Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con scrittura del 5.12.1970 I.L., all’epoca coniuge di C.A.M. ed il figlio G. si impegnarono a corrisponderle un assegno mensile di L. 2.000.000 rivalutabili.
Deceduto nel (OMISSIS) I.L., C.A.M. chiese ed ottenne dal Presidente del Tribunale di Milano il decreto ingiuntivo n. 4758 del 24 settembre 1998 nei confronti di V. Q.I.L. e di I.L.F., rispettivamente vedova di I.L., sposato in seconde nozze, e figlio dello stesso, nella qualità di eredi universali beneficiati di I.L. ed entro i limiti di cui all’art. 754 c.c., per la somma di L. 4.688.292.932 pari all’ammontare dei ratei non pagati dal gennaio 1985 al maggio 1998.
Gli intimati proposero opposizione innanzi al Tribunale di Milano con atto del 7 maggio 2002 e chiamarono in causa I.G., per essere eventualmente rimborsati dell’importo dovuto all’intimante nella misura del 50% in qualità di obbligato solidale assunta con la cennata scrittura, e per l’ulteriore quota di 1/3 del residuo 50% nella qualità d’asserito erede legittimo del dante causa.
Successivamente la C. chiese ed ottenne altri tre decreti ingiuntivi nn. 5529/99, 43849/01 e 61659/02 per ulteriori ratei scaduti, contro cui gli intimati proposero opposizione chiamando altresì in causa I.G.. In questi procedimenti, impostati sulla medesima linea difensiva, gli opponenti contestarono l’avversa pretesa assumendo la nullità del patto trasfuso nella scrittura perchè integrante una transazione su diritti indisponibili.
I.G., costituitosi ritualmente, chiese il rigetto della domanda proposta nei suoi confronti, per aver egli assunto in quel patto la veste di mero garante dell’adempimento dell’obbligazione cui si era impegnato il padre, e sostenne nel merito le ragioni della madre.
Il Tribunale adito, con sentenza del 23-24 settembre 2004, revocò uno solo dei decreti opposti emesso il 24 settembre 1998 e respinse l’opposizione avverso altri due decreti ingiuntivi, avendo ravvisato un contratto con prestazioni a carico del solo preponente a titolo gratuito e a contenuto transattivo, avente ad oggetto l’indennità spettante alla C. ex art. 139 c.c., nel testo all’epoca vigente ed ora art. 129 bis c.c., sotto forma di vitalizio, valido per la presenza dei prescritti requisiti di forma e di sostanza.
Escluse altresì che l’impegno realizzasse obbligazione alimentare, in quanto tale non estinta per la morte del vitaliziante.
La decisione venne impugnata innanzi alla Corte d’appello di Milano da Q.L. e I.L. per ottenerne la riforma con conseguente declaratoria di nullità della transazione per motivi illeciti, rappresentando quegli impegni il corrispettivo di un atto dispositivo di diritti indisponibili, riguardanti lo status della beneficiaria. L’obbligazione comunque riguardava l’assegno di mantenimento.
La C., costituitasi ritualmente, chiese il rigetto dell’appello e con autonomo atto di gravame impugnò la decisione svolgendo analoghe difese.
Con memorie dello stesso tenore I.G. si costituì in entrambi i giudizi proponendo a sua volta appello incidentale.
La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 251 depositata il 31 gennaio 2007, ha confermato che l’atto controverso rappresentava contratto con obbligazioni del solo proponente, riconducibile al paradigma dell’art. 1333 c.c., a titolo gratuito ma non motivato da spirito di liberalità, inteso a garantire alla C. un decoroso tenore di vita, obiettivo raggiunto attraverso la serie di prestazioni cui si era obbligato il marito, cui corrispose la rapida definizione delle varie vertenze giudiziarie pendenti. Ne ha quindi escluso la nullità, affermando che, in stante la natura inquisitoria del processo ecclesiastico che, ispirato al favor veritatis, non ammette il potere dispositivo delle parti, ma consente di dar rilievo ad eventuale accordo economico tra i coniugi ed al loro comportamento processuale, la ragione pratica sottostante l’accordo non concretava motivo illecito. Quanto all’impegno assunto da I. G., rappresentava obbligazione solidale nei confronti del padre ma solo sussidiaria nei confronti della madre. La prescrizione era quinquennale trattandosi di somme da pagarsi con periodicità.
Ricostruita in punto di fatto la vicenda personale dei coniugi, che aveva visto la C. trasferirsi da (OMISSIS) a (OMISSIS) col figlio G. nel (OMISSIS), e quindi l’introduzione nel 1968 da parte del marito della causa d’annullamento del matrimonio innanzi al Tribunale ecclesiastico, sfociata nell’esito da lui auspicato, indi di quella di separazione personale in sede civile, nonchè di azione di restituzione del patrimonio immobiliare e mobiliare formalmente intestato alla moglie, ha ritenuto che la convenzione fosse stata stipulata per comporre reciproche esigenze. Quanto a lei, per disporre di mezzi idonei a mantenere un tenore di vita decoroso, e quanto a lui, per ottenere rapida definizione sia del giudizio ecclesiastico d’appello, cui la C. effettivamente rinunciò, sia della causa di separazione per colpa, rinunciata anch’essa.
L’impegno rappresentava un contratto unilaterale con obblighi del solo proponente, privo in quanto tale di causa di liberalità e del conseguente vincolo di forma.
Q.L. e I.L. hanno infine impugnato per cassazione quest’ultima pronuncia sulla base di cinque motivi.
Entrambi gli intimati hanno resistito con controricorso. La C. ha altresì proposto ricorso incidentale affidato a tre motivi che sono stati resistiti dai ricorrenti principali. Tutte le parti hanno infine depositato rispettive memorie difensive ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
In linea preliminare si dispone la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c. in quanto sono stati proposti avverso la stessa decisione. Ancora in linea preliminare si dispone l’irricevibilità della produzione documentale allegata dai ricorrenti principali alla loro memoria difensiva, siccome trattasi di documenti non attinenti ai limitati fini previsti dall’art. 372 c.p.c..
Col primo motivo i ricorrenti principali denunciano vizio d’omessa motivazione su fatto decisivo e violazione degli artt. 1322, 1323, 1356 e 1345 c.c., artt. 1362, 1363 e 1367 c.c., e dell’art. 116 c.p.c.. Censurano la sentenza impugnata laddove qualifica l’accordo trasfuso nella scrittura privata controversa riconducendolo alla figura del contratto a titolo gratuito con obbligazioni del solo proponente, in cui non è riscontrabile lo spirito di liberalità, ed in quanto tale a forma non solenne, assumendo che l’affermata unilateralità contrasta con la riconosciuta bilateralità dell’atto, desunta sia dalla sottoscrizione della C. per accettazione, sia dal sinallagma tra le obbligazioni, rappresentato dalla desistenza della stessa dalle accanite difese spiegate nei giudizi pendenti, l’uno innanzi al giudice ecclesiastico l’altro in sede civile, cui la C. effettivamente diede corso. Queste obbligazioni integrerebbero un motivo illecito che travolgerebbe, rendendola nulla, l’intera pattuizione. L’errore di diritto si anniderebbe perciò: 1.- nell’omessa considerazione della comune intenzione delle parti e del loro comportamento successivo alla convenzione; 2.- nel non aver considerato illecito il motivo rappresentato dal comportamento anzidetto, sull’assunto che il potere inquisitorio del giudice ecclesiastico è fuori da ogni potere negoziale. Il motivo è illecito di per sè e quando è comune alle parti contraenti inficia il contratto anche se le parti non siano capaci d’individuare il mezzo per ottenere il prefissato risultato utile. Il quesito di diritto chiede: 1.- se l’accordo del 5.12.1970 non costituisse, un contratto con obbligazioni del solo proponente, ma avesse natura sinallagmatica, in forza della sottoscrizione di entrambe le parti. 2.- se è fondato su motivo illecito e ciò a prescindere dal non raggiungimento dello scopo prefissato.
3.- se fosse nullo perchè il comportamento assunto dalla C. ha influenzato il processo.
I resistenti deducono l’inammissibilità ovvero l’infondatezza della censura.
Il motivo è privo di fondamento.
Secondo quanto riferito in narrativa, La Corte del merito, pur escludendo la finalità transattiva del negozio considerato, ravvisata dai primi giudici,- ha ribadito la qualificazione già ad esso attribuita dal Tribunale, definendolo contratto con obbligazionI del solo proponente riconducibile al paradigma dell’art. 1333 c.c., a titolo gratuito ma non motivato da spirito di liberalità, con cui le parti intesero garantire alla C. un decoroso tenore di vita, obiettivo raggiunto attraverso la serie di prestazioni cui si era obbligato il marito; cui la consorte aveva garantito, nei limiti in cui ciò era possibile, la rapida definizione delle varie liti giudiziarie pendenti. Premesso che la natura inquisitoria del processo ecclesiastico, ispirato al favor veritatis, non ammette il potere dispositivo delle parti, consente tuttavia ed in ogni caso di dar rilievo ad eventuale accordo economico tra i coniugi ed al loro comportamento processuale, ha ritenuto che la ragione pratica sottostante l’accordo non concretasse motivo illecito. Piuttosto, alla luce della vicenda personale dei coniugi, che aveva visto la C. trasferirsi da (OMISSIS) a (OMISSIS) col figlio G. nel (OMISSIS), e quindi l’introduzione nel 1968 da parte del marito della causa d’annullamento del matrimonio innanzi al Tribunale ecclesiastico, sfociata nell’esito da lui auspicato, indi di quella di separazione personale in sede civile, nonchè di azione di restituzione del patrimonio immobiliare e mobiliare formalmente intestato alla moglie, la convenzione risultava palesemente stipulata per comporre reciproche esigenze, garantendo alla donna mezzi idonei a mantenere un tenore di vita decoroso, ed al marito di definire in tempi rapidi sia il giudizio ecclesiastico d’appello, cui la C. effettivamente rinunciò, sia la causa di separazione per colpa, rinunciata anch’essa. Di qui la natura dell’impegno qualificabile in termini di contratto unilaterale con obblighi del solo proponente, privo in quanto tale di causa di liberalità e del conseguente vincolo di forma.
Il tessuto argomentativo che sorregge questa articolata decisione, logicamente e coerentemente esplicato, esclude anzitutto il denunciato vizio di motivazione di cui al primo profilo della censura che, nella sostanza, contesta non già la correttezza dei canoni esegetici applicati dalla Corte del merito, ma piuttosto confuta la fondatezza dell’interpretazione della scrittura in contesa alla luce di una diversa ed in tesi più favorevole lettura del suo contenuto.
Nel resto il motivo è sia infondato che inammissibile. In ordine alla questione posta col 1^ quesito, occorre rilevare che non è la sottoscrizione di una sola parte, quanto l’unilateralità dell’obbligazione prevista nell’atto, ciò che rileva ai fini della sua inquadrabilità nella figura contrattuale ravvisata dai giudici del merito. Dato qualificante del contratto in esame, secondo la migliore dottrina, è infatti la previsione del vincolo a carico di una sola parte, che la obbliga ad adempiere mentre l’altra parte, oblata, è in facoltà di adempiere, sì che la parte obbligata, adempiendo, acquista il diritto alla controprestazione. Ne consegue che, fondandosi l’impegno su unica dichiarazione proveniente dall’obbligato, la sottoscrizione dell’atto che lo contiene da parte del beneficiario della prestazione, su cui grava l’onere del rifiuto, non è destinata ad incidere nè sul suo schema tipico nè sul suo contenuto, valendo semplicemente quale espressa accettazione dell’altrui obbligazione, benchè non necessaria perfezionandosi il contratto per il solo fatto del mancato rifiuto. Seppur valorizzabile in astratto nel senso auspicato dai ricorrenti – Cass. n. 26325/2008, la circostanza evidentemente non ha assunto rilievo alcuno per il giudice d’appello, al cui potere, insindacabile, era rimessa la scelta tra le fonti del suo convincimento. Il sinallagma, incompatibile con la struttura della figura contrattuale, nella specie , è stato peraltro escluso dalla Corte del merito che ha individuato la causa concreta sottostante l’impegno dell’ I. nell’intenzione di quest’ultimo di garantire un decoroso tenore di vita alla C. ed allo stesso tempo di pervenire alla rapida definizione delle varie controversie giudiziarie pendenti seppure incidendo sullo status, non fossero negoziabili. L’indisponibilità del diritto sottostante tali controversie, privando di portata obbligatoria l’assunzione da parte della C. del contegno processuale che, secondo quanto assumono i ricorrenti, ne consentì una più rapida chiusura, smentisce in radice sia la configurabilità della pretesa bilateralità dell’impegno contrattuale, sia la sussistenza alla base dell’accordo del motivo illecito comune alle parti, consistito appunto nella negoziazione delle cause in corso, correttamente escluso dal giudice d’appello con logica ed adeguata motivazione.
I restanti quesiti non chiedono risolversi la questione controversa alla luce di un principio di diritto, ma si risolvono in mere affermazioni di fatto che postulano una rivisitazione delle circostanze apprezzate dai giudici del merito. Sono pertanto inammissibili.
Col secondo motivo i ricorrenti deducono ancora vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1333, 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c..
Censurano la decisione impugnata laddove afferma che l’assegno mensile pattuito al punto a) della scrittura privata in discussione concreta una rendita vitalizia sotto forma di una somma di denaro indicizzata, e non già un assegno di mantenimento correlato al giudizio di separazione in corso, sull’assunto che l’accordo rifletteva un contenzioso ben più ampio. Assumono, a conforto, che la Corte del merito è incorsa in errore in quanto non è partita dai fatti e, trascurando la loro più logica interpretazione, non ha perciò colto che, in pendenza di plurimo contenzioso introdotto dall’ I. – giudizio innanzi al giudice ecclesiastico, causa di separazione nel cui alveo venne disposto da parte del Presidente del Tribunale a carico dello stesso il versamento di un assegno mensile di L. 1.500.000, domanda di retrocessione di cospicuo patrimonio mobiliare ed immobiliare già intestato alla C., l’assegno altro non rappresentava che la transazione sulla maggior richiesta fatta dalla moglie in sede di separazione di L. 2.500.000 mensili. Non è vero peraltro che il tenore di vita non era assicurato dalla pluralità degli aspetti dell’accordo, ma da quell’assegno. Il tenore di vita è parametro tipico dell’assegno di mantenimento, e lo giustifica l’impegno del figlio G. che in sede d’interpello ha reso confessione sul punto. In conclusione, la sentenza impugnata non sarebbe adeguatamente motivata laddove assume che la pattuizione controversa abbia costituito una rendita;
si baserebbe su interpretazione che contrasta con quella letterale e logica; ed è insuperabile il fatto che l’impegno venne assunto anche dal figlio della coppia, che era estraneo alle controversie giudiziarie in corso, e non poteva succedere al padre in questa obbligazione. E’ chiaro per l’effetto che l’ I. assunse l’obbligo di versare un assegno alimentare di mantenimento, che è pertanto cessato ex art. 448 c.c., con la sua morte. Il quesito di diritto chiede se "l’accordo 5.12.1970 per quanto attiene all’obbligazione dell’assegno mensile di cui al capo a) dello stesso, non abbia, anzichè natura di rendita vitalizia ex art. 1872 c.c., contenuto di assegno di mantenimento o alimentare ex art. 145 c.c., nel testo all’epoca vigente, e se come tale cessi con la morte dell’obbligato".
I resistenti chiedono il rigetto del motivo.
Il motivo condivide la sorte del precedente.
E’ sufficiente osservare che, a conclusione della complessa e diffusa illustrazione della censura, il quesito di diritto non assolve all’indicata funzione di sollecitazione in chiave di interrogativo circa la soluzione giuridica appropriata alla specie, ma chiede la rivisitazione dell’apprezzamento dei dati riferiti ed è perciò assolutamente inidoneo a darvi impulso. La deduzione del vizio d’insufficiente motivazione su punto essenziale della controversia non è peraltro accompagnata, ancora una volta in violazione dell’art. 366 bis c.p.c., dal prescritto momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) contenente la chiara illustrazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume inidonea (Cass. S.U. 20603/2007). Nella sua complessiva articolazione il quesito è altresì generico.
Col terzo motivo i ricorrenti denunciano ancora vizio di motivazione e violazione degli artt. 1322, 1333, 1292 e 1298 c.c., nonchè degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c.e, per aver il giudice d’appello ritenuto che l’impegno assunto da I.G. rappresentasse obbligazione solidale nei confronti del padre, ma solo sussidiaria nei confronti della madre. Sostengono che il dato letterale smentisce tale esegesi, siccome l’obbligazione del predetto venne prevista in via solidale e nell’interesse di entrambi i genitori, e peraltro sarebbe stata inutilmente assunta se l’impegno assunto dal padre avesse costituito una rendita vitalizia, dal momento che sarebbe stata a lui trasmissibile in via ereditaria.
Ancora una volta, la Corte del merito avrebbe omesso di rilevare che in sede d’interpello I.G. ammise d’aver assunto l’impegno per garantire la madre dopo la morte del padre, anche perchè all’epoca non si pensava potessero esservi altri successori.
Il conclusivo quesito di diritto chiede se l’obbligazione di cui al capo a) della scrittura in discussione sia stata assunta in via sussidiaria o solidale tra padre e figlio, e non nell’interesse esclusivo di una sola parte, e se per l’effetto debba essere divisa parzialmente ex artt. 1292 e 1298 c.c., e se gli eredi di I. L. abbiano diritto a rivalersi nei confronti di I. G..
I resistenti chiedono il rigetto anche di questo motivo.
Ancora una volta il quesito di diritto non assolve alla sua funzione tipica. Non solo la sua illustrazione è assolutamente inadeguata ad individuare la regula juris che governerebbe il caso in esame secondo quanto prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., sì che non è idonea a dare impulso alla funzione nomofilattica riservata a questa Corte, tipicamente attribuita alla sua formulazione, che ne giustifica la ratio sì da circoscrivere la pronuncia del giudice di legittimità nei limiti di un accoglimento o di un rigetto del quesito formulato (Cass. S.U. 20603/2007). Ma chiede in sostanza rivisitazione dell’apprezzamento dei dati riferiti inammissibile in questa sede. La deduzione del vizio di motivazione non si conclude infine con l’illustrazione della sintesi in relazione ai fatti sui quali la motivazione sì assume inidonea.
Il quarto motivo denuncia vizio di motivazione, nonchè violazione degli artt. 2934, 2935 e 2946 c.c.. Sostengono i ricorrenti che la Corte del merito avrebbe dovuto dichiarare estinto il diritto oggetto della pretesa attorea, attesa l’inerzia della C. protrattasi per oltre il decennio, vale a dire per 13 anni, dal 1985 al 1998.
Preceduto dal richiamo all’arresto di questa Corte n. 1449/1986, il quesito di diritto chiede se l’inerzia del creditore nel pretendere la prestazione produca l’estinzione del diritto ad ottenerla in caso di rendita vitalizia.
I resistenti deducono l’infondatezza del motivo. La C. rileva peraltro la novità della questione ivi introdotta e la conseguente inammissibilità della censura. Sicuramente ammissibile in questa sede la questione in esame siccome, correlata alla qualificazione dell’accordo controverso affermata dal solo giudice d’appello, non avrebbe potuto essere introdotta in primo grado, in cui si discusse se l’assegno controverso costituisse l’indennità di cui all’art. 139 c.c., nel testo all’epoca in vigore, nè tra i motivi di gravame dedotti avverso la decisione del Tribunale che non fece riferimento alcuno alla rendita vitalizia, nel merito è tuttavia priva di fondamento. La prescrizione decennale cui si riferisce il precedente di questa Corte invocato nel motivo opera laddove la controversia abbia ad oggetto il diritto unitariamente inteso alla rendita vitalizia. Diversamente, nel caso in cui oggetto del dibattito è il diritto al pagamento che si assume omesso di uno o più dei ratei scaduti, trova applicazione il più breve termine di cinque anni ex art. 2948 c.c., comma 1, n. 1. A quest’ultima disposizione è evidentemente riconducibile il caso di specie.
Col quinto motivo i ricorrenti lamentano vizio di motivazione e violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., assumendo che la Corte d’appello ha confermato la precedente statuizione di condanna al pagamento integrale a loro carico delle spese giudiziali, pur rilevando il parziale accoglimento delle avverse pretese, ed ha quindi compensato in parte le spese del gravame, assumendo di aver ridotto per un terzo le spese di primo grado.
Il quesito di diritto chiede se violi le norme invocate la dove si esclude ogni rilevanza economica alle domande accolte considerando solo il titolo giuridico delle questioni trattate.
I resistenti deducono l’infondatezza della censura.
Anche questo motivo risulta privo di fondamento. La statuizione impugnata in parte qua conferma la compensazione per 1/3 delle spese di giudizio, già assunta dal primo giudice, applicandola anche alla fase d’appello. La linearità della decisione, puntualmente argomentata, non è scalfita dalla censura in esame, che peraltro non sembra aver neppure colto senso e portata della sentenza di primo grado, che non ha applicato integralmente il principio della soccombenza.
Tutto ciò premesso il ricorso principale deve essere rigettato.
Il primo motivo del ricorso incidentale deduce violazione dell’art. 2948 c.c., nonchè degli artt. 1322, 1323, 1333, 1362, 1363, 1365, 1366, 1367, 1368 e 1369 e correlato vizio di motivazione per lamentare l’errata applicazione del termine di prescrizione quinquennale al contratto in discussione, avente natura mista. Il quesito di diritto chiede se in caso di contratto previsto dall’art. 1333 c.c., di natura mista l’applicazione del termine decennale violi il disposto dell’art. 2948 c.c..
Il motivo è infondato per le ragioni già illustrate con riguardo al quarto motivo del ricorso principale. Si controverte in causa dell’omesso pagamento di alcuni ratei scaduti del vitalizio ravvisato dalla Corte del merito, e l’ipotesi, a prescindere dalla natura mista o non della causa del contratto, è perciò governata dal disposto dell’art. 2948 c.c., comma 1, n. 1.
Resta travolta la disamina del secondo motivo, che denuncia ancora violazione del quadro normativo rubricato nel precedente mezzo, per assumere l’interruzione della prescrizione decennale, ed illustra quesito di diritto con cui si chiede se il riconoscimento dell’altrui diritto, ai fini dell’interruzione della prescrizione, necessiti di esplicita dichiarazione.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 39 c.p.c. e degli artt. 484 e 494 c.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. ed ancora vizio di motivazione. La ricorrente ascrive alla Corte territoriale d’aver liquidato piuttosto sbrigativamente la questione posta circa l’avvenuta decadenza delle controparti dal beneficio d’inventario, sull’assunto che essa rappresentasse oggetto di altro giudizio tuttora all’epoca pendente. Gli elementi costitutivi della domanda proposta in via incidentale, che ad avviso del giudice d’appello avrebbe procurato violazione del principio del ne bis in idem ai sensi dell’art. 39 c.p.c., in realtà non coincidevano con petitum e causa petendi della pretesa fatta valere nell’altro giudizio. Il quesito di diritto chiede se violi il disposto dell’art. 39 c.p.c., la richiesta d’accertamento incidentale nell’ambito di causa diversa per petitum e causa petendi.
Il motivo è inammissibile. Genericamente argomentata, la censura esposta non illustra con la necessaria puntualità gli elementi costitutivi della domanda che la Corte del merito ha ritenuto già sottoposta alla cognizione di altro giudice, nè individua, con la doverosa specificità, i tratti di divergenza che escluderebbero quella coeva pendenza di cui ora si denuncia l’erroneità.
Tutto ciò premesso, anche il ricorso incidentale deve essere rigettato.
In ragione della loro reciproca soccombenza, si dispone la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità fra i ricorrenti principali e la ricorrente incidentale. Si dispone invece la condanna dei ricorrenti principali al pagamento delle spese sostenute da I.G. per difendersi nel presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese del presente giudizio tra i ricorrenti principali e la ricorrente incidentale e condanna i primi al pagamento delle spese della presente fase di legittimità nei confronti di I.G. liquidandole in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 novembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2012
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