T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, Sent., 19-09-2011, n. 2235

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con l’odierno ricorso, presentato alla notifica il 29 aprile 2011 e depositato il successivo 25 maggio 2011, l’esponente ha impugnato il provvedimento in epigrafe specificato, assumendone la illegittimità sotto più profili.

In sostanza, ciò di cui l’istante si duole, è che la Prefettura di Lecco abbia rigettato la dichiarazione di emersione presentata in proprio favore dal sig. Quinto Pietro, sull’unico presupposto della falsità della dichiarazione stessa, emergente dagli atti del processo penale n. 3221/09, e senza attuare alcun contraddittorio con l’istante, escluso dal procedimento amministrativo che ha condotto all’adozione dell’atto qui gravato, benché asseritamente estraneo alle ipotesi di reato ascritte a carico del proprio datore di lavoro.

Si è costituito l’intimato Ministero, controdeducendo con separata memoria (depositata il 6 giugno 2011) alle censure avversarie e sollevando, altresì, un’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del gravame.

Stando alla documentazione prodotta in giudizio dall’avvocatura erariale, il sig. Quinto Pietro avrebbe presentato ben otto domande di emersione per cittadini extracomunitari irregolari, tutti asseritamente impiegati alle proprie dipendenze come collaboratori domestici.

Da ciò l’indagine avviata dalla Questura di Lecco, che ha portato al procedimento penale n. 3221/2009 Registro notizie di reato, iscritto presso la Procura della Repubblica di Lecco (richiamato nelle premesse dell’atto impugnato), e conclusosi, per il sig. Quinto Pietro, con la sentenza di applicazione della pena (di anni 3 di reclusione ed euro 1.000,00 di multa) su richiesta delle parti, oltre la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque (n. 666/2011 del Tribunale di Lecco), per favoreggiamento della permanenza illegale di stranieri irregolari sul territorio nazionale, dietro pagamento di somme da 2.000,00 a 5.000,00 euro per straniero, di cui 500,00 euro spettanti ai datori di lavoro fittizi.

Con motivi aggiunti depositati in data 05.07.2011 l’esponente ha ulteriormente censurato il provvedimento in epigrafe specificato, lamentando l’inammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione perpetrata dall’amministrazione con la produzione documentale allegata alla memoria del 6.06.2011.

Alla Camera di Consiglio dell’8.09.2011 il Collegio, valutata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti presenti, ha trattenuto la causa per la decisione con sentenza in forma semplificata.

Motivi della decisione

Il Collegio ritiene di poter prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità per difetto di legittimazione attiva sollevata da parte resistente, stante la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso.

Osserva il Collegio come, ai sensi dell’art. 1 ter D.L. 01.07.2009 n. 78, convertito in legge 03.08.2009 n.102:

"Le disposizioni del presente articolo si applicano ai datori di lavoro… che alla data del 30 giugno 2009 occupavano irregolarmente alle proprie dipendenze, da almeno tre mesi, lavoratori italiani o cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero lavoratori extracomunitari, comunque presenti nel territorio nazionale, e continuano ad occuparli alla data di presentazione della dichiarazione di cui al comma 2, adibendoli:

a) ad attività di assistenza per se stesso o per componenti della propria famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza;

b) ovvero al lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare…".

Ebbene, è sufficiente la lettura del primo comma della richiamata norma per avvedersi della ratio della procedura in questione, racchiusa nella necessità di favorire l’emersione dalla clandestinità di quanti, fra gli stranieri irregolarmente presenti sul territorio nazionale, siano dediti allo svolgimento, nei modi e nei termini sopra descritti, di attività lavorativa.

Appare, altresì, chiaro come, non soltanto l’iniziativa della regolarizzazione spetti al datore di lavoro, ma come siano a costui imputabili anche tutti gli ulteriori adempimenti richiesti dal legislatore, a garanzia della serietà dell’intento di regolarizzazione (così, ad esempio, a proposito della richiesta di attestazione del possesso di un reddito imponibile annuo non inferiore ad una certa soglia, ovvero, quanto alla richiesta di proposta del contratto di soggiorno previsto dall’ articolo 5bis del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; cfr. art. 1 ter, co. IV°, lett. d) e g).

In altri termini, ciò che il legislatore ha inteso scongiurare con la norma in esame è proprio l’abuso della eccezionale procedura in questione, perpetrabile attraverso la presentazione di dichiarazioni false o comunque prive di seri riscontri in ordine alla effettiva sussistenza di un rapporto di lavoro da regolarizzazione.

Da ciò, anche le limitazioni previste dalla richiamata norma, come quella contemplata al comma 6°, per cui: "La dichiarazione… è limitata, per ciascun nucleo familiare, ad una unità per il lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare e a due unità per le attività di assistenza a soggetti affetti da patologie o handicap che ne limitano l’autosufficienza…".

Date le suesposte premesse, è evidente, nel caso che qui occupa, la legittimità dell’operato dell’amministrazione che, accortasi della presentazione di un numero eccessivo di dichiarazioni di emersione da parte dello stesso datore di lavoro (ben otto, anziché una, come previsto per il lavoro domestico) ha effettuato ulteriori accertamenti, onde svelare eventuali profili di responsabilità penale a carico del dichiarante.

In tal senso, non è chi non veda come il coinvolgimento del sig. Quinto in un procedimento penale per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (poi conclusosi con la sentenza penale sopra citata) non possa non ripercuotere i suoi effetti sul presunto lavoratore aspirante all’emersione, atteso che, tra l’altro, nessuna dimostrazione è stata fornita da quest’ultimo nel senso della effettività del rapporto di lavoro asseritamente intercorso col sig. Quinto.

Erra, infatti, la difesa ricorrente, nel ritenere che sia sufficiente a fondare la buona fede del sig. M.E., l’affermazione della falsità delle restanti sette dichiarazioni, con salvezza della propria, atteso che, gli accertamenti condotti dall’autorità giudiziaria hanno evidenziato il carattere tutt’altro che episodico della condotta del sig. Quinto, il quale, in concorso con altri e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, ha avanzato una pluralità d false dichiarazioni di emersione, fra cui quella nei confronti del ricorrente.

Non rileva, quindi, che il ricorrente non sia stato attinto – allo stato – da alcuna condanna, perché le responsabilità accertate a carico del presunto datore di lavoro sono sufficienti all’amministrazione per motivare il rigetto della domanda di emersione, trattandosi di domanda fittizia e, come tale, priva di ogni riscontro.

L’accertamento della falsità del rapporto di lavoro, oggetto della dichiarazione di emersione, non può non ripercuotere i suoi effetti, almeno in sede amministrativa, su entrambe le parti del predetto rapporto, benché l’accertamento della falsità del medesimo sia avvenuto in sede penale soltanto nei confronti dell’aspirante datore di lavoro.

Il richiamo a tale evenienza, benché succintamente contenuto nel decreto di rigetto qui gravato, deve ritenersi sufficiente a giustificare la determinazione negativa assunta dall’amministrazione nella procedura che qui occupa.

Né rilevano le dedotte carenze partecipative a carico dell’istante, poiché in alcuna parte del ricorso e dei motivi aggiunti o della documentazione versata in atti da parte ricorrente sono stati forniti elementi idonei a dimostrare, a dispetto di quanto risultante dagli accertamenti dell’autorità giudiziaria penale, l’effettività del rapporto di lavoro posto in essere dal ricorrente col dichiarante l’emersione e, quindi, l’utilità di una partecipazione procedimentale del primo, per scongiurare l’esito negativo della procedura de qua.

Giova ribadire, infatti, che contrariamente a quanto affermato dalla difesa ricorrente, finanche nei motivi aggiunti, la prova della falsità della domanda di emersione emerge chiaramente dalla sentenza penale depositata in atti, la quale, se non può valere a sanzionare penalmente anche l’istante, è sufficiente a sorreggere in sede amministrativa una determinazione di rigetto della procedura di emersione, avviata sulla base di una dichiarazione di emersione non veritiera, proveniente da un aspirante datore di lavoro a carico del quale è stata pronunciata una sentenza di applicazione della pena su richiesta, per il reato, fra gli altri, di favoreggiamento della permanenza illegale di extracomunitari nel territorio nazionale mediante la presentazione di false dichiarazioni di emersione.

Tanto basta a sorreggere il rigetto dell’odierno gravame e dei motivi aggiunti, stante la manifesta infondatezza delle dedotte censure.

Sulle spese il Collegio, in considerazione della natura della controversia, ritiene sussistano giusti motivi per disporne la compensazione fra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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