Cass. pen., sez. I 29-01-2008 (14-01-2008), n. 4496 Diritto di critica – Condizioni.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
Con sentenza del 23.9.2003, il tribunale di Roma dichiarava il P. colpevole di diffamazione aggravata, per avere pubblicato un articolo sul settimanale L’Espresso del 3.8.2002, intitolato "Napoli:
quel ragazzo ucciso, difficile da piangere", ritenuto diffamatorio dai genitori del minore, che avevano sporto querela; e l’A. direttore del settimanale stesso di omesso controllo sul contenuto di detto articolo; entrambi erano condannati alla pena ritenuta di giustizia.
Su gravame degli imputati, la corte d’appello di Roma, colla sentenza 13.1.2006, confermava la pronuncia di primo grado; ma, dietro ricorso del P. e dell’ A., questa Corte annullava con rinvio, in data 21.6.2006, detta decisione.
Il giudice del rinvio, individuato in altra sezione della corte romana, confermava la sentenza di condanna di entrambi gli imputati, colla pronuncia oggi esaminata.
L’antefatto dell’articolo incriminato, già oggetto di pubblicazione giornalistica, era la morte del minore C.M., ucciso da un colpo di pistola della polizia di Stato di Napoli, mentre si trovava alla guida di un ciclomotore; traendo da ciò ispirazione, il P. aveva elaborato uno scritto nel quale basandosi su aspetti palesemente negativi sia della personalità del ragazzo, sia delle figure genitoriali, alle quali attribuiva una sostanziale inadeguatezza educativa, che aveva in parte condotto al tragico epilogo traeva amare conclusioni estese al degrado familiare e, più ampiamente, a quello della città di Napoli, ove il fatto era avvenuto.
Osservava la corte territoriale che, in sede di annullamento, il giudice di legittimità le aveva commesso di valutare la ricorrenza del diritto di critica, presupponente sempre un contenuto di veridicità dei fatti narrati (anche a prescindere da una loro enumerazione contabile, ma con scrutinio della rilevanza inerente all’oggetto dello scritto), la cui carica diffamatoria nei confronti dei genitori del C. doveva essere considerata, con riguardo anche al principio della continenza, ovvero alla adeguatezza lessicale di giudizi espressi nei confronti di persone che avevano patito la perdita di un figlio in giovanissima età.
Ciò premesso, osservava il giudice del rinvio che il tribunale si era ben reso conto di non trovarsi di fronte ad un articolo di cronaca, tanto da pronunciare sentenza di condanna non per i fatti ivi riferiti, ma per i giudizi grevi formulati a carico dei genitori e che avevano colorato lo scritto in modo determinante; ora, a tale scopo il P. non aveva tanto indugiato sul fatto della morte del ragazzo, ma su aspetti della condotta precedente di lui e dei genitori aspetti che avevano indotto il giornalista a formulare pesantissime considerazioni, sintetizzabili nelle frasi "avere un figlio come Mario non mi sarebbe piaciuto per niente " e "mi sarebbe piaciuto ancora di meno essere come suo padre".
Tali espressioni si ancoravano a numerosi dati: il ragazzo era solito andare in motorino senza casco e senza assicurazione; era stato più volte multato; il veicolo gli era stato sequestrato ma i genitori gliene avevano comprato uno più potente; non andava a scuola; aveva assunto (sino all’ultimo istante della sua vita) un atteggiamento provocatorio. E tutto questo era avvenuto "nella bambagia familiare", nella "assenza di severità, i soldi in tasca e l’evanescente autorità paterna". Ma in realtà, i fatti erano diversi: il ragazzo, interrotti gli studi, era andato a lavorare col padre a sedici anni, dalla mattina alla sera; frequentava una scuola serale; usciva cogli amici solo il sabato; era stato multato una sola volta per divieto di sosta; il mezzo era stato sequestrato quando egli aveva tredici anni;
proprio per dargli una lezione, i genitori avevano atteso tre anni prima di comprargliene un altro, regolarmente assicurato.
Non emergevano, allora, elementi che potessero avvalorare la negativa immagine familiare che il P. aveva trasfuso nell’articolo e che conducevano anche il lettore a formulare un giudizio negativo sui genitori del giovane; era cioè venuto meno il requisito della veridicità del fatto (cui aderivano i commenti), che avrebbe giustificato il diritto di critica. E lo stesso requisito della continenza mancava nella fattispecie, attesa la situazione d’animo dei genitori del ragazzo morto.
Il dolo generico del reato di diffamazione ricorreva, in quanto le grevi espressioni utilizzate dal giornalista non potevano sfuggire alla consapevolezza in lui radicata, di offendere oggettivamente gli attuali querelanti.
Avverso tale pronuncia ricorrevano per cassazione, a mezzo del loro difensore, entrambi gli imputati, che denunciavano violazione di legge e vizio della motivazione.
Venendo meno al compito affidatogli dal giudice di legittimità, quello del rinvio non aveva preso in considerazione dati di fatto certamente non positivi, ma comunque veri che caratterizzavano la vicenda, quanto ai comportamenti del giovane e dei suoi genitori, e che erano stati esemplificati all’atto dell’annullamento della prima sentenza di appello.
Il ragazzo non aveva voluto studiare; sperava di diventare un top model; lavorava col padre, ma in un ambiente commerciale sospettato di contiguità colla camorra; era stato multato più volte; la polizia gli aveva sequestrato il motorino; era solito andare in moto senza casco; la famiglia gli aveva comprato un mezzo più potente;
aveva provocato la polizia durante la sua ultima corsa.
Le espressioni usate dal P., allora, altro non erano che giudizi e contenevano aspetti di verità; e il suo articolo di profonda critica sociale era stato interpretato dai giudici di merito come un banale pezzo di cronaca giudiziaria, smarrendosi in tal modo qualunque riflessione critica su fattori sociali e ambientali di assoluta rilevanza. Il giornalista non aveva gratuitamente attaccato le figure dei genitori, esternando invece pensieri morali sul ruolo della famiglia, in un terreno socialmente degradato.
Il ricorso (che, presentato nell’interesse di entrambi gli imputati, finisce per trattare specificamente la sola posizione del P.) è inammissibile, per la manifesta infondatezza e, sotto certi profili, per la genericità delle censure mosse al provvedimento impugnato.
Può certamente convenirsi che l’articolo del giornalista non fosse di cronaca giudiziaria, pur traendo da essa spunto; e che si trattasse, invece, di un pezzo di critica etico – sociale, non avente però carattere generale, ma specificamente attinente a posizioni soggettive, quali le figure del giovane C. e, ancor più, dei genitori di lui. Ciò si ricava dalla lettura dell’articolo, del quale sopra sono stati riportati i passi salienti. La stessa sentenza impugnata da atto, del resto, che anche il tribunale aveva percepito la differenza e, condividendone le conclusioni, mostra apertamente di valutare l’articolo del P. per quello che era in realtà: una desolata riflessione sui giovani, sulla famiglia e sul particolare contesto partenopeo, indicato quale terreno di diseducazione e degrado.
Ma non è per questo che può mutarsi il giudizio di colpevolezza, quanto al delitto di diffamazione.
Esula, invero, dal diritto di critica, il gratuito attacco morale alla persona (cfr. Sez. fer. 8.11.2006, Sgarbi); ed anche volendolo estendere ad una formulazione priva di riferimento a precisi dati fattuali (che attengono particolarmente al diritto di cronaca), consentendosi quindi una polemica intensa su temi di rilevanza sociale, è pur sempre necessario che quei dati non siano strumentalmente travisati nel loro nucleo essenziale (cfr. Sez. 5^, 5.3.2004, Giacalone); e difatti, quello che da sempre si richiede dalla giurisprudenza di questa Corte è la condizione indispensabile di verità, interesse pubblico e continenza, per il corretto esercizio del diritto di critica (cfr. Sez. 5^, 15.10.1987, Beria D’Argentine).
Del resto, è lo stesso ricorrente P. che condivide tali principi, laddove asserisce di aver tratto ispirazione da fatti veri;
e qui elenca nuovamente quei dati valutativi sui quali si articolava il suo pezzo, senza però tenere conto, riaffermandone la storica fondatezza, che la sentenza ne ha evidenziato la quasi totale non veridicità, dando ampiamente atto sia degli aspetti comportamentali positivi del giovane C., sia degli interventi educativi svolti dai genitori; e rettificando altre fondamentali inesattezze (se così può dirsi, ad esempio, quanto alla rilevante vicenda del motorino); da qui, la menda di genericità dell’impugnazione, che ignora gli argomenti del provvedimento gravato.
La conclusione deve, allora, essere che non può darsi alcun giudizio morale, sociale, ambientale (specie se coi toni deprecativi usati dal giornalista, ben al di la, nella loro pesante caratterizzazione lessicale, della necessità e della continenza, specie in rapporto ad un evento tanto tragico come la morte di un figlio diciassettenne), se i fatti dai quali si trae ispirazione non sono veri.
E’ appena il caso di ricordare che non solo chi si occupa di cronaca giudiziaria, ma anche chi vi attinge per approfondimenti etico sociali, ha l’obbligo pressante di accertare la verità dei fatti sui quali cade il commento; e che, in punto di dolo, quello generico qui richiesto, ovvero della consapevolezza della offensività dei giudizi sul che sarebbe superfluo indugiare, giungendosi nell’articolo in questione a conclusioni ultimative, quali quelle della ripulsa ad essere padre di un tale figlio e figlio di tali genitori nessuna specifica doglianza muove il ricorso.
Alla dichiarata inammissibilità del quale, debbono seguire le ulteriori statuizioni indicate nel dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, oltre al versamento della somma di Euro 1.000,00, ciascuno alla Cassa delle ammende; li condanna altresì in solido a rifondere le spese di parte civile sostenute in questa sede, che liquida in complessivi Euro 3.000,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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