Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con sentenza del 2/2 – 28/3/07 la Corte d’appello di Firenze – sezione lavoro rigettò l’impugnazione proposta il 18/2/05 dalla s.p.a Poste Italiane avverso la sentenza n. 317/04 del giudice del lavoro del Tribunale di Siena, con la quale era stata dichiarata la nullità del termine apposto al contratto stipulato l’1/2/99 con F.S. sulla base delle esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione societaria di cui all’art. 8 del CCNL di settore del 26/11/94, con trasformazione dello stesso in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La Corte territoriale accertò, in particolare, che in realtà il contratto era stato concluso il 12/10/98, mentre la data dell’1/2/99 indicata in sentenza era solo quella della proroga; inoltre, ritenne che era infondata l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, così come dedotta dalla società, e che successivamente al 31/5/98, termine ultimo fissato dalla contrattazione collettiva per il ricorso ai contratti a termine sulla base della causale delle summenzionate esigenze eccezionali, non vi era stato alcun momento negoziale che legittimasse la deroga al principio legale in materia di contratti a termine; infine, a fronte della domanda di condanna generica al risarcimento del danno proposta dalla lavoratrice, la società appellante non aveva apportato in giudizio elementi positivi atti a suffragare la sua eccezione concernente la presunta attività svolta medio tempore dalla ricorrente, mentre bene aveva fatto il primo giudice ad individuare, ai fini risarcitori, la data di messa in mora della datrice di lavoro, con la messa a disposizione della prestazione lavorativa da parte della ricorrente, in quella della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la s.p.a Poste Italiane che affida l’impugnazione a quattro motivi di censura. La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Col primo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Ci si duole, in sostanza, dell’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nel respingere l’eccezione di risoluzione del rapporto di lavoro per effetto del mutuo consenso tacito, laddove la prolungata inerzia dell’intimata e la circostanza dell’accettazione del t.f.r. da parte della medesima avrebbero dovuto indurre la stessa Corte ad accoglierla.
A riguardo la ricorrente pone il seguente quesito di diritto: " Dica la Corte se nel caso di notevole lasso di tempo intercorso tra la data di scadenza del rapporto a termine tra le parti e quella in cui il lavoratore si è attivato per far valere il diritto di conversione del rapporto di lavoro, il Giudice debba valutare, eventualmente in concorso con altre indicative circostanze di fatto, la volontà tacita del lavoratore, espressa per fatti concludenti, di risolvere il rapporto, rinunciando a far valere l’eventuale illegittimità del termine apposto al contratto. Il motivo è infondato.
Invero, la Corte d’appello si è espressamente pronunziata in merito all’eccezione di cui trattasi in termini logico – giuridici tali da fugare ogni sorta di dubbio sulla loro immunità dai rilievi mossi, osservando che alla luce delle allegazioni e delle prove offerte non erano rilevabili circostanze atte a manifestare un completo disinteresse delle parti alla attuazione del rapporto in guisa tale da poterlo considerare risolto. Il giudice d’appello ha, infatti, spiegato che per poter ritenere la sussistenza di una volontà certa e chiara delle parti di porre termine ad ogni rapporto, la società appellante, cui faceva carico il relativo onere, avrebbe dovuto evidenziare gli elementi ulteriori rispetto al dato cronologico (ad esempio le modalità di interruzione, il comportamento tenuto nel frattempo dalla lavoratrice, lo svolgimento di altre attività o l’instaurazione di nuove collaborazione, etc.) a supporto dell’affermata risoluzione del rapporto per mutuo consenso.
E’, inoltre, il caso di ricordare che l’indirizzo consolidato di questa stessa Sezione (Cass. sez. lav. n. 5887 dell’11/3/2011; Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010; Cass. sez. lav. n. 26935 del 10/11/08; C. sez. lav. n. 17150 del 24/6/08; C. sez. lav. n. 20390 del 28/9/07; C. sez. lav. n. 23554 del 17/12/04; C. sez. lav. n. 17674 dell’11/12/02) è nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicchè la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.
D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contrasto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e ex art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824 e da ultimo Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010).
Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe "contra legem" anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare "una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). Tra l’altro, è onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell’1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007).
2. Col secondo motivo è dedotta la violazione ed erronea applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) e viene posto il seguente quesito di diritto: " Dica la Suprema Corte se è vero che in virtù della delega in bianco contenuta nella L. n. 56 del 1987, art. 23 l’autonomia sindacale investita da funzioni paralegislative non incontra limiti ed ostacoli di sorta nella tipologia dei nuovi contratti a termine in relazione alle ipotesi che ne legittimano la conclusione, per cui gli accordi successivi a quello del 25/9/1997 non hanno una natura negoziale bensì meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto". 3. Col terzo motivo si denunzia la violazione ed erronea applicazione dell’art. 1362 cod. civ., e segg., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Il quesito di diritto posto di conseguenza è il seguente: " Dica la Corte se il sistema delineato dalla legge preveda la necessità che, ove le nuove ipotesi di contratto a termine siano dotate di particolare ampiezza tale da capovolgere il rapporto tra la regola generale dell’assunzione a tempo indeterminato e l’assunzione a termine, la norma contrattuale debba necessariamente avere una efficacia temporale limitata".
Osserva la Corte che il secondo ed il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto investono, nel loro insieme, la questione della portata della cosiddetta "delega in bianco" per il ricorso alla tipologia dei contratti a termine, di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 23 e dell’efficacia temporale della stessa.
Orbene, occorre partire dal dato principale per il quale il contratto in esame è stato stipulato, per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane" – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998, vale a dire con decorrenza dal 12/10/1998.
Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto "de quo".
Al riguardo, sulla scia della pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588), è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del ccnl 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-%2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In base a tale orientamento consolidato ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr. Cass. 29-7-2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n. 6703), va, quindi, confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, risultando superfluo l’esame di ogni altra censura al riguardo.
4. Col quarto motivo è, infine, lamentata l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5) e si formula il seguente quesito: " Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande o eccezioni, e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum, il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto". Osserva la Corte che il motivo presenta, anzitutto, un profilo di inammissibilità in quanto non prende affatto in considerazione la parte della decisione incentrata sulla circostanza per la quale la domanda era stata formulata, in entrambi i gradi del giudizio, nei termini di condanna generica al risarcimento del danno parametrato su tutte le mensilità maturate e maturande dalla data di stipula del contratto a termine, senza nessuna indicazione circa l’inquadramento contrattuale, il trattamento economico di spettanza e senza alcun conteggio. Ne consegue che non coglie nel segno.
Il motivo di doglianza che non tiene conto della suddetta specificazione operata dalla Corte territoriale e finisce per essere imperniato esclusivamente sulla questione della difficoltà dell’onere probatorio relativo alla dimostrazione dell’aliunde perceptum e sul tipo di valutazione che spetterebbe al giudicante in ordine all’ammissione delle relative istanze istruttorie, così trascurando di investire sul punto la autonoma "ratio decidendi" dell’impugnata sentenza e rivelandosi, pertanto, sotto tale aspetto, inammissibile. In ogni caso, la Corte territoriale ha anche spiegato che nessun elemento positivo è stato addotto dalle Poste italiane in ordine alla presunta attività lavorativa svolta "medio tempore" dalla lavoratrice, per cui l’eccezione inerente l’aliunde perceptum è rimasta assolutamente generica, al punto da escludere anche qualsiasi possibilità di attivazione dei poteri ufficiosi del collegio ex art. 421 c.p.c. Sotto tale aspetto il motivo è, pertanto, infondato, atteso che al riguardo la ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2- 1998 n. 1099).
Quanto alla lamentata omessa motivazione sulla richiesta di far esibire al lavoratore il libretto di lavoro e le buste paga si osserva che, al contrario, la Corte territoriale ha chiaramente evidenziato che era onere della parte datoriale che eccepiva la percezione, da parte della lavoratrice, di altri emolumenti, provarne l’esistenza.
Tra l’altro, non può non rilevarsi che la richiesta di esibizione del libretto di lavoro, oltretutto meramente esplorativa ed in contrasto con la corretta affermazione del principio del riparto degli oneri probatori, non è di per sè idonea a provare, anche dal punto di vista quantitativo, la causa di riduzione delle prestazioni a carico del datore di lavoro, per cui nemmeno avrebbe potuto essere considerata un punto decisivo della controversia ai fini del dedotto e non provato vizio di motivazione. (per un caso analogo v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 9716 del 24/7/2000).
Così risultato infondato il motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Nulla va statuito in ordine alle spese del presente giudizio in considerazione della mancata costituzione della parte intimata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
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