Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 24-02-2011) 13-06-2011, n. 23590 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 25 novembre 2009 la Corte di appello di Catania confermava la sentenza emessa in data 29 settembre 2003 dal Tribunale di Catania con la quale:

– A.A. veniva dichiarato colpevole del reato continuato di detenzione e cessione di marijuana commesso in Catania fino al dicembre 1995 (capo B) e, ritenuta sussistente l’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e veniva condannato alla pena di anni due di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa;

– P.A. veniva dichiarato colpevole del reato continuato di detenzione a fine di spaccio e cessione di eroina commesso in Catania fino a gennaio 1996 (capo D) e, ritenuta sussistente l’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, veniva condannato alla pena di anni tre di reclusione ed Euro 3.300,00 di multa;

– S.A. (assolto per insussistenza del fatto in ordine alle cessioni di stupefacente a L.L. e F.E.) veniva dichiarato colpevole del reato continuato di detenzione a fine di spaccio e cessione di eroina, limitatamente alla cessione a V. G., commesso in Catania fino al gennaio 1996 (capo C1) e veniva condannato, ritenuta sussistente l’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, alla pena di anni tre di reclusione ed Euro 3.300,00 di multa;

– D.L.A. veniva dichiarato colpevole del reato continuato, commesso in Catania fino al dicembre 1995, di detenzione a fine di spaccio e di cessione di eroina e marijuana (capo E1) e veniva condannato, ritenuta sussistente l’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, alla pena di anni tre di reclusione ed Euro 3.300,00 di multa;

– T.C. veniva dichiarato colpevole dei reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (capo A) e del reato continuato, commesso in Catania fino al marzo 1996, di detenzione a fine di spaccio e cessione di eroina e cocaina (capo A1) e, esclusa l’aggravante di essere l’organizzatore o il promotore dell’associazione, ritenuta sussistente l’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e, correlativamente, l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, ritenuta la continuazione, veniva condannato alla pena di anni sei, mesi sei di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa;

– G.D. veniva dichiarato colpevole dei reati di partecipazione ad associazione per delinquere (capo A D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6) e del reato continuato, commesso in Catania fino al marzo 1996, di detenzione a fine di spaccio e cessione di eroina e cocaina (capo A1) di cessione di eroina e cocaina (con esclusione delle cessioni a M.C., in ordine alle quali veniva assolto per insussistenza del fatto) e veniva condannato, ritenuta la continuazione con la sentenza di condanna emessa il 9 febbraio 1998 dalla Corte di appello di Catania, irrevocabile il 5 novembre 1998, alla pena di anni uno, mesi otto di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa;

– O.M. veniva dichiarato colpevole dei reati di partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (capo A) e del reato continuato, commesso in Catania fino al maggio 1996, di detenzione a fine di spaccio e cessione di eroina e cocaina (capo A1) e, ritenuta sussistente l’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e, correlativamente, l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, ritenuta la continuazione, veniva condannato alla pena di anni sei, mesi sei di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa;

– D.N. veniva dichiarato colpevole del reato di false dichiarazioni al pubblico ministero (capo M: art. 371 bis c.p.), commesso il 6 giugno 1996 (rectius, il 31 maggio 1996), e veniva condannato, con le circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi sei di reclusione.

Il T., il G. e l’ O. erano stati condannati inoltre alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena e della sospensione per lo stesso periodo dalla potestà genitoriale.

Era stata, infine, disposta l’applicazione nei confronti dello S. e del D.L. della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, e nei confronti di tutti gli imputati, tranne che del D., delle pene accessorie del divieto di espatrio e del ritiro della patente di guida per anni due.

Nella sentenza di appello viene richiamata nella sua totalità la motivazione della sentenza del Tribunale, che la Corte territoriale "fa propria" e si evidenziano in particolare, quali elementi di responsabilità, le dichiarazioni di C.R. (tossicodipendente ucciso dopo aver reso le dichiarazioni accusatorie nella fase delle indagini preliminari sia alla polizia giudiziaria che al pubblico ministero) e di Z.A. (il quale aveva confermato le sue accuse anche nel corso dell’esame dibattimentale), le indagini di polizia giudiziaria e, inoltre, relativamente al reato associativo, le intercettazioni telefoniche.

Il giudice di appello ha posto in rilievo che l’abitazione fatiscente dell’ O. il punto di riferimento logistico per lo spaccio di sostanze stupefacenti, mentre il bar (OMISSIS) era il punto d’incontro degli spacciatori.

Avverso la sentenza di appello i predetti imputati hanno proposto – personalmente il P. e il D. e tramite i rispettivi difensori gli altri – ricorso per cassazione.

Con il ricorso proposto nell’interesse di A.A. si deduce:

1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) essendo la motivazione, che richiama integralmente la sentenza di primo grado, carente anche con riferimento alla possibilità di verificare il calcolo della pena in concreto;

2) l’estinzione del reato ( D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4) per intervenuta prescrizione ai sensi della normativa sulla prescrizione anteriore all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, tenuto conto del riconoscimento dell’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Con il ricorso di P.A., proposto personalmente, si deduce:

1) l’inosservanza dell’art. 530 c.p.p., comma 2 in quanto nel corso dell’istruttoria dibattimentale V.G. aveva escluso con certezza di conoscere il P., a differenza di quanto aveva dichiarato nel corso delle indagini preliminari alla Polizia e poi al pubblico ministero, ed aveva giustificato in maniera plausibile la difformità delle dichiarazioni (all’epoca era tossicodipendente e aveva subito pressioni da parte dei verbalizzanti);

2) la mancanza di motivazione essendosi la Corte territoriale, quanto alle doglianze formulate dall’imputato con l’atto di appello, limitata ad affermare di condividere "il percorso argomentativo seguito dal primo giudice".

Con il ricorso presentato nell’interesse di S.A. si deduce:

1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 605 c.p.p. e al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, in quanto la motivazione sarebbe solo apparente, mancando una valutazione critica in ordine alle doglianze dei singoli imputati, che hanno diverse posizioni processuali; inoltre il teste V., tossicodipendente acquirente, in dibattimento non avrebbe confermato le accuse rese nel corso delle indagini preliminari nè avrebbe riconosciuto in fotografia lo S., smentendo il riconoscimento fotografico operato ai sensi dell’art. 361 c.p.p.;

2) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione agli artt. 605 e 442 c.p.p. e agli artt. 62 bis e 81 c.p., per omessa motivazione in ordine alla richiesta di applicazione della diminuente per il giudizio abbreviato (il pubblico ministero aveva prestato il consenso, il giudice per l’udienza preliminare l’aveva negato, il procuratore generale aveva chiesto l’applicazione della diminuente all’udienza del 25 novembre 2009), del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, del vincolo della continuazione con i fatti di cui alla sentenza della Corte di appello di Catania del 20 marzo 2001, irrevocabile il 5 giugno 2001;

3) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 129 c.p.p., comma 1 e all’art. 157 c.p. come riformulato dalla L. n. 251 del 2005; nella discussione orale, all’udienza del 25 novembre 2009, era stata richiesta l’applicazione della prescrizione, ma nella sentenza impugnata non era stata data nessuna risposta; il reato era stato commesso fino al gennaio 1996, mentre il decreto di citazione per il giudizio di appello (la cui emissione, secondo il ricorrente, determina la pendenza del procedimento in appello) era stato emesso il 9 ottobre 2008; poichè la pena detentiva massima per il reato ritenuto in sentenza era di anni sei, la prescrizione massima di anni sette, mesi sei sarebbe decorsa.

Con il ricorso proposto nell’interesse di D.L.A. si deduce la violazione di legge e la mancanza di motivazione per l’omessa valutazione delle doglianze difensive (l’unica cessione di stupefacenti, ritenuta sulla base di dichiarazioni testimoniali, non sarebbe stata collocata precisamente nel tempo, mentre sarebbe concreta la dedotta violazione del "ne bis in idem" essendo stato il D.L. già condannato con sentenza irrevocabile per lo stesso delitto, accertato fino al 7 luglio 1994; il ricorrente evidenzia la genericità delle accuse di C.R., da cui non poteva desumersi il ruolo svolto dal D.L. nè la collocazione temporale della sua condotta, e si duole dell’utilizzo delle dichiarazioni rese da Z.A. nel corso delle indagini preliminari; il ricorrente si duole anche della mancata applicazione della diminuente dell’art. 442 c.p.p., avendo egli fatto richiesta di giudizio abbreviato nel corso dell’udienza preliminare ed essendo il quadro probatorio a suo carico rimasto immutato all’esito del dibattimento, nonchè della mancata applicazione della continuazione con i fatti di cui alla sentenza del 1 giugno 1995 emessa dal Tribunale di Catania nel proc. 1123/94; si evidenzia, infine, la mancanza di motivazione anche in ordine alla richiesta di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, formulata in sede di conclusioni nell’ambito del giudizio di appello.

Con il ricorso presentato nell’interesse di T.C. si deduce:

1) la violazione di legge con riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, essendo stata affermata la responsabilità per il reato associativo nonostante la limitata durata dei rapporti tra il T. e gli altri tre condannati per il suddetto reato, la mancanza di un vincolo esteso ad un generico programma criminoso e di un’organizzazione stabile nonchè di una suddivisione dei ruoli;

dalle deposizioni dei testi che avevano confermato le dichiarazioni accusatorie in dibattimento e dalle dichiarazioni acquisite ai sensi dell’abrogato art. 500 c.p.p. (la sentenza di primo grado, pur essendo il processo iniziato nell’anno 1996, è stata emessa solo nell’anno 2003) risulterebbe che il T. aveva solo rapporti occasionali con i coimputati Su., G. e O.; il T. peraltro era stato accusato in dibattimento solo dal teste Tu., mentre le dichiarazioni accusatorie del C. erano state acquisite ex art. 512 c.p.p. e il teste M. aveva ritrattato le iniziali accuse in dibattimento; il teste Z., inoltre, aveva confermato parte delle dichiarazioni accusatorie precedentemente rese solo previa contestazione; le dichiarazioni fatte dai tossicodipendenti acquirenti nel corso delle indagini preliminari erano state poi confermate in dibattimento dai verbalizzanti ai sensi dell’art. 195 c.p.p., comma 4 nella vecchia formulazione, antecedente all’entrata in vigore della L. n. 63 del 2001; dalle intercettazioni, infine, emergerebbero telefonate solo tra il T. e il G.;

2) la carenza di motivazione sulle singole posizioni e sui relativi motivi di appello, con particolare riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6;

3) la violazione di legge con riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 in quanto mancherebbero riscontri probatori alle accuse; sono esposte le medesime doglianze indicate con il primo motivo;

4) la manifesta carenza della motivazione con riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5; sono esposte le medesime doglianze indicate con il secondo motivo;

5) la manifesta carenza della motivazione in ordine alla richiesta di non doversi procedere per prescrizione formulata all’udienza del 25 novembre 2010;

6) la violazione di legge con riferimento all’art. 157 c.p. in ordine al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 dovendosi ritenere interrotta la permanenza del reato associativo con l’arresto; si sarebbe dovuto applicare la disciplina più favorevole anche relativamente al reato previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5; si sarebbe comunque dovuto valutare il tempus commissi delicti con riferimento ai periodi temporali indicati dai soggetti che avevano accusato il T..

Con il ricorso presentato nell’interesse di G.D. si deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) in relazione agli artt. 192 e 546 c.p.p. quanto alla ritenuta appartenenza al sodalizio criminoso e all’attività di spaccio, stante il richiamo integrale alle motivazioni del giudice di primo grado e l’incongruità dell’indicazione dell’abitazione di O. quale punto di riferimento logistico per lo spaccio di stupefacenti e del bar (OMISSIS) quale punto d’incontro degli spacciatori.

Con il ricorso presentato nell’interesse di O. si deduce:

1) l’assoluta mancanza di motivazione, avendo omesso la Corte territoriale di esaminare e valutare le doglianze difensive;

2) l’inosservanza di norme processuali previste a pena di inutilizzabilità, con riferimento all’art. 195 c.p.p., u.c. e, in particolare, alle dichiarazioni generiche e imprecise del teste Z. il quale non aveva avuto una percezione diretta dei fatti;

le sue dichiarazioni sarebbero rimaste prive di riscontro, non essendo state esaminate le fonti dirette, e sarebbero inutilizzabili;

3) la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p., comma 3, con riferimento alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni dell’imputato di reato connesso Z.A., prive di riscontri;

4) la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 62 bis e 133 c.p., essendo state negate le circostanze attenuanti generiche e non essendo stata ridotta la pena anche con riferimento ai pregiudizi penali degli imputati (mentre O. sarebbe gravato da un unico precedente penale, successivo alla commissione dei reati per cui si procede).

Con il ricorso di D.N., presentato personalmente, si deduce:

1) la carenza di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità relativamente al reato previsto dall’art. 371 bis c.p.; si chiede l’applicazione dell’art. 384 c.p. per avere l’imputato agito, in mancanza di misure protettive della sua incolumità, al fine di evitare un danno grave e irreparabile alla sua persona; comunque la divergenza tra quanto dichiarato alla Polizia e quanto dichiarato al pubblico ministero dipenderebbe dalla mancanza di memoria e dalla scarsa lucidità del D., il quale all’epoca faceva uso giornaliero di eroina;

2) l’eccessività della pena, rispetto all’incensuratezza e alla condotta dell’imputato;

3) l’erronea applicazione della legge penale con riferimento " all’art. 162 c.p.p." per la mancata applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena;

4) l’erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art. 157 c.p..

Va premesso – relativamente alla doglianza comune a quasi tutti i ricorrenti circa la carenza di motivazione – che effettivamente la sentenza impugnata, dopo una dettagliata indicazione dei motivi di appello proposti dai singoli imputati, ha fatto un pressochè integrale richiamo alle motivazioni della sentenza appellata, limitandosi ad enunciare i principali elementi di responsabilità emersi dall’istruttoria dibattimentale (dichiarazioni testimoniali, "riconoscimenti informali", indagini di polizia giudiziaria e, con specifico riguardo al reato associativo, intercettazioni telefoniche) e ad affermare la congruità delle pene determinate dal giudice di primo grado.

La Corte rileva, tuttavia, che è consolidata la giurisprudenza di legittimità nel senso che la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando:

1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione;

2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione;

3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione (Cass. Sez. Un. 21 giugno 2000 n. 17, Primavera; sez. 4^, 20 gennaio 2004 n. 16886, Rinero).

In particolare questa Corte ha affermato più volte (Cass. sez. 4^ 17 settembre 2008 n.38824, Raso; sez. 6^ 12 giugno 2008 n. 35346, Bonarrigo sez. 6^ 14 giugno 2004 n.31080, Cerrone; sez. 6^ 20 aprile 2005 n. 6221, Aglieri) che nel giudizio di appello è consentita la motivazione per relationem, con riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate a carico della sentenza del primo giudice non contengano elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e disattesi dallo stesso.

La motivazione della sentenza impugnata non può pertanto prescindere dall’esame del contenuto dei motivi di appello presentati dai singoli imputati ricorrenti e dal loro grado di specificità, dovendosi escludere che il giudice di appello sia tenuto a riesaminare questioni formulate genericamente nei motivi di gravame che siano state già risolte con argomentazioni corrette e immuni da vizi logici dal primo giudice.

Quanto alla prescrizione dei reati, richiesta da quasi tutti i ricorrenti, la Corte ritiene che ai fini della determinazione della data di estinzione per prescrizione dei reati debba trovare applicazione la disciplina antecedente all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, poichè alla data di entrata in vigore della predetta Legge (8 dicembre 2005) il procedimento era già pendente in grado di appello (cfr. sentenza della Corte costituzionale n.393/2006) essendo stata la sentenza di primo grado emessa il 29 settembre 2003.

Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie di cui alla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, la pendenza del grado di appello, che rileva per escludere la retroattività delle norme sopravvenute più favorevoli, ha inizio con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, che deve ritenersi intervenuta con la lettura del dispositivo (Cass. Sez. Un. 29 ottobre 2009 n. 47008, D’Amato; sez. 5^ 16 aprile 2009 n.25470, Lala sez. 5^ 16 gennaio 2009 n. 7697, Vener; sez. 5^ 5 dicembre 2008 n. 2076, Serafini; sez. 6^ 10 ottobre 2008 n. 40976, Nobile; sez. 5^ 19 giugno 2008 n. 38720, Rocca; sez. 6^ 26 maggio 2008 n. 31702, Serafin).

Ne consegue che, relativamente alla partecipazione al reato associativo previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 (punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni, applicandosi il secondo comma dell’art. 416 c.p.) e al reato previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 5 (punito all’epoca del fatto con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da L. 5.000.000 a L. 50.000.000) il termine ordinario di prescrizione è di dieci anni e quello massimo di quindici anni.

Relativamente al reato previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 2 e 4 (sanzionato con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da L. 2.000.000 a L. 20.000.000) e a quello previsto dall’art. 371 bis c.p. (ascritto al solo imputato D.) il termine ordinario di prescrizione è di cinque anni e quello massimo di sette anni e sei mesi.

L’applicazione della disciplina anteriore all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 è peraltro più favorevole ai fini della prescrizione, tenuto conto che nel caso in esame deve tenersi conto del trattamento sanzionatorio meno afflittivo previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, – attraverso la differenziazione delle pene e dei termini di prescrizione in ragione dell’appartenenza delle sostanze stupefacenti alle tabelle 1^ e 3^ o alle tabelle 2^ e 4^ – prima della modifica introdotta dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49.

Va inoltre tenuto conto, nella determinazione del termine massimo di prescrizione, del periodo di sospensione intervenuto nel corso del giudizio di appello, dal 1^ aprile 2009 al 29 aprile 2009 per astensione dalle udienze dei difensori (ventotto giorni), dal 29 aprile al 24 giugno 2009 per impedimento di un difensore (mesi uno, giorni ventisei), dal 24 giugno 2009 al 25 novembre 2009 per impedimento di un difensore (sessanta giorni), per un periodo complessivo di mesi quattro, giorni ventiquattro.

Passando all’esame dei singoli ricorsi, la Corte osserva quanto segue.

Il ricorso dell’imputato A. è fondato per quanto riguarda il secondo motivo, relativo alla mancata dichiarazione di estinzione del reato ascrittogli per prescrizione.

Infatti il ricorrente è stato condannato in relazione al reato previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, previo riconoscimento dell’attenuante del fatto di lieve entità prevista dal comma 5, commesso fino al dicembre 1995.

Il reato si è prescritto il 1^ giugno 2003 (tenuto conto che il periodo di sospensione della prescrizione è intervenuto solo nel giudizio di appello e non deve, pertanto, essere computato), prima ancora della sentenza di appello emessa il 25 novembre 2009.

Il primo motivo è del tutto generico e, comunque, nella sentenza di primo grado, integralmente richiamata in quella di appello, risultano evidenziati concreti elementi di responsabilità (dettagliate dichiarazioni di Z.A., il quale aveva più volte riconosciuto sia in fotografia che di persona l’imputato;

dichiarazioni del teste D.G.).

Nei confronti dell’ A. la sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio per essere il reato a lui ascritto estinto per prescrizione.

Il ricorso dell’imputato P. è inammissibile.

Il primo motivo tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito.

Nel caso in esame il giudice di primo grado aveva ineccepibilmente osservato che la prova della responsabilità dell’imputato relativamente alle cessioni di sostanza stupefacente si desumeva dalle dichiarazioni del teste V., le cui "titubanze dibattimentali" apparivano poco convincenti anche perchè nel corso delle indagini preliminari il teste aveva ribadito sia alla polizia giudiziaria che, a distanza di quattro mesi circa, al pubblico ministero le dichiarazioni accusatorie non solo nei confronti del P. ma anche del coimputato S..

Il Tribunale osservava inoltre che le dichiarazioni accusatorie dovevano ritenersi attendibili anche alla luce delle deposizioni dei testi isp. Ma. e viceisp. Ta..

Le conclusioni circa la responsabilità del ricorrente risultano quindi congruamente giustificate dal giudice di merito attraverso una puntuale valutazione delle emergenze dibattimentali, che ha consentito una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni.

Tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede non essendo il controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e plausibile.

Il secondo motivo è manifestamente infondato per quanto sopra detto circa la legittimità della motivazione per relationem ed anche per la genericità della doglianza, non avendo il ricorrente indicato specificamente i motivi di gravame che sarebbero stati immotivatamente disattesi.

Il ricorso dell’imputato S. è fondato limitatamente al secondo motivo.

Infatti il primo motivo è manifestamente infondato poichè il giudice di primo grado aveva fornito un’adeguata motivazione circa la ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni dibattimentali del teste V. le cui iniziali accuse, formulate sia dinanzi alla polizia giudiziaria che dinanzi al pubblico ministero, dovevano invece essere considerate credibili perchè rese, secondo quanto riferito dal teste isp. Ma. nonchè dal teste viceisp. Ta., in termini di certezza e corredate da riconoscimenti fotografici del ricorrente.

Il terzo motivo è manifestamente infondato poichè nel caso in esame non risulta decorso il termine massimo quindicennale di prescrizione, cui va sommato il periodo di sospensione di mesi quattro, giorni ventiquattro, a decorrere dal gennaio 1996 (il termine massimo è quello del 24 maggio 2011).

Il secondo motivo è, invece, fondato poichè non risulta dalla motivazione della sentenza impugnata che la Corte territoriale abbia preso in considerazione le richieste difensive relative di applicazione della continuazione, della diminuente per il rito abbreviato e delle attenuanti generiche formulate in maniera specifica nell’atto di appello.

Ne consegue l’annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Catania per nuovo giudizio sul punto.

Il ricorso dell’imputato D.L. è fondato limitatamente all’omessa pronuncia sulle richieste di applicazione del "ne bis in idem" (la cui valutazione è preliminare anche rispetto all’eventuale prescrizione della parte dell’imputazione che si riferisce al reato di detenzione a fine di spaccio e di cessione di marijuana prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 4, con la riconosciuta attenuante prevista dal fatto di lieve entità), della diminuente per il rito abbreviato e della continuazione. Infatti risulta che oggetto dell’atto di appello del D.L. erano, oltre alla richiesta di assoluzione, anche quella di non doversi procedere per precedente giudicato, di applicazione della riduzione per la richiesta di giudizio abbreviato immotivatamente negata dal giudice di primo grado e, comunque, del riconoscimento del vincolo della continuazione con i fatti oggetto della sentenza emessa il 1^ giugno 1995 dal Tribunale di Catania nel proc. n. 1123/94 R.G..

Su dette specifiche e argomentate richieste la Corte territoriale non si è pronunciata e si impone pertanto, limitatamente ad esse, l’annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Catania per nuovo giudizio sul punto.

Per il resto il ricorso del D.L. va dichiarato inammissibile, nella parte in cui si sofferma su aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito.

Nella motivazione della sentenza di primo grado vengono peraltro evidenziati quali elementi di responsabilità a carico del D.L. precisi e convergenti elementi di responsabilità desunti dalle dichiarazioni del teste C. (deceduto nel corso delle indagini preliminari, il C. aveva confermato al pubblico ministero in data 7 giugno 1996 le dichiarazioni e le individuazioni fotografiche effettuate alla Polizia il 17 maggio precedente; i verbali delle sue dichiarazioni sono stati acquisiti, ai sensi dell’art. 512 c.p.p., e sono pienamente utilizzabili) e dalle dichiarazioni, confermate in dibattimento, dal teste Z. anche relativamente al riconoscimento in fotografia dell’imputato oltre che dalle dichiarazioni del teste ispettore P.S. Ga..

Quanto alla prescrizione, va rilevato che quanto meno con riferimento all’attività criminosa avente ad oggetto la detenzione e la cessione di eroina la prescrizione massima quindicennale dalla data di commissione del reato (dicembre 1995) non è ancora maturata, dovendosi anche tener conto della sospensione del termine di prescrizione di mesi quattro e giorni ventiquattro nel corso del processo di appello.

Il ricorso dell’imputato T. è inammissibile.

Il primo e il terzo motivo ripropongono generiche censure in fatto già formulate con l’atto di appello e ritenute dal giudice di primo grado, con ampia motivazione integralmente ripresa nella motivazione della sentenza impugnata, infondate.

Il giudice di primo grado aveva infatti evidenziato, quanto ai reati ascritti al T., le convergenti dichiarazioni rese da C. R., Tu.Do., M.C., Z. A. e dal D. nonchè il contenuto delle dichiarazioni dei testi D.G. e Ga..

Nell’atto di appello l’imputato si era limitato solo ad una generica contestazione dei presupposti per affermare la responsabilità in ordine al reato associativo, formulando le censure in modo stereotipato, senza riferimenti alla fattispecie concreta e senza alcun collegamento con i passaggi della motivazione della sentenza impugnata, e ad una richiesta di attenuazione della pena (cui, comunque, il giudice di appello aveva dato una motivata risposta negativa) e di applicazione della continuazione con i fatti oggetto di una non meglio individuata sentenza di condanna per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

La genericità dell’appello rende del tutto legittima la motivazione per relationem oggetto di doglianza nel secondo e nel quarto motivo di ricorso.

Il quinto e il sesto motivo sono manifestamente infondati.

Per quanto detto in premessa nè il reato associativo, la cui permanenza il ricorrente assume apoditticamente cessata con l’arresto, quello previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 commesso fino al marzo 1996 e avente ad oggetto eroina e cocaina, sono prescritti non essendo decorso il termine massimo quindicennale, cui va aggiunto il periodo di sospensione di mesi quattro e giorni ventiquattro.

Il ricorso dell’imputato G. è inammissibile.

Quanto alla motivazione per relationem va ribadito quanto esposto in premessa, con il rilievo che l’appello proposto dall’imputato si presentava del tutto generico, a fronte della motivazione della sentenza di primo grado che indicava in maniera specifica e dettagliata i convergenti elementi di responsabilità a carico dell’imputato sia in ordine al reato associativo che a quello previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Le ulteriori deduzioni difensive sono del tutto generiche (tra l’altro, asserita identità dei fatti oggetto della sentenza di condanna per i quali è stata riconosciuto in primo grado il vincolo della continuazione con quelli oggetto del presente procedimento) e non consentono comunque di individuare quali doglianze in particolare il ricorrente intenda formulare relativamente all’affermazione della sua responsabilità che nella motivazione della sentenza di primo grado (ff.9, 10), integralmente richiamata nella motivazione della sentenza impugnata, risulta fondata su un’esauriente e dettagliata disamina delle circostanziate dichiarazioni accusatorie rese da C.R., Tu.Do., Z.A., D.N. nonchè delle dichiarazioni testimoniali degli ispettori Ga. e D.G..

Il ricorso dell’imputato O. è inammissibile.

Quanto al primo motivo la Corte ne rileva la manifesta infondatezza poichè nell’atto di appello veniva unicamente proposta una diversa lettura delle risultanze dibattimentali nella prospettiva difensiva, a fronte della puntuale e specifica motivazione del giudice di primo grado, integralmente condivisa dal giudice di appello, circa l’esistenza di numerosi e concordanti elementi di responsabilità.

Manifestamente infondate sono, in particolare, le doglianze, contenute nel secondo e nel terzo motivo di ricorso, in relazione alle dichiarazioni accusatorie di Z.A. in quanto nella motivazione della sentenza di primo grado, integralmente richiamata dal giudice di appello, si poneva in evidenza che il teste, tra l’altro, aveva confermato in dibattimento il riconoscimento fotografico dell’imputato, indicato per nome, di cui aveva specificato il ruolo (conservava eroina e marijuana in una casa fatiscente frequentata anche dal T.) riferendo fatti appresi direttamente ("…vedevo indirizzarsi alcuni degli spacciatori di cui ho parlato, come per esempio il ma. che ho sentito chiamarsi dalla S.V. T., da Mi. veniva conservata droga che soprattutto nella zona di via (OMISSIS) veniva spacciata…") e venivano richiamati plurimi elementi di riscontro alle dichiarazioni accusatorie (dichiarazioni dei testi D. G., Ma., Gi. e Ta.) che nel ricorso non vengono presi nemmeno in considerazione.

Manifestamente infondato è anche il quarto motivo, dovendosi ritenere che la genericità della richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non comportasse l’obbligo di una specifica motivazione per il giudice di appello che, comunque, ha ritenuto di confermare le pene determinate dal giudice di primo grado con una motivazione che, seppur estremamente sintetica, prende in considerazione sia la gravità dei reati che la personalità degli appellanti secondo quanto prescritto dall’art. 133 c.p..

Il ricorso dell’imputato D. è fondato limitatamente al quarto motivo di ricorso.

Il primo motivo è manifestamente infondato poichè in tema di reati contro l’amministrazione della giustizia, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte, l’esimente di cui all’art. 384 c.p., comma 1, non è configurabile quando il grave nocumento riguardi l’integrità fisica dell’autore o del prossimo congiunto (Cass. sez. 6^ 8 aprile 2008 n. 26560, Enriquez; sez. 6^ 23 marzo 2006 n. 12799, Dell’Unto; sez. 6^ 21 ottobre 2003 n.4895, Piesco) e comunque nel caso di specie il pericolo di un danno grave alla persona risulta essere stato solo genericamente temuto (Cass. sez. 6^ 7 maggio 2009 n. 34595, Lo Scrudato).

Il secondo e il terzo motivo sono del tutto generici e comunque la fondatezza del quarto motivo relativo all’intervenuta prescrizione ne preclude l’esame.

Infatti le false dichiarazioni rese al pubblico ministero sono state rese il 6 giugno 1996, secondo la contestazione (nella motivazione della sentenza di primo grado, f. 24, si fa riferimento alla data del 31 maggio 2006) e il termine massimo di prescrizione di sette anni e sei mesi era decorso alla data del 6 dicembre 2003, prima della sentenza di appello intervenuta il 25 novembre 2009 (tenuto conto che la sospensione della prescrizione è intervenuta solo nel giudizio di appello).

Nei confronti del D. la sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio per essere il reato a lui ascritto estinto per prescrizione.
P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di A. A. e D.N. perchè i reati loro ascritti sono estinti per intervenuta prescrizione.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di S.A. limitatamente all’omessa pronuncia sulle richieste di applicazione della continuazione, della diminuente per il rito abbreviato e delle attenuanti generiche e nei confronti di D.L.A. limitatamente all’omessa pronuncia sulle richieste di applicazione del "ne bis in idem", della diminuente per il rito abbreviato e della continuazione, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Catania per nuovo giudizio sul punto.

Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi dei predetti imputati.

Dichiara inammissibili i ricorsi di P.A., T. C., G.D. e O.M., che condanna al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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