Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
B.G. ricorre, a mezzo del proprio difensore, avverso la sentenza 21.10.10 della Corte di appello di Trieste con la quale, in parziale riforma di quella in data 6.2.08 del locale tribunale, è stata rideterminata, per il reato di cui all’art. 610 c.p., la pena in giorni venti di reclusione, sostituita con quella di Euro 760,00 di multa, con conferma delle statuizioni civili.
Deduce la ricorrente, nel chiedere l’annullamento dell’impugnata sentenza, con il primo motivo violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all’art. 393 c.p., per non avere la Corte di merito ritenuto il meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone sull’assunto della insussistenza di un diritto azionabile in capo all’imputata, laddove invece la norma non richiede che il diritto oggetto dell’arbitraria tutela sia in concreto esistente, ma solo che l’agente abbia la ragionevole opinione di quell’esistenza e nella circostanza era indubbio che l’intento della B. e del di lei marito fosse quello di riavere il motociclo senza versare alcunchè al meccanico S. che, a detta dell’imputata, non aveva effettuato alcun lavoro di miglioria sul mezzo, ignorando che il S. avesse il diritto di ritenzione sul mezzo, anche a motivo del modesto importo (50 Euro) da quest’ultimo richiesto per il lavoro prestato.
Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) per non avere la Corte triestina accolto la richiesta subordinata di riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 51 c.p. ritenendo violenta la condotta posta in essere dalla B., laddove sul punto vi era invece indeterminatezza del capo d’imputazione secondo cui l’imputata aveva costretto il S. a non entrare con il motociclo in officina "ponendosi davanti all’ingresso dell’officina", senza specificare le modalità della costrizione e cioè se fosse avvenuta mediante violenza o minaccia.
Osserva la Corte che il ricorso non è fondato.
Perchè si abbia il delitto di cui all’art. 393 c.p. è necessario che l’agente attribuisca indebitamente a se stesso poteri e facoltà spettanti al giudice, sicchè ove si tratti di poteri che non possono essere esercitati dal giudice non può essere ravvisato tale reato ed il fatto deve quindi essere ricondotto all’ipotesi criminosa di cui all’art. 610 c.p., la quale ricorre allorchè la condotta sia posta in essere con la coscienza e volontà di costringere taluno, con violenza e minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa con la consapevolezza della illegittimità di tale costrizione. Orbene, nella specie, con motivazione congrua ed immune da vizi logico- giuridici, i giudici di appello hanno evidenziato – con un accertamento in fatto che non può essere oggetto di discussione in questa sede – come il S. avesse, prima del diverbio intervenuto tra il medesimo e la B., già effettuato un principio di intervento meccanico sul mezzo dell’imputata, divenendo così creditore della somma, nell’immediatezza richiesta all’imputata, conseguente al lavoro eseguito e pertanto – ha correttamente concluso la Corte triestina – non sussisteva un diritto azionabile giudizialmente in capo all’imputata, la quale ha pertanto agito con la pretesa illegittima di conseguire il possesso del motociclo senza corrispondere alcunchè, comportamento non rientrante nè nell’ipotesi prevista dall’art. 393 c.p. nè tanto meno considerabile espressione dell’esercizio di un diritto (nella specie, di proprietà) il quale non può avvenire ricorrendo ad un comportamento unilateralmente violento (identificandosi la violenza con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione), che – come correttamente rilevato ancora dalla Corte territoriale – lungi dal costituire una scriminante, ha invece integrato gli estremi del reato di cui all’art. 610 c.p.. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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