mancante od illogica sulla inutilizzabilità della testimonianza di F.S., la stessa risulta non fondata.
Correttamente la Corte di appello ha ritenuto che l’eccepita nullità degli incidenti probatori era da ritenersi intempestiva, in quanto trattandosi di nullità relativa avrebbe dovuto essere eccepita, al più tardi, all’udienza preliminare, inoltre ha osservato che lo svolgimento delle prove testimoniale dei due bimbi è avvenuto nel pieno rispetto del contraddittorio e con la costante presenza della difesa, la quale avrebbe potuto svolgere in tale sede ogni opportuna osservazione.
Come già evidenziato al punto 4 che precede, a proposito del rispetto delle indicazioni della Carta di Noto, il mancato rispetto delle norme che regolano l’esame testimoniale, quando non attiene a divieti posti dalla legge ma è riferito alle modalità dell’esame di minori, determina una mera irregolarità e non una nullità o inutilizzabilità e non può quindi essere ricondotto in alcuna delle previsioni di cui agli artt. 178 e 179 c.p.p., sempre che sia stato assicurato il diritto della difesa di interloquire, ponendo domande al teste, in modo che venga salvaguardato il principio del contraddittorio. Tanto premesso, nel caso di specie non risulta che vi sia stata violazione del diritto di difesa, in quanto nel corso degli incidenti probatori la stessa ha avuto la possibilità di procedere, a sua volta, al contro-esame, per mezzo del g.i.p. e, comunque, ha potuto svolgere i rilievi ritenuti necessari.
Quanto alla tipologie delle domande formulate a S., è bene ricordare che in tema di esame testimoniale, la violazione del divieto di porre domande non pertinenti o suggestive, da un lato, non determina l’inutilizzabilità della testimonianza, in quanto tale sanzione riguarda le prove vietate dal codice di rito e non la regolarità dell’assunzione di quelle consentite, dall’altro, non è sanzionata da nullità in virtù del principio di tassatività. (cfr.
Sez. 3, n. 35910 del 19/9/2008, Ouertatani. Rv. 241090, Sez. 1, n. 32851 del 5/8/2008, Sapone e altri, Rv. 241227).
9. Manifestamente infondato il nono motivo di ricorso, afferente l’attendibilità della testimonianza di A. assunta in incidente probatorio e la mancanza e l’illogicità della motivazione sul punto. L’argomentazione sviluppata dalla difesa punta ad estrapolare una sola frase dalle estese dichiarazioni rese nel corso dell’ incidente probatorio da A., che ad un certo punto avrebbe esclamato: "voglio andare via perchè mio zio non ha fatto niente".
Si tratta di una censura in punto di fatto: il giudice di legittimità deve solo verificare che i giudici di appello abbiano fornito una motivazione convincente di tale espressione. E di fatti così è: i giudici del merito, con un ragionamento pienamente convincente e comunque incensurabile in questa sede, hanno ritenuto che tale frase, nel contesto dell’incidente probatorio nel quale si inserì, lungi dal manifestare l’estraneità di F.E., abbia dimostrato la stanchezza psicologica e la ribellione della vittima minorenne di abusi sessuali, la cui vulnerabilità è stata continuamente posta sotto pressione dallo stesso svolgersi degli atti necessari allo svolgimento del processo, nella specie, dalla ripetuta narrazione degli abusi.
Gli altri elementi addotti che dovrebbero porre in dubbio l’attendibilità della minore non fanno che riproporre le stesse argomentazioni in ordine alle risultanze della perizia medico legale già avanzate nello specifico motivo di ricorso e pertanto sono infondate come già evidenziato in precedenza.
10. Quanto al motivo di ricorso della mancanza od illogicità della motivazione, in relazione al fatto che alcuni elementi a discarico introdotti in appello non sarebbero stati considerati, quali le testimonianze dei nonni, di altri testi della difesa e l’esito negativo della perquisizione domiciliare svolta dalla p.g. al domicilio dei F., il motivo risulta manifestamente infondato.
Le prove a discarico acquisite sono state esaminate nel dettaglio sia nella sentenza di primo grado, che in quella di appello. Entrambe le decisioni hanno esaminato gli argomenti difensivi sulle prove a carico e a discarico.
Tutte le argomentazioni avanzate con il motivo di ricorso mirano a proporre una diversa lettura delle risultanze processuali, inammissibile nel giudizio di legittimità. 11. Quanto alla posizione di F.D.F. il motivo di ricorso attiene alla inosservanza e violazione dell’art. 192 c.p.p. e art. 492 c.p.p., commi 2 e 3 per mancanza, manifesta contraddittorietà od illogicità della motivazione sulla valutazione di attendibilità della testimonianza di F.A., unica accusatrice del padre F.D..
Il motivo proposto è infondato.
Come già rilevato in precedenza, la Corte di appello ha fatto corretto uso dei principi consolidati in giurisprudenza circa l’attendibilità della persona offesa, ritenendo logico e coerente quanto narrato dalla minore F.A., anche in relazione alle condotte delittuose poste in essere dal padre, confermando la valutazione espressa dal giudice di primo grado, con conseguente integrazione della struttura motivazionale delle due sentenze di merito: non già con acritico recepimento di quanto espresso in primo grado, ma con piena autonomia nella "nuova valutazione" di merito, la quale risulta argomentata. Il capo della decisione afferente F. D.F. è censurato dalla difesa come sommario, in quanto raffrontato con la parte della motivazione relativa al F.E. ed ai motivi di appello alcuni a lui esclusivi, altri comuni ad entrambi gli imputati, seppure presentati solo in relazione all’imputato F.E..
In realtà tutte le argomentazioni svolte nella parte motiva della sentenza impugnata circa l’attendibilità delle dichiarazioni della minore A., ed ai riscontri alle stesse, hanno valenza anche in relazione a quanto narrato dalla minore in merito al padre: questo Collegio ritiene che non sia affatto mancante la motivazione in merito ai riscontri degli episodi relativi ai reati ascritti a F. D.F.. I giudici del merito hanno esplicitato le ragioni per le quali ritengono provato il reato ascrittogli, data la sussistenza di un più che convincente riscontro oggettivo degli abusi sessuali e del fatto che gli stessi fossero stati perpetrati in ambito intrafamiliare dal F.E., anche per il suo autonomo contributo delittuoso. Tali elementi rendono pienamente credibile la testimone A. anche in relazione al ruolo del padre, in riferimento al quale non sono affatto indispensabili riscontri oggettivi specifici in merito alla ricezione delle somme di denaro richieste al fratello E. in cambio della commissione degli abusi sui minori (cfr., ex multis, Sez. 4, n. 30422 del 10/8/2005, Poggi, Rv. 232018). Nè ha pregio la censura di illogicità e/o contraddittorietà della motivazione, essendo la ratio decidendi della dichiarata colpevolezza del F.D. perfettamente congrua con le risultanze probatorie acquisite nel corso dei due gradi del giudizio di merito.
Il ricorso presentato da F.E. e da F.D.F. deve pertanto essere rigettato ed al rigetto consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p., nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che questa Corte liquida in Euro duemila e cinquecento, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi, e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese del grado in favore della parte civile che liquida in Euro duemila e cinquecento oltre accessori come per legge.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.