Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con la sentenza 26 gennaio 2005, n. 248, il T.A.R. per il Veneto ha accolto il ricorso n. 919 del 2004, proposto dalla società odierna appellata avverso gli atti (provvedimento del Magistrato delle Acque 29 gennaio 2004, prot. 224, deliberazione della Giunta Regionale del Veneto 30 dicembre 2003, n. 4361; parere della Commissione Tecnica Regionale, Sez. Ambiente 18 dicembre 2003, n. 3184) con cui è stato disposto che, nell’impianto gestito dalla E. V. Corporation Italia S.p.A. presso il Petrolchimico di Marghera, "fino alla scadenza della proroga del 30 giugno 2004, il valore medio di concentrazione di CVM allo scarico delle colonne di stripping sia pari a 1,0 µg/L e il limite di concentrazione di 3,7 µg/L (che risulta essere il valore massimo riscontrato da E.V.C. nel 2003) possa essere superato al massimo una sola volta".
Giova considerare che, come ricostruito in fatto dal primo giudice, all’interno del Petrolchimico di Venezia Marghera, stabilimento industriale posto sulla terraferma, ai confini con l’area lagunare, la E. V. Corporation (E.V.C.) Italia S.p.A. conduce un reparto identificato dalla sigla CV22, in cui è prodotto cloruro di vinile monomero (CVM).
Le relative acque reflue di processo, impiegate direttamente nella produzione, dopo un primo trattamento di purificazione effettuato nello stesso reparto, attraverso un procedimento detto stripping, con successiva filtrazione, sono immesse nella rete fognaria dello stabilimento giungendo all’impianto di depurazione SG31, cui fanno capo anche i reflui di altri reparti: impianto gestito da Marghera Servizi industriali S.r.l. (M.A.S.I.).
Esaurito il trattamento, le acque sono quindi immesse in una canaletta che sfocia in laguna – questo scarico finale è identificato con la sigla SM15 – nel canale MalamoccoMarghera.
Ebbene, a partire dalla fine degli anni novanta, è in via di attuazione una nuova disciplina speciale (in specie recata dal D.M. 23 aprile 1998) per gli scarichi nella laguna di Venezia, riguardante anche gli impianti industriali esistenti (tra cui quello della E.V.C.); disciplina che vieta, in particolare, l’eliminazione in tal forma di determinate sostanze, considerate particolarmente inquinanti.
E’ quanto ha imposto il graduale adeguamento degli impianti interessati, secondo progetti approvati negli ultimi anni dalla Regione Veneto, la cui realizzazione non ha però sempre rispettato le scadenze prestabilite.
Con la deliberazione 30 dicembre 2003, n. 4361, la giunta regionale veneta ha quindi disposto di prorogare a determinati soggetti i termini di adeguamento, consentendo dunque che, fino alla nuova scadenza, i loro impianti di depurazione continuassero ad operare secondo le precedenti regole, fatte salve tuttavia eventuali prescrizioni temporanee più rigorose.
Tra tali impianti è incluso anche quello di E.V.C., cui la proroga è stata concessa nei limiti e con le prescrizioni proposte dalla Commissione tecnica regionale sezione ambiente (C.T.R.A.), con il parere 18 dicembre 2003, n. 3184.
Tra queste prescrizioni, vi è stata quella, contestata dalla società ricorrente in primo grado, in forza della quale "fino alla scadenza della proroga del 30 giugno 2004, il valore medio di concentrazione di CVM allo scarico delle colonne di stripping sia pari a 1,0 µg/L e il limite di concentrazione di 3,7 µg/L (che risulta essere il valore massimo riscontrato da E.V.C. nel 2003) possa essere superato al massimo una sola volta".
Con il successivo provvedimento 29 gennaio 2004, prot. 224, il Magistrato delle Acque ha quindi sì rinnovato la precedente autorizzazione allo scarico SM15 in favore delle aziende che lo utilizzavano anche indirettamente, tra cui la E.V.C., stabilendo tuttavia, tra l’altro, che i soggetti autorizzati avrebbero dovuto rispettare le prescrizioni stabilite nei pareri emessi dalla C.T.R.A.
Nell’accogliere il ricorso proposto dalla società odierna appellata avverso gli atti amministrativi indicati, il giudice di primo grado ha ritenuto che:
o non troverebbe applicazione alla fattispecie la disciplina in materia di rifiuti, mancando quella interruzione del nesso di collegamento diretto tra la fonte di produzione del liquame ed il corpo ricettore che da sola determinerebbe la trasformazione del liquame di scarico in un ordinario rifiuto liquido, con conseguente inapplicabilità delle disposizioni del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, ed il necessario rispetto della disciplina in tema, per l’appunto, di rifiuti;
o non potrebbe essere addotto a fondamento normativo degli atti impugnati l’art. 34, co. 2, d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152, se non altro perché l’Amministrazione non avrebbe posto in essere le attività istruttorie che quella stessa previsione normativa impone di condurre al fine di verificare l’esistenza di particolari situazioni di accertato pericolo per l’ambiente e di determinare la soglia di emissioni sulla base di una valutazione tecnica, in relazione alle circostanze concrete.
Avverso la indicata sentenza, propone gravame l’Amministrazione ricorrente, ritenendone l’erroneità e chiedendo in sua riforma la reiezione del ricorso di primo grado.
All’udienza del 22 febbraio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.
Motivi della decisione
L’appello va accolto.
Ritiene il Collegio assorbente l’esame del terzo motivo di appello, con cui si censura la sentenza impugnata laddove ha escluso che a fondamento degli atti contestati in primo grado possa addursi l’art. 34, co. 2, d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152, vigente all’epoca e in forza del quale "Tenendo conto della tossicità, della persistenza e della bioaccumulazione della sostanza considerata nell’ambiente in cui è effettuato lo scarico, l’autorità competente in sede di rilascio dell’autorizzazione può fissare, in particolari situazioni di accertato pericolo per l’ambiente anche per la compresenza di altri scarichi di sostanze pericolose, valorilimite di emissione più restrittivi di quelli fissati ai sensi dell’articolo 28, commi 1 e 2".
Ad avviso del giudice di primo grado, l’Amministrazione non avrebbe posto in essere le attività istruttorie che la succitata previsione normativa impone di condurre al fine di verificare l’esistenza di particolari situazioni di accertato pericolo per l’ambiente e di determinare la soglia di emissioni sulla base di una valutazione tecnica, in relazione alle circostanze concrete.
Si tratta di assunto che non può essere in alcun modo condiviso dal Collegio.
Giova, invero, considerare che, il D.M. 23 aprile 1998, riguardante anche gli impianti industriali esistenti (tra cui quello della E.V.C.), ha vietato l’eliminazione nella laguna di Venezia di determinate sostanze, considerate particolarmente inquinanti: tra queste il cloruro di vinile monomero (CVM), la cui pericolosità risulta scientificamente accertata.
L’indicata disciplina ha quindi imposto il graduale adeguamento degli impianti interessati, secondo progetti approvati negli ultimi anni dalla Regione Veneto, la cui realizzazione non ha però sempre rispettato le scadenze prestabilite.
Nel passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, pertanto, l’Amministrazione ha dovuto attendere ad un bilanciamento tra le ragioni di tutela ambientale e quelle della produzione; e non vi è dubbio che non irragionevole sarebbe stato il suddetto bilanciamento se, nel condurlo, l’Amministrazione si fosse attenuta al criterio del non aggravamento della situazione ambientale già esistente.
Ebbene, con gli atti contestati in primo grado, l’Amministrazione si è limitata a prescrivere alla società appellata che, fino alla scadenza della proroga del 30 giugno 2004, "il valore medio di concentrazione di CVM allo scarico delle colonne di stripping sia pari a 1,0 µg/L e il limite di concentrazione di 3,7 µg/L (che risulta essere il valore massimo riscontrato da E.V.C. nel 2003) possa essere superato al massimo una sola volta".
Lungi dall’incorrere in un difetto di istruttoria, pertanto, l’Amministrazione, sul presupposto della sicura tossicità del CVM e dell’impatto inquinante conseguente allo scarico delle acque di processo nel quale lo stesso è contenuto, ha, con prescrizione amministrativa quanto mai ragionevole, imposto alla società appellata di non superare, nell’esercizio dell’attività sottoposta alla autorizzazione prorogata, il valore massimo registrato nel corso dell’anno precedente.
Alla stregua delle esposte ragioni va dunque accolto il gravame e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va respinto il ricorso di primo grado.
Infatti, la rilevata sussistenza della specifica ragione giustificatrice dell’atto rende irrilevante l’ulteriore questione, contestata tra le parti, sulla qualificabilità degli scarichi in questione come "rifiuto liquido’.
Consegue la condanna della società appellata al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. 2015 del 2006, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza del T.A.R. Veneto 26 gennaio 2005, n. 248, respinge il ricorso di primo grado n. 919 del 2004.
Condanna la società appellata al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio, liquidate in complessivi 8.000 (ottomila) euro.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.