Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
OSSERVA
Gli imputati in epigrafe impugnano per cassazione la sentenza che ne ha confermato la dichiarazione di colpevolezza in ordine al delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione al dissesto economico della Ragip s.p.a. e della Rankplast s.p.a., fallite nel 1993, società delle quali erano stati amministratori legali per vari periodi.
Gli episodi di bancarotta concernono, nell’ambito del fallimento Ragip:
– la cessione alla Proinopach s.r.l. dei contratti di leasing attinenti a macchinari del reparto di confezionamento e taglio (capo A: riguarda S.G.);
– la dissipazione e/o distrazione di una macchina da stampa Uteco (capo B: riguarda lo S.G., R.E. e G. S.);
– l’appropriazione della somma di L. 196.662.278 (capo C: riguarda il solo R.E.);
e, nell’ambito del fallimento Rankplast:
– la distrazione del credito di tre miliardi, vantato dalla società nei confronti della Greenplast, società controllata al 100 % dalla Rank (capo I, concernente lo S.G. e R.C.);
– il finanziamento a fondo perduto in favore della Agritel s.p.a.
(vicenda Omicronn s.p.a.) (capo 3: riguarda R.E.).
Vi è stato inoltre, per quanto ancora qui interessa, proscioglimento, in secondo grado, dal reato ex artt. 110 c.p., art. 2621 c.c., L. Fall., art. 223 (capo E, fall. Ragip), perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato, e, in primo grado, dal delitto ex art. 110 c.p., L. Fall., art. 217, comma 4, art. 224 (capo F, fall. Rapig), per intervenuta prescrizione; ed anche su tali punti vi è stata impugnazione da parte degli interessati.
1. Vanno esaminate per prime talune questioni che, seppure siano state proposte soltanto da qualcuno dei ricorrenti, per la loro portata d’indole generale, riguardano tutti.
– In siffatta prospettazione, la priorità spetta al 1^ motivo del R.E., che denuncia violazione ex art. 606 c.p.p., lett. b, c, e, in riferimento alla L. Fall., artt. 216 e art. 43 c.p..
Lamenta il ricorrente che la corte territoriale non abbia fornito adeguata risposta al rilievo difensivo, secondo cui i fatti ascrittigli si erano verificati tutti in periodi in cui in entrambe le società lo stato di dissesto non si era ancora manifestato nè appariva prevedibile; circostanza che non poteva non riflettersi anche sulla indagine relativa al dolo, anche alla luce della recente modifica legislativa alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, che evidenzia ancora più la necessità che anche nelle altre fattispecie di bancarotta il dissesto economico resti al meno in chiaro sottofondo del dolo.
Analogo rilievo esprime, sia pure in modo più conciso, il 2 motivo del ricorso G.S., laddove si afferma che "il danno per la par condicio creditorum presuppone la apertura della procedura concorsuale che, a sua volta, presuppone lo stato di insolvenza, che deve essere quindi, alieno quello, conosciuto o, quanto meno, previsto e prevedibile".
Tali argomentazioni non possono essere condivise.
La giurisprudenza di questa Corte, formatasi sulla base di un’attenta interpretazione della norma incriminatrice, si è da tempo orientata, ed in maniera sempre più costante (Sez. 5, 22 aprile 1998, De Benedetti; Sez. 5, 22 giugno 1990, Bordoni; Sez. 5, 14 aprile 1987, Selli), nell’affermare che nel reato di bancarotta fraudolenta (L. Fall., art. 216) i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Tutte le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o psichico tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, sicchè nè la previsione dell’insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell’atto dispositivo, nè la percezione della sua preesistenza nel momento del compimento dell’atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell’antigiuridicità penale della condotta. E del resto, quando il legislatore ha ritenuto necessaria l’esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell’ambito della L. Fall., art. 223, distinguendo le condotte previste dalla L. Fall., art. 216 (L. Fall., art. 223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto economico della società (L. Fall., art. 223, comma 2), per modo che solo in tali ultime fattispecie delittuose è previsto un nesso causale o psichico tra condotta ed evento.
– Sempre il R.E., con la memoria integrativa 22 gennaio 2008, sul rilievo che non ha partecipato ai fatti a lui imputati e non è stato causa del dissesto che ha condotto le due società al fallimento, invoca "la non punibilità per effetto del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, art. 4 che ha novellato la L. Fall., art. 223, in quanto è decorso oltre un anno dall’uscita dalla carica sociale antecendete la dichiarazione di fallimento".
La deduzione è priva di qualsiasi fondamento giuridico, dal momento che per nessuna delle imputazioni che riguardano il ricorrente, come pure per nessuno degli altri ricorrenti, è stato contestato l’aver cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, o l’aver cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società: condizioni che riguardano le ipotesi di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, nn. 1 e 2, estranee al procedimento de quo, che, viceversa, contempa contestazioni L. Fall., ex art. 223, comma 1, per le quali, come appena sopra chiarito, la ricorrenza di tali condizioni non è affatto richiesta.
E non a caso,per ciò che concerne il capo B (art. 2621 c.c., L. Fall., art. 223), il giudice d’appello, in tanto ha pronunciato il proscioglimento perchè il fatto non è più preveduto dalla legge come reato, in quanto ha rilevato che del nuovo elemento costitutivo del reato, introdotto dal D.Lgs. n. 61 del 2002, art. 4, vale a dire il nesso causale tra condotta e dissesto,non vi è menzione nel capo di imputazione.
– In sede di discussione il difensore del R.E. ha sviluppato la tematica, già anticipata nella memoria integrativa, afferente al trasferimento di risorse infragruppo e quindi al cd.
"interesse di gruppo", che, secondo la riformulazione dell’art. 2634 c.c., escluderebbe o quanto meno renderebbe problematica la configurabilità dei contestati reati di bancarotta.
Deve però affermarsi al riguardo, in sintonia con la giurisprudenza di legittimità formatasi sul tema, che la condotta di bancarotta patrimoniale per distrazione, prevista dalla L. Fall., art. 216, che esige una finalità di danno per i creditori, è in rapporto di specialità reciproca con quella di infedeltà patrimoniale, prevista dall’art. 2634 c.c. che presuppone un conflitto di interessi da cui consegua un danno per la società ed esige una finalità di ingiusto profitto per l’agente o di vantaggio per i terzi (Cass. Sez. 2, 26 ottobre 2005, Francis, con riferimento al rapporto tra infedeltà patrimoniale e appropriazione indebita). In realtà è possibile non solo un’attività distrattiva che non integri l’infedeltà patrimoniale, per mancanza di conflitto di interessi, ma anche un’infedeltà patrimoniale che non integri distrazione, come ad esempio la stipulazione, in situazione di conflitto di interessi, di un appalto di servizi oneroso. La L. Fall., art. 223, d’altro canto, prevede innanzitutto, al comma 1, che gli amministratori di società dichiarate fallite rispondano dei fatti di bancarotta previsti dalla L. Fall., art. 216, inclusa la distrazione; e aggiunge poi, al comma 2, che rispondono a titolo di bancarotta anche gli amministratori che abbiano cagionato il dissesto della società commettendo alcuni fatti, tra i quali quello previsto dall’art. 2634 c.c.. Ne consegue che le fattispecie previste dalla L. Fall., art. 223, commi 1 e 2, possano concorrere anche nel caso in cui siano attività distrattive a cagionare il fallimento (Cass. Sez. 5, 24 giugno 1992, Chiabotti, Cass. Sez. 5, 22 settembre 1999, De Rosa). E altrettanto deve ritenersi nell’ipotesi prevista dall’art. 2634 c.c., perchè si perverrebbe altrimenti all’assurda conseguenza che la condotta di infedeltà patrimoniale, aggravata dal conflitto di interessi, sarebbe punibile solo se abbia determinato il dissesto della società, mentre la distrazione, commessa senza conflitto di interessi, sarebbe punibile di per sè, anche in mancanza di un rapporto di causalità con il dissesto. Sono del resto diversi gli interessi tutelati rispettivamente dalla L. Fall., art. 216, destinato a tutelare i creditori sociali, e dall’art. 2634 c.c., destinato a tutelare il patrimonio sociale; e questa diversità di oggetti giuridici spiega anche perchè la seconda fattispecie sia punibile a titolo di bancarotta solo quando abbia determinato il dissesto, che finisce per incidere sulle ragioni dei creditori (Cass. Sez. 5, 16.01.06, Ginestra, Sez. 5, 18.11.04, Giammarino, Sez. 5, 24.5.06, Bevilacqua, Sez. 5, 27.03.03, Tavecchia).
– Con il suo 4 motivo G. ripropone il tema del tempo di consumazione del reato di bancarotta, ai fini della determinazione del tempo di prescrizione, dicendosi non pago della risposta fornita dal giudice di appello.
Il rilievo va disatteso, essendo ormai consolidata la giurisprudenza di questa Corte che identifica il momento consumativo della bancarotta patrimoniale nella sentenza dichiarativa di fallimento, mentre il ricorrente non deduce diverse decisive prospettazioni che possano indurre il collegio a discostarsi, appunto, dalla sua costante giurisprudenza, se non quella, dianzi ampiamente disattesa, secondo cui, se la dichiarazione di fallimento fosse davvero elemento costitutivo del reato, e non condizione di punibilità, anche su di essa dovrebbe vertere l’elemento soggettivo del reato.
Con il che deve respingersi anche la richiesta di declaratoria di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, avanzata dal R.E. con la cennata memoria integrativa.
Fatte queste precisazioni, può passarsi all’esame degli altri motivi di impugnazione che afferiscono a ciascuno degli episodi distrattivi di cui in premessa.
2. Fallimento Ragip:
1. Capo A. Si è accertata la cessione alla Promopach di tre con tratti di leasing su macchinar (due dei quali acquisiti nel 1991, il terzo nel 1988, ognuno del valore di 140/160 milioni) per un, corrispettivo di un milione ciascuno, quando le rate versate da Ragip superavano i 300 milioni e residuavano rate per 250 ml; comprensive degli interessi.
Secondo i giudici del merito si trattò di una "ingiustificata svendita". E, considerato che all’epoca lo S.E. era amministratore delegato di Ragip, che parte del capitale sociale della cessionaria Promopach era detenuto da sua moglie, B. I., che a partire dal 30 settembre 1993 lo S.E. divenne amministratore di tale società, gli stessi giudici ritengono che da siffatti elementi, coordinati logicamente tra di loro, è consentito pervenire alla conclusione che la cessione – per quanto effettuata per l’iniziativa dell’allora presidente del C.d.A. della Ragip e ratificata dal C.d.A. (assente lo S.) il 21 luglio 1993 – avvenne in realtà "per intervento, nell’interesse e su impulso dello S.", "il quale verosimilmente negli ultimi tempi si preparava un futuro in altre società".
Con il 1^ motivo di ricorso S. deduce nullità del decreto che dispone il giudizio per omessa enunciazione in forma chiara e precisa del fatto (art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c) e comma 2)(omessa specificazione dei singoli con tratti di leasing e dei singoli macchinar oggetto dei contratti medesimi).
L’eccepita nullità non sussiste.
Il ricorrente, amministratore legale della società, ben conosceva i contratti di leasing menzionati nel capo di imputazione che erano stati ceduti alla Promopach, nell’arco di tempo tra il giugno ed il luglio 1993 e menzionati nella relazione del curatore fallimentare, e quindi anche i relativi macchinari. Non può pertanto dolersi della sintetica ma niente affatto enunciazione del fatto e la riprova è che egli non articola specificamente rispetto a quali altri possibili oggetti (di quello che lamenta essere un riferimento equivoco) in concreto la sua difesa potesse erroneamente rivolgersi a seguito dell’asserito vizio.
Con il 2^ articolato motivo il ricorrente denuncia vizi della motivazione, anche sotto il profilo di omessa considerazione di precisi argomenti svolti nell’atto di appello, nonchè violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3 e artt. 192, 546 c.p.p., addebitando, in succinto, al giudice di appello:
– di avere – pur senza contestare i presupposti fattuali (rapporto fra valore iniziale di acquisto, costo residuo di estinzione dei leasing ed obsolescenza commerciale medio tempore maturata dai macchinari) e giuridici (differenza tra vendita di un macchinario e cessione del contratto di leasing relativo al suo utilizzo;
enunciazioni giurisprudenziali sul tema), dedotti dall’appellante – continuato a parlare di "ingiustificata svendita", quando invece dovevasi trarre la conclusione che, tenuto conto del debito residuo e della già maturata obsolescenza dei macchinari, i contratti di leasing in questione (i contratti, non i macchinari) erano di per se privi di qualsiasi apprezzabile valore commerciale, con la conseguenza che non può giuridicamente qualificarsi come distrattiva" (o depauperativa del patrimonio sociale) la loro cessione effettuata a prezzo simbolico;
– di avere errato dapprima nel ritenere che la relazione del curatore potesse far prova di fatti estranei al fallimento di cui non ha fornito alcuna prova autonoma (rapporto di coniugio con la B., titolarità in capo alla medesima di una quota del capitale Promopach, carica di consigliere di amministrazione di S. in tale ultima società) e poi nel ritenere che l’imputato dovesse contestare questi fatti, benchè non provati, facendo discendere da ciò la prova dei fatti medesimi;
– di non aver considerato che la esclusa cessione del ramo d’azienda (originariamente contestata) non giustificava la ritenuta sottrazione dei beni;
– di avere mancato di rispondere al motivo con cui si era dedotta la mancanza di prova sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato.
Le riportate doglianze non possono essere condivise.
La sentenza d’appello riproduce ampia parte di quella di primo grado e da specifica ragione del suo giudizio di condivisione, ed è un giudizio critico.
Ciò premesso, si osserva che non è dato qui rivalutare il merito dell’apprezzamento in base al quale la corte d’appello ha qualificato come "irrisorio" l’importo per il quale avvenne la cessione dei contratti di leasing. In punto di diritto, interessa che:
– l’apprezzamento è motivato in sentenza, in ragione dei pagamenti pregressi e del corrispettivo richiesto per la cessione (la modestia di questo, per la verità, è addirittura macroscopica, certamente non contraddetta dall’ammontare dei residui ratei).
E non colgono nel segno le contrarie argomentazioni cui il ricorrente si affida per sostenere la non configurabilità, nel caso concreto, del reato di bancarotta. E’ sufficiente rilevare che i beni oggetto di leasing, nonostante la loro attitudine all’obsolescenza tecnica, mantengono comunque un certo valore al momento della dichiarazione di fallimento (del resto lo stesso ricorrente si riferisce ad un livello di obsolescenza corrispondente alla metà), sicchè sussiste il concreto interesse della curatela alla loro conservazione, se non altro al fine, quando il diritto di opzione è esercitatoci conservarne il valore operativo, sia pure al solo fine di promuovere una valutazione economica più favorevole e pervenire ad una più elevata realizzazione in sede di vendita dei beni della massa (cfr.
Cass. Sez. 5, 10 maggio 1988, Addossi, cit. in ricorso); e, in ogni caso, la relativa sottrazione (nella specie realizzata con la cessione a prezzo vile dei contratti di leasing e dei beni che ne costituiscono l’oggetto) si sostanzia in un pregiudizio per la massa fallimentare, che, non solo resta privata, come detto, del valore dei beni, ma, a un tempo, è gravata di un ulteriore onere economico, scaturente dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione alla società locatrice alla scadenza del contratto (v., da ultimo, Cass. Sez. 5, 25 maggio 2006, dep. 21 novembre 2006).
– pure motivato in fatto è il fondamento della responsabilità dell’imputato: obiettiva causazione del danno al patrimonio sociale, interesse, diretto e mediato, dello S. all’operazione, suo effettivo beneficio economico, e prive di fondamento, al riguardo, le doglianze su aspetti del compendio probatorio che il ricorrente contesta, ma che non solo sono stati legittimamente desunti da acquisizioni rituali (in quanto si tratta di "fatti" riferiti dal curatore, cui constavano: il rapporto di coniugio e le partecipazioni societarie), ma neppure risultano contestati specificamente in appello sul piano fattuale.
– la esclusa cessione d’un intero ramo di azienda non si pone in termini di inconcilabilità logica e giuridica con la ritenuta sottrazione di singoli beni facenti parte dell’azienda.
– Infondate pure le censure attinenti all’elemento del dolo, inequivocabilmente desunto dai giudici del merito dal cennato compensio probatorio, riflettente il certo interesse all’operazione e il beneficio economico ricevuto.
Il tema del dolo è ripreso dal ricorrente nel 6 motivo, con riferimento a tutte le contestazioni mossegli, ma con deduzioni di mero fatto (ingresso nella società con qualifica di dipendente, mantenuta per oltre quattro anni, assenza di poteri gestionali dopo l’assunzione della carica, condotta da sprovveduto ispirata sempre a buona fede, ecc…), implicitamente disattese dai giudici del merito, come si desume dalla stessa struttura argomentativa della sentenza di secondo grado.
2. Capo B. Ha per oggetto una macchina di stampa, acquisita in leasing nel 1988, inviata da Ragip il 28 dicembre 1988 in "conto visione" alla Ivig (società controllata, come la Ragip, dalla capogruppo Rankplast), restituita come "reso da conto visione" il 28 giugno 1993, di poi consegnato dalla Ragip medesima il 20 settembre alla Kleanpach s.r.l. sempre "in conto visione" (destinataria della fattura essendo risultata peraltro la Plastindustria 93 s.r.l., società del G.).
I giudici del merito ravvisano nella vicenda una duplice distrazione:
la prima, addebitata a R.E. e G., amministratori della Ragip dell’epoca, la successiva a S..
R.E., con il 2 motivo, denuncia mancata correlazione della sentenza con l’accusa contestata.
Con il 3 motivo deduce che la dislocazione del bene presso la Ivig, ove Ragip aveva un deposito, "in conto visione" era avvenuta alla luce del sole, senza celare dunque un intento doloso, e non produsse impoverimento della Ragip, costituendo eventualmente il mancato rimborso dei canoni di leasing mero inadempimento contrattuale; che di tale dislocazione l’imputato aveva fornito ampia giustificazione, adducendo che la macchina (in realtà un semplice accessorio) faceva parte dell’impianto di costruzione, i cui canoni erano stati pagati fino al maggio 1991 (nel settembre dello stesso anno egli era uscito dalla società), e che lo stesso curatore aveva ammesso che i vari macchinari erano spesso assemblati in modo talmente complesso da rendere disagevole l’esatta individuazione, sicchè apodittica era l’affermazione della corte di merito secondo cui "la macchina in questione era fisicamente del tutto distinta dall’impianto di cui sopra".
Analoghe argomentazioni, circa la trasparenza e la "temporaneità" dell’operazione, la restituzione del bene, l’assenza di "impoverimento", esprime il G. (1 mot.), il quale qualifica inoltre come inaccettabile la stessa configurazione di "una doppia distrazione" avente ad oggetto il medesimo bene, e lamenta altresì (2 mot.) mancata motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato, tale non potendosi ritenere quella compendiata nell’asserto che il dolo nel reato di bancarotta è quello generico.
S. (3 mot.) richiama i motivi di appello – con i quali aveva evidenziato che la consegna di un bene "in conto visione" non simula alcunchè (consentendo al destinatario la possibilità di prendere visione del bene e delle sue possibilità di utilizzo, nella prospettiva, di norma, di un’eventuale futura vendita del bene stesso, secondo una comune prassi commerciale; che non era stata emessa alcuna fattura; che, siccome non ceduta, il curatore, rinvenuta la "bolla di consegna, non doveva fare altro che farsi restituire la macchina da chi la deteneva – per dire che la corte territoriale, lungi dal contrastarli, si è limitata ad affermare che "la materiale fuoriuscita della macchina due mesi prima della dichiarazione di fallimento, in mancanza di corrispettivo, alla volta di altra società dalla quale non è più stata restituita configura certa mente una ulteriore distrazione".
Aggiunge che analoghi vizi motivazionali si riscontra no nell’attribuzione della distrazione alla sua persona, non essendo giustificato l’argomentare con cui si contra sta la valenza del dato che l’operazione della consegna "in conto visione" era avvenuta quando egli non rivestiva alcuna carica in Ragip e la società aveva un suo liquidatore.
Va in contrario osservato quanto segue.
– Il motivo di ordine procedurale proposto dal R.E. è inammissibile perchè l’eccezione non fu specificamente formulata, con l’atto di appello, ed è noto che la violazione del principio di necessaria correlazione fra accusa e sentenza da luogo ad una nullità non rientrante tra quelle assolute e insanabili, ma a regime intermedio, sicchè tale vizio non può essere dedotto per la prima volta in sede di legittimità (Cass. Sez. 5, 2 dicembre 2005, Di Benedetto). Peraltro, dal tenore dei motivi di appello, come sopra riportati, si desume che l’imputato aveva contrastato già in primo grado gli elementi fattuali su cui si fondava l’addebito ritenuto sussistente, il che dimostra il pieno esercizio del diritto di difesa.
– La corte di merito da esauriente risposta alle obiezioni che il R.E. e il G. muovono alla distrazione loro attribuita:
a) chiarendo nitidamente come non si possa parlare di una illogica "doppia distrazione" del medesimo bene: è vero che prima del fallimento la macchina Uteco ritornò a Ragip e fu infine distratta, ma la fattispecie antecedente – pur essa autonomamente distrattiva – consistette nella cessione del bene "per lungo tempo" ad altra società, con una "formale" dazione "in conto visione", smentita dalla durata, mentre Ragip ne pagava le cospicue rate di leasing, col risultato di un preordinato impoverimento di detta società e correlativo, ingiustificato, arricchimento di quella che ne aveva ricevuto e sfruttato il bene;
b) considerando che, dagli specifici dati emergenti dalla documentazione acquisita, era dato desumere che la macchina Uteco era fisicamente del tutto distinta dall’impianto di costruzione, essendo stato acquistato in leasing con un diverso contratto ed inviato a Ivig con una distinta bolla, di tal che non poteva neppure ritenersi che le rate pagate per l’impianto riguardassero anche la macchina de qua.
Va poi rilevato che il riferimento all’impoverimento della Ragip e al correlativo ingiustificato arricchimento della Ivig, di cui non è stata offerta alcuna valida spiegazione, da piena contezza della ricorrenza del dolo, rendendo vana la censura mossa al riguardo dal G..
Neppure gli argomenti prospettati dallo S. possono essere condivisi.
Il richiamo al significato giuridico da attribuirsi alla cessione di un bene "in conto visione" e alla relativa instauratasi prassi commerciale, alla assenza di fatturazione, alla possibilità offerta al curatore di rivolgersi al detentore del bene, è destinato ineluttabilmente a cedere il passo di fronte al motivato e qui incensurabile apprezzamento di fatto operato dai giudici del merito, per i quali il bene, nuovamente dislocato presso al tra società, e con apposita fatturazione, avvenuta a favore non della Kleanpach, ma della Plastindustria, non fece più ritorno e lo stesso imputato aveva affermato di non sapere se successivamente la macchina fosse rimasta presso la Kleanplast, così smentendosi l’asserto circa una agevole reperimento del bene da parte degli organi fallimentari.
Va ritenuto, poi che non manifestamente illogici, nei termini prospettabili in sede di sindacato di legittimità, appaiono i passaggi motivazionali esibiti dalla sentenza impugnata che dalla sequenza cronologica dei fatti (lo S. era stato consigliere delegato di Ragip sino all’8 settembre 1993 ed aveva assunto la carica di liquidatore il 27 settembre, avendo subito il precedente liquidatore rinunciato, mentre la bolla di consegna della Macchina Uteco recava la data del 20 settembre) desume che in realtà non vi era stata alcuna frattura (in quei 19 giorni) nella gestione societaria da parte dell’imputato e che quindi la decisione in ordine al trasferimento del bene era a lui attribuibile, anche in considerazione del fatto che con la Plastindustria, destinataria effettiva della fattura, lo stesso S. aveva significativamente stipulato nel febbraio precedente un contratto di lavorazione in perdita: e sui punti appena considerati, il ricorrente si limita, da un lato, a fornire una interpretazione delle risultanze di causa diversa da quella plausibilmente offerta dai giudici del merito, e, dall’altro, prospetta una tesi priva di fondamento giuridico, nel postulare la ascrivibilità della responsabilità al solo presidente del C.d.A., una volta provata la sua piena ingerenza nel fatto distrattivo quale amministratore delegato.
3. Capo C. L’imputazione riguarda ricavi per 196 milioni non contabilizzati, desunti da 5 fatture del 9 maggio 1986 emesse da Rankplast a Rankplast France e ricomprese negli atti di un accertamento fiscale eseguito nel 1991. La responsabilità della distrazione è attribuita agli amministratori dell’epoca e, per come contestato in processo, al solo R.E..
I giudici del merito precisano che l’operazione deve essere riferita alla Ragip, che fino al 24 febbraio 1988 mantenne la denominazione di Rankplast s.p.a., tanto vero che l’avviso di accertamento fiscale è indirizzato esplicitamente a "Rankplast s.p.a., ora Ragip s.p.a." e che l’eventuale corresponsabilità del G. nella vicenda non può avere alcuna incidenza sulla posizione del R.E..
Questi, con il 4 motivo, deduce mancata correlazione della sentenza con l’accusa contestata, poichè dall’addebito di "appropriazione" della somma, chiaramente attribuibile a attribuita al G., si è passati ad una condanna basata sulla sua mera posizione di amministratore.
Con il 5 motivo, sotto la denuncia di violazione di legge e vizio di motivazione, lamenta quanto segue:
– la errata riferibilità della vicenda al fall. Ragip, piuttosto che a quello Rank, era stata eccepita già con l’atto principale di impugnazione, anche a mezzo della richiesta di acquisizione del lodo arbitrale 11 gennaio 1994, n. 02/92: documento recepito dalla Corte ma non tenuto in nessun conto;
– essendovi agli atti plurime prove del fatto che l’operazione era attribuibile al solo G., "il problema non era di responsabilità del (non mai coimputato) G., ma solo che difettava la prova di conoscenza/responsabilità di " R.E.":
era cioè necessaria qualche concreta motivazione in più sulla dimostrazione della sua conoscenza dell’accaduto", non essendo sufficiente, per risolvere tale problema, affermare che il fatto era comunque avvenuto in periodo in cui l’imputato era amministratore, tanto più che lo stesso curatore aveva precisato di non sapere attribuire la responsabilità all’uno o all’altro degli amministratori.
Tali concetti vengono ripresi nella memoria integrativa, nella quale si puntualizza che al R.E. tutt’al più poteva imputarsi una "culpa in vigilando", per non avere denunciato il G., e, comunque, nei suoi confronti operava, semmai, il disposto dell’art. 40 c.p., "che escludeva il rapporto di causalità, in quanto il fatto, dal quale dipendeva la sottrazione, non era la conseguenza della sua azione od omissione, poichè il fatto distrattivo non era a lui imputabile, ma era imputabile nei con fronti di G.".
I motivi sono destituiti di fondamento.
Quello di natura procedurale, ammissibile perchè già prospettato in appello, va disatteso perchè la mancata contabilizzazione della somma di 196 milioni, tradottasi nella scomparsa di tale somma dall’attivo Ragip, è stata attribuita dal primo giudice direttamente alla persona del R.E., quale coamministratore dell’epoca;
non senza dire che, a tutto concedere, il principio di correlazione tra imputazione e sentenza, in tema di bancarotta fraudolenta, non è violato quando, immutato il fatto di distrazione, sia affermata la responsabilità di un amministratore non quale diretto autore dello stesso, ma quale concorrente per non avere impedito che il fatto fosse posto in essere dal coamministratore.
Le censure racchiuse nell’altro motivo tendono a revocare in discussione nelle sue base fattuali la motivazione della sentenza impugnata, la quale è congrua ed esauriente, siccome priva di cadute sul piano sia della logica che del diritto.
E’ sufficiente qui rilevare, per un verso, che il nitido chiarimento della corte territoriale sui rapporti – anche di denominazione, e di successione – fra Rank Plast s.p.a. e Ragip s.p.a., supera i dubbi che il ricorrente tende a introdurre, anche con il richiamo ad un arbitrato, che egli stesso definisce peraltro "irrituale", circa l’effettiva riferibilità a quest’ultima compagine sociale dell’operazione distrattiva oggetto dell’imputazione; per l’altro, che la conoscenza di tale operazione da parte del ricorrente è plausibilmente desunta dai giudici del merito, non dal semplice fatto che egli era all’epoca pur esso amministratore della società, ma dalla portata (di carattere internazionale) dell’operazione stessa, e già il giudice di primo grado aveva ritenuto, al riguardo, non comprovata da nessun elemento la asserita divisione dei compiti nell’ambito della società tra il R.E. e il G., indicato come colui che si occupava in via esclusiva della parte commerciale.
Con il che – ferma restando condivisibile il giudizio, espresso dalla corte di merito, di totale irrilevanza giuridica del mancato coinvolgimento nel processo, per questa parte, dell’altro amministratore ( G.)- restano superati anche i rilievi critici svolti con riferimento all’ambito di applicazione della disposizione dell’art. 40 c.p..
3. Fallimento Rank Plast.
1. Capo 1.
Si è accertato dai giudici del merito che la Rank Plast vantava, per forniture di materie prime, un credito di tre miliardi nei confronti della Greenpkast s.p.a, società da essa interamente controllata ed avente capitale sociale di 200 milioni. Nel 1992 la Rank conclude un accordo con Cardene I. Ltd che prevede il conferimento dell’anzidetto credito nel capitale sociale Greenplast e la vendita di questa società alla Cardene per 3.200 milioni. Il conferimento viene attuato ma la vendita è consensuali mente risolta sul finire dello stesso anno. Di lì a poco la Greenplast viene venduta ad un’altra società, la Ats, per la somma di 800 milioni.
La distrazione è ravvisata dal giudice d’appello non nel conferimento del credito per l’aumento del capitale sociale della Greenplast e neppure nella "prima vendita" di tale società alla Cardene, bensì nell’operazione afferente alla "seconda vendita" in favore della Ats al prezzo di 800 milioni, ritenuto esiguo, perchè del tutto sproporzionato per difetto rispetto al valore reale della società venduta, valutato pochi mesi prima per 3.200 milioni, società ormai liberata dal debito verso la Rank.
E questa distrazione è posta a carico di R.C. e S., amministratori dell’epoca.
R.C. deduce anzitutto (1 mot.) mancata correlazione della sentenza d’appello con l’accusa, sul riflesso che questa riguardava la dissipazione/distruzione del credito di tre miliardi e non conteneva una puntuale e precisa contestazione in merito alla "seconda vendita".
Ma la doglianza è manifestamente infondata, se si considera che nel capo di imputazione è esplicito il riferimento al "ricavo dalla operazione di vendita della Greenplast di poche centinaia di milioni di lire", e, soprattutto, che l’atto di appello era diretto "anche" a confutare (pag. 12/13) le implicante di natura penale ravvisate dal primo giudice proprio nella "seconda vendita"; il che priva di qualsiasi valenza l’odierna deduzione difensiva, secondo cui l’accenno contenuto nel capo di imputazione "alle poche centinaia di milioni" riguardava la "prima vendita".
Denuncia poi il Ra., con il 2 e 3 motivo, illustrati da successiva memoria, violazione di legge e vizi motivazionali in relazione a) all’errato raffronto tra il valore attribuito per la cessione di Greenplast a Cardene (3,2 mld) e il prezzo di 800 milioni fissato per la seconda vendita, considerato irrisorio; b) alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato; c) alla mancata sussunzione del fatto nell’ipotesi L. Fall., ex art. 224, comma 1, n. 1 e art. 217, comma 1, n. 3.
Deduzioni analoghe a quelle sub a) e b) svolge lo S. (5 mot.).
Ad avviso del collegio sono da ritenere fondate quelle sub a), restando così assorbite le altre.
La corte territoriale reputa la "seconda vendita" priva, di giustificazione in quanto il corrispettivo pattuito è sproporzionato rispetto al valore reale della Greenplast, valutato pochi mesi prima in 3.200 milioni per una società che si era liberato dal debito verso la Rank Plast.
Va rilevato al riguardo che il conferimento del credito di 3 mld per l’aumento del capitale sociale Greenplast si risolse, nella sostanza, in una rinuncia della Rank al suo credito, e di tanto da esplicito atto la stessa corte di merito. Le conseguenze sul piano logico e giuridico che da ciò derivano sono implicite quanto inequivoche.
La Greenplast, per effetto di tale rinuncia, ne uscì indubbiamente rafforzata perchè non più gravata di un debito consistente. Ma non ne sortì ulteriori benefici: l’aumento del suo capitale sociale conseguente al conferimento del credito Rank fu solo fittizio, come avvedutamente colto dal primo giudice, che giustamente evoca in proposito il disposto dell’art. 1253 c.c..
Ne consegue che, ai fini della valutazione in ordine alla "sproporzione" od "esiguità" del prezzo convenuto per la vendita della Greenplast ad Ats, non doveva farsi riferimento al, malamente presunto, valore di 3.200 milioni, desunto dal capitale sociale, come aumentato, della Greenplast, tenuto presente nella vendita intervenuta poco prima con la Cardene, bensì al "valore reale" della Greenplast medesima, ricavabile dalla sua effettiva consistenza economico/patrimoniale, come esattamente esigono gli attuali ricorrenti, che, ai fini dell’indagine sulla congruità del prezzo per la seconda vendita, sottolineano come la stessa sentenza impugnata dia atto di una società ancora per più profili operativa, ma oberata, al momento della vendita di notevoli debiti, indicati nel bilancio 91 ammontanti a 523 milioni.
S’impone pertanto sul capo 3 un nuovo esame, che tenga conto dei rilievi innanzi svolti.
2. Capo 3 Concerne una operazione di finanziamento per 1.901 milioni che la Rank effettuò in data 28 dicembre 1990, quando R.E. era rimasto unico amministratore della società, a favore della Agritel s.r.l., che ne fece uso per aumentare il capitale della Omicron s.p.a., da essa controllata nella misura del 100%. Meno di un anno dopo la Omicron venne venduta e i crediti per il versamento del prezzo furono ceduti al R.E. in corrispettivo della sua partecipazione a Rank Flast, per modo che egli usciva da quest’ultima compagine sociale.
Con il ricorso R.E. denuncia mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per la acquisizione della consulenza tecnica del commercialista Dr. Br., o, in sua sostituzione, del commercialista Dr. M. (7 mot.).
Denuncia altresì errata applicazione della L. Fall., artt. 216, 223, 217 e 224, e art. 546 c.p.p. (8 mot.). Deduce al riguardo che l’operazione relativa al finanziamento era conveniente anche per la Rank Plast (in vista del grosso contratto con l’Urss concluso con la Omicron, il cui bilancio al 31 dicembre 1991 attestava un debito verso Rank di "provvigioni" per oltre tre miliardi); che non è esatto che il finanziamento di Rank non sia mai rientrato, essendole quanto meno dovuto; che soltanto uno dei cennati crediti gli era stato ceduto, senza peraltro essere stato soddisfatto; che nella fattispecie non può giuridicamente ravvisarsi un’operazione distrattiva, ma solo un affare non andato a buon fine (donde la richiesta di derubricazione nell’ipotesi L. Fall., ex art. 217); che erroneamente gli si è addebitata una responsabilità anche per episodi successivi alla sua uscita dalla società, tipo quello del mancato rientro del finanziamento.
Con la memoria integrativa richiama, tra l’altro, la relazione del curatore fallimentare nella parte in cui affermerebbe che la somma di 1.901 milioni sarebbe rimasta nella, società in quanto rappresentava l’opzione per il finanziamento alla Agritel, derivandone che il bilancio 1991, chiusosi con una perdita di 32 milioni, sarebbe mancante della anzidetta somma, il che escluderebbe la sottrazione contestata e ritenuta.
Rileva il collegio che il primo motivo è manifestamente infondato.
Come è stato precisato dalla giurisprudenza, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è istituto a carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Cass. Un. 24 febbraio 1996, Panigoni), sicchè in caso di mancato accoglimento della istanza, la motivazione potrà anche essere implicita e desumibile dalla stessa struttura argomentativa della sentenza di appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti alla affermazione, o negazione, di responsabilità (Cass. Sez. 5, 16.05.00, Callegari).
Infondate sono le altre censure, che si collocano anzi alle soglie dell’inammissibilità, nella misura in cui attingono a valutazioni di merito delle emergenze di causa, sollecitando, quasi, una rilettura di queste, che, notoriamente, è inibita a questo Giudice di legittimità.
Ma a parte questo, la pronuncia impugnata si sottrae al tipo di doglianza dedotto, in quanto, con coerente motivazione, ha valutato le risultanze di causa, addivenendo all’affermazione di responsabilità sulla base di un ragionamento logico e immune da incongruenze di sorta.
Afferma la sentenza che l’operazione di finanziamento di cui trattasi fu di nessun vantaggio e interesse per la Rank Plast, diversamente dall’indimostrato contrario assunto dell’appellante, e che la società ne restò notevolmente impoverito di risorse liquide, anche in considerazione del fatto che nessuna garanzia era stata data dalla beneficiaria Agritel per la restituzione di quel danaro, che infatti non è più rientrato nelle casse della Rank, il cui credito venne "significativamente" ceduto al R.E.: rilievi che privano di qualsiasi consistenza quelli attualmente prospettati dal ricorrente.
4. Capi E ed F. – R.E. denuncia con il 6 motivo violazione dell’art. 129 c.p.p. e vizio di motivazione in relazione al reato di cui al capo E. Il motivo è fondato.
L’imputazione ex art. 2621 c.c. – L. Fall., art. 223 riguardava la fraudolenta esposizione nei bilanci di talune fideiussioni e l’omessa svalutazione di "crediti di prolungata inesigibilità".
In primo grado vi era stata pronuncia di condanna per l’intero capo, nonostante la motivazione della sentenza desse espressamente atto che il secondo addebito, quello relativo ai "crediti inesigibili", dovesse essere ascritto soltanto agli amministratori dell’epoca ( R.C. e S.), non dunque anche al R.E..
Di tanto si era doluto quest’ultimo con specifico motivo di appello, che però la corte territoriale non ha minimamente considerato, limitandosi ad una pronuncia di proscioglimento perchè il fatto non è più preveduto dalla legge come reato, anzichè adottare, come dovevasi, in relazione appunto ai "crediti inesigibili" la più favorevole formula del non aver commesso il fatto.
Peraltro l’accoglimento di questo motivo non si riflette, diversamente dal dedotto, sul trattamento sanzionatorio (la corte, invero, ha rideterminato la pena prescindendo dal reato sub E), e neppure sulla provvisionale disposta in favore della parte civile, come si avrà modo di chiarire di qui a poco.
– Il 4 motivo del ricorso S. deduce vizio di motivazione e violazione di legge in riferimento all’imputazione di cui al capo F (contestata L. Fall., ex art. 217, comma 1, n. 4, art. 224, per astensione dal richiedere la dichiarazione di fallimento, stipula di controproducenti contratti di leasing e di riservato dominio, commercializzazioni fuori dell’oggetto sociale, lavorazioni sottocosto).
Lamenta che con specifici motivi di appello, evidenzianti la insussistenza dei fatti e malamente valutati dal giudice a quo, aveva censurato il proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato, pronunciato dal giudice di primo grado.
Il motivo non può essere accolto.
All’applicazione di causa estintiva del reato è sottinteso il giudizio relativo all’inesistenza di prova evidente circa la non ricorrenza delle condizioni per un proscioglimento nel merito. In tal caso, pertanto, la decisione è insindacabile in sede di legittimità sotto il profilo (e tale è quello sostanzialmente denunciato dal ricorrente) del vizio di motivazione, posto che un eventuale annullamento con rinvio imporrebbe la prosecuzione del giudizio resa impossibile dall’obbligo di immediata declaratoria della causa estintiva (Cass. Sez. 4, 4 dicembre 2002, Rocca; Cass. Sez. 1, 22 ottobre 1994, Boiani).
Nè è dato a questa Corte procedere essa stessa all’applicazione della disposizione dell’art. 129 cpv. c.p.p., perchè gli argomenti illustrati dal ricorrente, alla luce della pronuncia di primo grado, richiamata dal giudice di appello, e delle obiezioni ad essa fatte da quest’ultimo, non rendono evidente la prova di innocenza.
Con il che resta assorbita la eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio, estesa con il 1 motivo anche all’imputazione in esame.
5. Segue l’esame delle censure che attengono al trattamento sanzionatorio.
– Quella proposte da S. (6 mot.) e R.C. (4 mot.), sulla mancata concessione dell’attenuante del danno risarcito, sul denegato giudizio di prevalenza delle accordate generiche e sull’entità della pena, rimangono assorbite dall’annullamento con rinvio disposto in ordine al capo 1 di imputazione.
– Della prevalenza non accordata alle concesse att. gen. si duole anche R.E. (9 mot.). Ma la censura è infondata, il giudizio di comparazione fra circostanze attenuanti ed aggravanti ex art. 69 c.p. è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo (Cass. Sez. 3, 8 luglio 2007, Alia): che è quanto è dato rinvenire nell’argomentare speso al riguardo dalla sentenza impugnata, incentrato sul peso specifico delle aggravanti, sulla complessiva dimensione, oggettiva e soggettiva, delle vicende per cui si procede; argomentare la cui valenza non viene certamente meno a ragione della sua estraneità a quel segmento della condotta di cui al capo B, testè evidenziata, dato di consistenza assolutamente marginale rispetto al contenuto delle altre condotte.
– R.E. (9 mot.) e G. (3 mot.) si dolgono della mancata concessione dell’attenuante L. Fall., ex art. 219, u.c..
Il deficit motivazionale eccepito dal primo non sussiste: le distrazioni a lui attribuire sono plurime, non circoscritte alla sola macchina Uteco, e la corte, nel disapplicare l’attenuante in questione, ha richiamato il valore economico delle altre distrazioni, con riferimento alla considerevole entità delle somme di cui alle imputazioni sub 3 e C. Quanto al G., occorre ricordare che il giudice di primo grado aveva affermato che la entità patrimoniale del fatto di cui al capo B è ignota, ma che trattavasi comunque certamente di un macchinario "di notevole rilevanza patrimoniale", dato che venne acquistato in leasing": sicchè, a fronte di questa valutazione, non aveva il giudice d’appello obbligo di una precisa confutazione del motivo di gravame formulato sul punto, peraltro in modo generico, dal G..
6. Statuizioni civili.
R.E. con la memoria integrativa ha eccepito la nullità della costituzione di parte civile del curatore della Ragip S.p.a.:
inammissibilmente, in quanto l’eccezione non è stata proposta con il ricorso principale e, neppure, con l’atto di appello.
Ancora il R.E., con il 10 motivo, denuncia erronea applicazione degli artt. 185, 74, 538, 539, 540 c.p.p., in relazione alla quantificazione della provvisionale disposta in favore della parte civile.
Il motivo è inammissibile, perchè, secondo la giurisprudenza di questa Corte, "il provvedimento con il quale il giudice di merito nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (cfr. Cass. Sez. 5, 25 settembre 2001, Paoloni; idem, 8 febbraio 2000, Beha).
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei riguardi di R.E. con riguardo al capo E, limitatamente ai "crediti di prolungata inesigibilità", per non aver commesso il fatto.
Rigetta nel resto il ricorso del R.E..
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di R.C. e S.E. limitatamente alla distrazione di cui al capo 1, fall. Rank Plast, con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia, restando assorbiti i motivi afferenti all’attenuante del danno risarcito e al trattamento sanzionatorio.
Rigetta nel resto i ricorsi dei medesimi.
Rigetta il ricorso di G.S., che condanna al pagamento delle spese del procedimento.
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