Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. Con sentenza pronunciata il 18 gennaio 2007, il Tribunale di Catania condannò S.G. alla pena (sospesa ex art. 164 c.p.) di due anni di reclusione, con le circostanze attenuanti generiche, dichiarandolo responsabile del delitto di peculato (art. 314 c.p.), perchè, nella qualità di pubblico ufficiale – essendo stato nominato, in data 11 maggio 1999, dall’Ufficio del Territorio di Catania del Ministero delle Finanze amministratore dei beni confiscati, con decreto ex L. n. 575 del 1965 del Tribunale di Catania in data 20/12/1995 (divenuto definitivo il 22/3/1999), a R.L. e R.F. – si appropriava della somma complessiva di Euro 860.253,74 prelevandola, ad asserito titolo di acconto sul compenso, senza la necessaria autorizzazione dell’Agenzia del Demanio, con ripetuti prelievi dai libretti di deposito intestati alle imprese del gruppo Riela, dei quali aveva la disponibilità, versando il denaro sul proprio conto corrente bancario; nonchè per avere, senza autorizzazione, stipulato a nome delle medesime società e a proprio favore polizze assicurative, disponendo il pagamento dei relativi premi per l’anno 2000 ammontanti a Euro 5.640,88 (fatti accaduti in (OMISSIS)).
2. Contro la sentenza della Corte d’appello, confermativa della decisione di primo grado, ricorre l’imputato a mezzo del suo difensore, che deduce:
a) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a, per erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art. 314 c.p. e con riferimento alla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 nonies;
b) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, per mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di peculato e a circostanze di fatto espressamente indicate nei motivi d’appello e non contraddette dalla sentenza impugnata;
travisamento della prova specificamente indicata;
c) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a, per erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 314 e 51 c.p. per l’esistenza di una causa di giustificazione nell’esercizio del diritto;
d) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a, per erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 314 e 47 c.p. per errore ricadente su una norma extrapenale e per mancanza di dolo;
e) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a), per erronea applicazione della legge penale, con riferimento alla sussistenza del reato di cui all’art. 314 c.p. in relazione alla stipula di polizze di assicurazione a proprio favore;
f) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a, per inosservanza di norme processuali sull’inammissibilità della domanda di provvisionale concessa alla parte civile.
Motivi della decisione
1. I fatti addebitati all’imputato sono pacifici. Il S. – nominato dal Ministro delle Finanze (ufficio del Territorio di Catania) amministratore dei beni e delle aziende confiscate al gruppo Riela – si autoliquidò, senza autorizzazione del competente ufficio ministeriale, la somma di cui al capo d’imputazione, a titolo di anticipazione sul proprio compenso professionale, determinandone l’ammontare, emettendo fatture ogni bimestre a carico delle singole società appartenenti e trasferendo le somme di denaro dai conti correnti delle imprese ai propri conti correnti bancari; inoltre, senza alcuna autorizzazione, stipulò polizze assicurative in suo favore, imputando i relativi premi alle imprese amministrate.
Nella predetta autoliquidazione – non soltanto non autorizzata, ma anche contrastata con ripetuti interventi scritti e orali del competente ufficio del territorio del Ministero delle finanze, che ribadì al S. l’illegittimità di prelevare somme di denaro per il proprio compenso professionale senza autorizzazione ministeriale e che richiese anche la restituzione del denaro per il caso che fosse stato "erroneamente" prelevato – i giudici di merito hanno correttamente individuato la condotta appropriativa, accompagnata dall’animus rem sibi habendi, che produsse la deliberata intervensio possessioni.
2. Il ricorrente assume che nessuna norma prevede che la liquidazione delle anticipazioni dei compensi dell’amministratore dei beni confiscati debba essere autorizzata da parte del Ministero delle Finanze. Rileva che l’art. 2 nonies (più correttamente "novies") della L. 31 maggio 1965, n. 575 (nel testo vigente all’epoca dei fatti), che disciplina l’amministrazione dei beni confiscati (mentre quella relativa ai beni sequestrati è stabilita dall’art. 2 octies), non contiene alcuna previsione di provvedimento di autorizzazione da parte del Ministero delle Finanze concernente il compenso. Infatti, il comma 3 di tale articolo richiama la competenza del dirigente del competente Ufficio del territorio solamente per gli "esborsi che non trovino copertura nelle risorse della gestione", mentre rinvia, per la gestione dei beni da parte dell’amministratore, al precedente art. 2 octies "in quanto applicabile".
Il senso di quest’ultima espressione, secondo il ricorrente, si limiterebbe agli aspetti sostanziali; in particolare non riguarderebbe la liquidazione dei compensi dell’amministratore dei beni confiscati, anche perchè quest’ultimo svolge le proprie funzioni, con autonomia gestionale, sotto il controllo del competente ufficio ministeriale, mentre l’amministratore dei beni sequestrati agisce come mero esecutore delle determinazioni dell’autorità giudiziaria, "sotto la direzione del giudice delegato" (art. 2 sexies). L’amministratore dei beni confiscati è, perciò, dotato dell’autonomia del mandatario e, nel perseguire gli obiettivi stabiliti dalla legge nell’art. 2 diecies e segg. della predetta legge, può autodeterminarsi il compenso nel caso di sufficienza delle risorse economiche disponibili, mentre necessita dell’autorizzazione ministeriale soltanto nel caso d’insufficiente disponibilità del conto di gestione.
3. Il Collegio ritiene tale interpretazione infondata e rileva che è contrario ad ogni principio figurare un potere di autoliquidazione del compenso professionale del pubblico ufficiale, mentre v’è una norma che assegna espressamente all’autorità ministeriale la determinazione del compenso dell’amministratore di beni confiscati.
3.1. Il legislatore, all’art. 2 novies, comma 3, ha precisato che la gestione dei beni confiscati deve conformarsi alla L. 23 dicembre 1993, n. 559, art. 20 (disciplina della soppressione delle gestioni fuori bilancio nell’ambito delle amministrazioni dello stato) e, in quanto applicabile, alla L. n. 575 del 1965, art. 2 octies, ed ha espressamente richiamato i "sensi del decreto del Ministro del tesoro, di concerto con il Ministro delle finanze, 27 marzo 1990, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 98 del 28 aprile 1990", che detta "disposizioni per la gestione dei beni confiscati".
Il richiamo alle previsioni di tale decreto, espressamente operato dal legislatore con la L. 7 marzo 1996, n. 109, art. 3, comma 2, (che stabilisce la disciplina applicabile per il periodo di tempo rilevante in questo procedimento) comporta un’incorporazione delle disposizioni oggetto del rinvio in quella rinviante, con ciò superando e rendendo non più attuale qualsiasi problema attinente a eventuali vizi formali del decreto, in ipotesi rilevanti prima del richiamo operato dalla fonte legislativa primaria.
Che i problemi formali relativi al decreto sopra indicato siano irrilevanti in questo procedimento è, peraltro, implicita convinzione dello stesso ricorrente, che invoca l’art. 5, comma 2, di tale decreto ("I rapporti giuridici connessi all’amministrazione dell’azienda vengono regolate dalle norme del codice civile") per sostenere, erroneamente, l’inesistenza di una previsione sulla liquidazione del compenso e il rinvio alle norme generali del codice civile.
Mette conto, infatti, sottolineare che tale decreto prevede che – ove, come nel caso in esame, l’oggetto della confisca sia un’azienda -"l’amministratore, in attesa della destinazione della stessa ai sensi dei commi 5 e sesto della L. 4 agosto 1989, n. 282, art. 4, provvede alla gestione sotto la direzione dell’Intendente di finanza o di un suo delegato" (art. 5, comma 1). Il comma 2 sopra indicato, ed erroneamente invocato dal ricorrente, si riferisce a tutti i rapporti giuridici connessi all’amministrazione aziendale, ad eccezione di quelli diversamente e specificamente regolati dallo stesso decreto. E l’art. 8 afferma, inequivocabilmente che nel compenso per l’amministratore nonchè per i tecnici e per le altre persone, autorizzati a coadiuvarlo dal competente Intendente di finanza, è determinato, con provvedimento dello stesso Intendente di finanza, sulla base dei parametri stabiliti con decreto del Ministro delle finanze, di concerto con il Ministro del tesoro", poi intervenuto il 19 settembre 1992 (G.U. n. 68 del 23.3.1993).
Dopo avere richiamato le disposizioni di tale decreto interministeriale, il legislatore, nella L. n. 575 del 1965, art. 2 novies, comma 3, (inserito dalla L. 7 marzo 1996, n. 109, art. 3, comma 2, recante "disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati") ha esplicitato che, per l’amministratore dei beni confiscati, provvede l’autorità ministeriale "al rimborso e alle anticipazioni delle spese, nonchè alla liquidazione dei compensi che non trovino copertura nelle risorse della gestione", dove è evidente che quest’ultima frase relativa si riferisce ai compensi, al rimborso e alle anticipazione di spese, più esattamente precisate nell’art. 2 octies, comma 3, ed ha la funzione di richiedere uno specifico provvedimento amministrativo per pagamenti di somme per le quali non vi è disponibilità sufficiente nel conto di gestione.
Ciò non significa, però, che nel caso la disponibilità sia sufficiente, si possa prescindere dal provvedimento ministeriale, giacchè questo è richiesto in via generale dalla lettura coordinata delle norme sopra indicate e, specificamente, dalla prima parte dell’art. 2 nonies, comma 3, con l’espresso richiamo al Decreto Interministeriale 27 marzo 1990, nonchè dall’inesistenza di un diritto soggettivo alla percezione di tali acconti e all’autoliquidazione di esso.
3.2. Come si è già rilevato, non sussiste alcuna disposizione che preveda il potere o la facoltà di autoliquidazione da parte dell’amministratore del compenso spettantegli per l’attività svolta e, a maggior ragione, dell’acconto su tale compenso.
Sussiste ovviamente il diritto soggettivo dell’amministratore a ricevere un compenso per l’attività svolta, ma la determinazione del suo ammontare è di competenza dell’autorità ministeriale territoriale, che lo esercita in applicazione del principio generale della posticipazione del compenso o della postnumerazione – secondo cui il compenso matura solo a prestazione completamente eseguita, sicchè non è previsto alcun diritto ad acconti.
E’ del tutto illogico ritenere che l’espressa previsione che "il compenso per l’amministratore … è determinato con provvedimento dell’intendenza di finanza" non copra anche eventuali acconti di tale compenso.
La tesi dal ricorrente, secondo cui è lasciata alla determinazione dell’amministratore la deliberazione di attribuirsi acconti, fissandone anche l’ammontare, comporterebbe il rischio di anticipazioni esorbitanti rispetto alla liquidazione finale, con pericolo di danno per l’Amministrazione finanziaria eventualmente costretta – come ipotizza lo stesso ricorrente, facendo propria l’opinione di un consulente di parte – a richiedere la restituzione del denaro eccedente, intraprendendo anche azioni giudiziarie.
3.3. L’attribuzione di acconti sul compenso è ovviamente possibile, ma è affidata alla discrezionalità (che non è arbitrio) dell’autorità istituzionale di riferimento.
Così com’è possibile, da parte dell’autorità giudiziaria, disporre anticipazioni sui compensi all’amministratore dei beni sequestrati, alla stessa maniera è consentito all’autorità ministeriale disporre anticipazione sui compensi all’amministratore dei beni confiscati.
Il potere dell’ufficio ministeriale territoriale di determinare l’ammontare del compenso dell’amministratore, dei tecnici e delle altre persone autorizzati a coadiuvarlo, comprende il potere di autorizzare eventuali acconti e di determinarne il relativo ammontare.
La correlazione tra possibilità di attribuzione di acconti e potere discrezionale dell’Amministrazione esclude che l’amministratore nominato possa vantare una posizione di diritto soggettivo all’anticipo, autonomamente esercitabile.
3.4. La condotta dell’imputato che, in contrasto con le previsioni normative e con i ripetuti richiami (accertati dai giudici di merito) della competente autorità ministeriale territoriale, trasferì sui propri conti correnti le ingenti somme di cui al capo d’imputazione, integra l’indebita appropriazione del denaro di cui egli aveva la disponibilità a causa e nell’esercizio della sua attività di amministratore delle aziende confiscate e realizza la fattispecie penale prevista dall’art. 314 c.p..
Deve, pertanto, ribadirsi il principio, affermato da questa Corte con riferimento al commissario liquidatore (Cass. Sez. 6, n. 5576/1998, Ferri), che l’amministratore di beni confiscati che si appropri di denaro, di cui abbia la disponibilità, delle aziende confiscate, autoliquidandosi, senza autorizzazione della competente autorità ministeriale, acconti da lui stesso determinati nell’ammontare, commette il delitto di peculato.
Tale condotta lede l’interesse giuridico tutelato dall’art. 314 c.p., cioè il dovere di fedele e onesta amministrazione, indispensabile specie nel settore patrimoniale per salvaguardare i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, quando il pubblico ufficiale volga a profitto proprio denaro della P.A., sia pure per soddisfare una propria pretesa creditoria che, in quanto non assistita dai requisiti della certezza, della liquidità e dell’esigibilità, è meramente teorica e, comunque, non può essere azionata in via di autotutela.
Sono pertanto infondati i motivi dedotti (sopra sintetizzati sub a e b) sull’erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art. 314 c.p. e con riferimento alla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ovies e sul vizio di motivazione della sentenza, avendo il giudice d’appello preso in esame e rigettato le doglianze dell’appellante, con motivazione che s’integra con quella più analitica della sentenza di primo grado.
3.5. Da quanto sopra esposto deriva che il diritto al compenso non comprende il diritto all’acconto nè, a maggior ragione, la facoltà di autoliquidazione di esso. E’ pertanto infondato il motivo sub e), con cui s’invoca la scriminante dell’esercizio di tale diritto (art. 51 c.p.).
Rileva, peraltro, il Collegio che neppure dall’eventuale riconoscimento di tale diritto si potrebbe pervenire all’esclusione della punibilità della condotta incriminata, concretatasi nell’esercizio, in via di autotutela, di esso. Come questa Corte ha già avuto modo, in fattispecie analoga a quella in esame, l’esistenza e l’esercizio di un diritto non sono, di per sè, sufficienti a escludere la punibilità di ogni condotta dell’agente, altrimenti punibile, ma è necessario che la condotta sia prevista e permessa o dalla stessa norma che integra la fonte del diritto, particolare rispetto a quella assolutamente generale dell’art. 51 c.p., o da altra disposizione più particolare rispetto a quella (Cass. Sez. 6, n. 5576/1998, Ferri).
Di regola, l’ordinamento non consente l’autotutela privata dei diritti. La tutela di questi è affidata all’autorità giudiziaria su domanda di parte. L’autotutela è consentita soltanto in casi eccezionali, espressamente previsti dalla legge e non suscettibili di estensione analogica.
Nel caso in esame, in cui l’amministratore svolge un incarico pubblico, sotto il controllo e il potere direttivo dell’autorità ministeriale, non può configurarsi alcuna forma di autotutela, tanto più che l’autorità amministrativa aveva ripetutamente palesato all’imputato l’illegittimità della sua condotta, indipendentemente da ogni questione sull’ammontare del compenso o dell’acconto, non rilevante ai fini della configurazione del reato di peculato.
3.6. Infondato è anche il quarto motivo di ricorso, con cui si deduce l’erronea applicazione degli artt. 314 e 47 c.p.. Con idonea adeguata motivazione la Corte d’appello ha escluso che l’imputato abbia agito in buona fede. L’errore sulla legge extrapenale relativa alla disciplina dell’acconto, da cui sarebbe derivato un errore di fatto, considerato che tale errore, in quanto sostanzialmente riverberatosi sull’esercizio di un presunto diritto (art. 51 c.p.), si è rilevato inescusabile, anche per la qualità soggettiva dell’imputato (dottore commercialista, già Presidente del Consiglio dell’ordine di Catania), tanto più che l’ufficio ministeriale del territorio non mancò, per iscritto e verbalmente, di motivare la sua contrarietà alla condotta appropriativa dell’imputato, sollecitandolo persino alla restituzione delle somme di cui si era appropriato "per errore".
La ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito evidenzia la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, integrato dalla coscienza e volontà di fare proprie somme di cui il pubblico ufficiale aveva il possesso per ragioni del suo ufficio. Tale forma di dolo generico è insito nella condotta tenuta dall’imputato, non potendosi prendere in considerazione l’allegato inescusabile errore.
3.7. Manifestamente infondato, e perciò inammissibile, è il quinto motivo, relativo al costo delle polizze di assicurazione personali addebitato alle imprese amministrate. I giudici di merito hanno accertato (e il ricorrente non contesta in alcun modo) che l’imputato aveva addebitato alle imprese amministrate il premio delle polizze assicurative stipulato nel suo favore, così appropriandosi di denaro, di cui aveva disponibilità nelle sue funzioni di pubblico ufficiale, utilizzandola nel suo esclusivo interesse.
In proposito deve rilevarsi che erroneamente è stata omessa l’applicazione dell’art. 81 cpv. c.p., ma l’errore è irrimediabile per mancata impugnazione del pubblico ministero.
3.8. Infondato è, infine, l’ultimo motivo, con cui di denuncia l’illegittimità della concessa provvisionale in favore della parte civile, non disposta in primo grado. Assume il ricorrente che, in mancanza di impugnazione del P.M. e della parte civile, tale concessione costituisce reformatio in pejus, che viola l’art. 597 c.p.p..
Come questa Corte ha più volte affermato, non viola il divieto della reformatio in peius la sentenza che, in assenza di appello della parte civile, provveda alla liquidazione di una somma di denaro a titolo di provvisionale, non concessa dal giudice di primo grado, posto che il divieto attiene soltanto alle disposizioni di natura penale (Cass. Sez. 6, n. 38976/2009, Ricciotti; Sez. U, n. 30327/2002, Guadalupi; Sez. 5, n. 7967/1998, Calamità).
4. In conclusione, il ricorso va rigettato e l’imputato condannato al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate come da dispositivo che segue.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè a rifondere le spese sostenute dalla parte civile Agenzia del Demanio, che liquida in complessivi Euro 3.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A..
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.