Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 04-05-2011) 13-06-2011, n. 23615 Falsità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Cagliari, con sentenza in data 23/9/2010, confermava la sentenza del Tribunale di Cagliari, in data 23 gennaio 2009, impugnata da D.A.G., dichiarato colpevole di falso e tentata truffa aggravata per avere falsamente attestato, nella autocertificazione prodotta al Comune di (OMISSIS) relativa alla domanda di partecipazione al concorso per l’assegnazione degli alloggi di E.R.P., un reddito del proprio nucleo familiare (Euro 11.650), per l’anno 2001, inferiore a quello effettivo (Euro 25.710), compiendo atti idonei a indurre in errore il comune di Cagliari ai fini dell’assegnazione di un alloggio popolare e condannato, qualificato il reato di cui al capo a) quale falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, ai sensi dell’art. 433 c.p., alla pena di mesi sei di reclusione e Euro 600 di multa. Proponeva ricorso per cassazione l’imputato deducendo i seguenti motivi:

a) violazione di legge per inosservanza dell’art. 597 c.p.p., lamentando la violazione del diritto di difesa per avere la Corte territoriale modificato la qualificazione giuridica del fatto in fase decisoria,senza l’instaurazione del contraddittorio sul punto e con violazione del principio di correlazione tra sentenza e accusa;

b) violazione di legge per erronea applicazione dell’art. 483 c.p. e difetto di motivazione per avere la Corte applicato la teoria "sostanzialistica", avendo ritenuto la responsabilità dell’imputato per aver compilato erroneamente la domanda amministrativa, cioè omettendo l’indicazione dei redditi conseguiti dal coniuge nel periodo di riferimento, ritenendosi, invece, tale condotta non punibile ai sensi dell’art. 483 c.p., in mancanza di una specifica previsione normativa, anche extra – penale che imponga l’obbligo di dire la verità, essendo la domanda amministrativa compilata dell’imputato il primo atto di una complessa istruttoria diretta all’ottenimento dell’assegnazione dell’alloggio;

c) violazione di legge per erronea applicazione dell’art. 483 c.p. e difetto di motivazione per erronea applicazione dell’art. 433 c.p., ritenuto inapplicabile trattandosi di dichiarazioni di parte che non assurgono a valore di atto pubblico;

d) violazione di legge ed erronea applicazione dell’art. 47 c.p. nonchè difetto di motivazione sul dedotto errore di fatto dell’imputato che ne esclude la punibilità ex art. 47 c.p., non potendo, peraltro, ritenersi falsa dichiarazione dell’imputato quella che si risolve in una mera omissione avente ad oggetto i redditi percepiti dal coniuge; e) violazione di legge e erronea applicazione dell’art. 133 c.p., nonchè difetto di motivazione per quanto concerne la determinazione della pena, ritenuta eccessiva, trattandosi di soggetto incensurato.
Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato e va dichiarato inammissibile.

1) Con riferimento al primo motivo di ricorso, va rilevato che in tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, le Sezioni unite di questa Corte hanno osservato che per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l"’iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (SS.UU. rv 205619).

Il principio, risalente ad oltre un decennio fa, non risulta, nella sua portata complessiva, posto in discussione dalla giurisprudenza susseguente essendosi sottolineato, piuttosto, che l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato: la nozione strutturale di "fatto" contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (rv 236099; conf. Rv 229756; rv 232423).

Ne consegue che quando nel capo di imputazione originario siano – come nel caso di specie – contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizione di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza, non sussiste violazione del principio di doverosa correlazione tra accusa e sentenza. Nella fattispecie in esame non si ravvisa, quindi, alcuna violazione del diritto di difesa, non essendo stato modificato il fatto, ma solo la sua qualificazione giuridica.

Appare, peraltro, corretta la qualificazione della condotta ex art. 483 c.p. trattandosi di falsa attestazione relativa al reddito familiare che integra il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico 2) Vanno esaminati congiuntamente, essendo logicamente connessi, gli ulteriori quattro motivi di ricorso tendenti ad escludere, sotto varie argomentazioni, la sussistenza del reato di falso di cui all’art. 483 c.p. e, conseguentemente, il reato di tentata truffa aggravata ascritto all’imputato. Tutti i motivi sono inammissibili.

Deve ritenersi che ogni qualvolta venga presentata una dichiarazione ideologicamente falsa, in quanto contraria alla realtà, con la consapevolezza da parte dell’ agente di aver fornito una falsa rappresentazione della realtà, non ricorre un’ipotesi di falso irrilevante o innocuo, se la dichiarazione falsa era idonea a perseguire un ingiusto profitto.

Il privato ha l’obbligo giuridico di affermare il vero ogni qual volta sussiste una norma che ricolleghi ai fatti che egli attesta all’ente pubblico determinati effetti, indipendentemente dalla circostanza che la dichiarazione sia autenticata o meno da un pubblico ufficiale, nè vale ad escludere la sussistenza del reato la circostanza che l’attestazione sia soggetta a verifiche o controlli, i quali, in ogni caso, intervengono quando il falso è già consumato.

Nella fattispecie, senza gli accertamenti patrimoniali effettuati dall’Ente, l’imputato avrebbe conseguito un indebito vantaggio costituito dall’attribuzione di un punteggio diverso e superiore a quello che avrebbe ottenuto se avesse dichiarato la sua reale situazione reddituale, comportante, invece, non solo un punteggio inferiore ma anche l’esclusione dalla partecipazione alla gara, avendo conseguito il nucleo familiare un reddito superiore a quello minimo previsto per l’assegnazione degli alloggi.

La dichiarazione fraudolenta è ravvisabile, in fase precontrattuale, non soltanto in caso di falsa dichiarazione del solo reddito percepito dal richiedente, ma anche in caso di omissione colposa del reddito percepito da altro componente del nucleo familiare (nella specie la moglie), ove, ai fini dell’assegnazione dell’alloggio, si faccia riferimento al reddito del nucleo familiare e non a quello del solo richiedente, non potendosi ritenere tale omissione errore scusabile, in quanto la domanda di partecipazione al bando di gara conteneva ripetuti riferimenti al reddito del nucleo familiare e non a quello del solo richiedente, avendo logicamente disatteso la Corte territoriale le argomentazioni del ricorrente tendenti a porre in evidenza la equivocità e la difficile compilazione del modulo di domanda.

Non ricorre, poi, l’ipotesi del falso innocuo, essendo la condotta posta in essere astrattamente idonea ad integrare la condotta incriminata e neppure può parlarsi di falso inutile, che si configura solo quando si ravvisi l’inesistenza dell’oggetto, come quando esso ricada su un atto privo di ogni valenza probatoria (sez. 5A 5.7.90, Casarola).

Il reato di tentata truffa aggravata è configurabile anche nella fase iniziale della procedura di assegnazione degli alloggi allorquando una delle parti induca in errore l’altra parte con artifizi e raggiri consistenti in una falsa dichiarazione del possesso dei requisiti, idonea, come nella specie, a conseguire un ingiusto profitto con altrui danno (per l’applicazione di analogo principio, nel caso di reato di truffa finalizzata all’assunzione di un pubblico impiego cfr Sez. 2, Sentenza n. 8584 del 3/02/2010 Cc. (dep. 03/03/2010) Rv. 246636).

3) Per quanto riguarda, poi, la pena, vicina al minimo edittale, che è stata individuata dal Giudice, questa Corte ha più volte affermato che: "In tema di commisurazione della pena, quando questa venga compresa nel minimo o in prossimità del minimo, la motivazione non deve necessariamente svilupparsi in un esame dei singoli criteri elencati nell’art. 133 cod. pen., essendo sufficiente il riferimento alla necessità di adeguamento al caso concreto". Sez. 2, Sentenza n. 43596 del 07/10/2003 Cc. (dep. 13/11/2003) Rv. 227685. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

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