Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
F.A. e P.D., G. ed U. convenivano, davanti al tribunale di Reggio Calabria sezione specializzata agraria, P.G. fu S. chiedendo che fosse dichiarato risolto per grave inadempimento il contratto di affitto del fondo di loro proprietà e condotto in locazione dal convenuto, con la conseguente condanna al suo rilascio.
Si costituiva il convenuto contestando la fondatezza delle domanda e chiedendo la restituzione delle somme pagate in eccesso a titolo di canoni.
Il tribunale – sezione specializzata agraria, con sentenza del 24.1,1995, dichiarava la risoluzione dei contratti di affitto in data 18.11.1967 e 16.11.1968 per inadempimento del convenuto nel frangente defunto, con condanna degli eredi al suo rilascio ed al pagamento di somme a titolo di differenza per canoni di affitto scaduti e non pagati. Proponevano appello P.A.P. e Z.M., quali eredi dell’originario convenuto chiedendo la riforma della sentenza impugnata.
Si costituivano gli originari ricorrenti contestando il fondamento dell’appello proposto e proponendo a loro volta appello incidentale.
La Corte d’Appello di Reggio Calabria – sezione specializzata agraria, con sentenza del 25.9.2008, accoglieva l’appello principale rigettando le domande proposte dagli originari ricorrenti, e rigettava quello incidentale.
Ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi illustrati da memoria, P.U. in proprio e quale erede di F.A..
Resiste con controricorso P.A.P. in proprio e quale erede di Z.M. e P.S..
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l’applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo I. Secondo l’art. 366 – bis c.p.c. – introdotto dall’art. 6 del decreto – i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo lì descritto ed, in particolare, nei casi previsti dall’art. 360, nn. 1), 2), 3) e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Segnatamente, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Sez. Un. 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass. 18 luglio 2007, n. 16002).
Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione risponda con l’enunciazione di un corrispondente principio di diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere formulato in modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta (v. S.U. 11 marzo 2008, n. 6420 che ha statuito l’inammissibilità – a norma dell’art. 366 bis c.p.c. – del motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo).
La funzione propria del quesito di diritto – quindi – è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass. 7 aprile 2009, n. 8463; v. anche Sez.Un. ord. 27 marzo 2009, n. 7433).
I quesiti posti con riferimento ai primi sei motivi non rispettano i requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c., come più sopra evidenziato.
La funzione propria del quesito di diritto, da formularsi a pena d’inammissibilità del motivo proposto, è di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. 7.4.2009 n. 8463).
I quesiti posti con riferimento al primo motivo, relativi a violazioni di norme di diritto e vizio di motivazione, invece, sotto il primo profilo peccano di genericità, e si risolvono in enunciazioni di carattere generale, non contenendo alcun riferimento al caso concreto. In tal modo, la Corte di legittimità si trova nell’impossibilità di enunciare un o i principii di diritto che diano soluzione allo stesso caso concreto (Cass. ord. 24.7.2008 n. 20409; S.U. ord. 5.2.2008 n. 2658; Sez. Un. 5.1.2007 n. 36, e successive conformi).
Nè il quesito, correttamente posto, può essere desunto dal contenuto e dall’illustrazione del motivo che lo precede, e neppure può essere integrato il primo con il secondo. Diversamente, si avrebbe la sostanziale abrogazione della norma dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis nella specie (Sez. Un. 11.3.2008, n. 6420 e successive conformi).
Sotto il profilo del vizio motivazionale, poi, difetta la chiara illustrazione del supposto fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria -, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (Cass. 25.2.2009 n. 4556).
Analogamente per i quesiti relativi al secondo, terzo, quarto, quinto e sesto motivo.
I quesiti di diritto proposti, con riferimento alle supposte violazioni di norme di diritto, da un lato sono generici, difettando il collegamento con il caso concreto, dall’altro, non indicano, nè la regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, nè il diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo, con la conseguente inammissibilità del motivo (v. anche Cass. 30.9.2008 n. 24339).
Quanto ai supposti vizi motivazionali, difetta, sotto questo profilo, la chiara indicazione del o dei fatti controversi – raccolti nel "momento di sintesi" – in relazione ai quali la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (Cass. 25.2.2009 n. 4556).
I motivi, quindi, da uno a sei sono inammissibili.
II settimo motivo, invece, è fondato per le ragioni che seguono.
In primo luogo deve sottolinearsi – con riferimento alle questioni che saranno più oltre trattate – che il giudice ha l’obbligo di rilevare d’ufficio l’esistenza di una norma di legge idonea ad escludere, alla stregua delle circostanze di fatto già allegate ed acquisite agli atti di causa, il diritto vantato dalla parte, e ciò anche nei gradi di impugnazione, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che, nei gradi di merito, le questioni controverse abbiano investito altri e diversi profili di possibile infondatezza della pretesa in contestazione e che la statuizione conclusiva di detto grado si sia limitata solo a tali diversi profili. E ciò perchè la disciplina legale inerente al fatto giuridico costitutivo del diritto è di per se sottoposta al giudice di grado superiore, senza che vi ostino i limiti dell’effetto devolutivo dell’appello o della natura limitata del ricorso per cassazione.
Pertanto, il giudizio di cassazione – così come quello di appello – pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di impugnazione, si estende ai punti della sentenza di secondo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati.
Ne deriva che non viola i principi cui è ispirato il ricorso per cassazione, la Corte di legittimità che esamini questioni non specificamente alla stessa proposte o sviluppate, le quali però appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, e come tali comprese nel thema decidendum (v. anche Cass. ord. 5.4.2011 n. 7789; S.U. 7.11.1997 n. 10933).
Nel caso in esame, la questione relativa al regime di equo canone dei fondi rustici e dei conseguenti canoni di affitto, pur non avendo costituito espressamente motivo di ricorso, è ricompresa implicitamente – costituendone addirittura il presupposto logico – nelle questioni sollevate con il settimo motivo ai fini dell’accertamento della morosità nel pagamento dei canoni di affitto e del "reiterato inadempimento dell’affittuario della propria obbligazione di pagare il canone convenuto" (pag. 33 del ricorso), così come, peraltro, mostra di ritenere il ricorrente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c. (pag. 11).
Ora, i giudici di appello hanno mostrato di essere all’oscuro della – ormai da tempo – intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della L. 3 maggio 1982, n. 203, artt. 9 e 62 (C. cost.
5 luglio 2002, n. 318); con la conseguenza che non esiste più un regime di equo canone per i fondi rustici; e ciò fino a che il legislatore non intervenga a disciplinare la materia con l’indicazione del canone equo di affitto.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 318 del 2002, ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 203 del 1982, artt. 9 e 62, in tema di rapporti agrari, e contiene una statuizione, di per sè esaustiva, tale da non consentire all’interprete – al di là ed a prescindere dal contenuto della motivazione della sentenza – la determinazione di un nuovo meccanismo di equo canone d’ affitto. Ciò perchè sono divenute prive di effetti, sia le tabelle per i canoni di equo affitto così come disciplinate dalla L. n. 203 del 1982, art. 9, sia il criterio, previsto ex lege ai fini della quantificazione del canone stesso, del reddito dominicale risultante dal catasto terreni a norma del R.D.L. n. 589 del 1939.
Non esiste, più, pertanto, per effetto della pronuncia citata – almeno fino ad un nuovo eventuale e discrezionale intervento del legislatore – un regime di equo canone per i fondi rustici (Cass. 17.12.2004 n. 23506; Cass. 20.12.2004 n. 23628).
Tali principi sono stati ribaditi, negli anni successivi, da una giurisprudenza pacifica, costante nell’affermare che, per effetto della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 318 del 2002, sono divenute prive di effetti – come detto -, sia le tabelle per il canone di equo affitto come disciplinate dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 9 e dalle norme da questo richiamate, sia, ai fini della quantificazione del canone stesso, i redditi dominicali stabiliti – ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 62 – a norma del R.D.L. 4 aprile 1939, n. 589, per cui deve ritenersi precluso al giudice sia l’esame, nel merito, di domande formulate ai sensi della L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 28, allorchè dirette ad ottenere la restituzione di somme pagate dal conduttore oltre i livelli massimi di equità, sia l’esame di eventuali domande – comunque denominate – proposte ai sensi della L. 12 giugno 1962, n. 567, art. 7 (Cass. ord. 12.4.2011 n. 8413; Cass. 9.4.2010 n. 9266. Sempre in questo senso, fra le molte, Cass. 19.11.2007 n. 23931; Cass. 14.11.2008 n. 27264, che hanno escluso l’esperibilità di azioni dirette a reclamare somme ulteriori rispetto a quelle già corrisposte, in forza di accordi liberamente intervenuti tra le parti, anche senza l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali agricole; Cass. 5.3.2007 n. 5074; Cass. 11.2.2008, n. 3261, secondo le quali è precluso introdurre distinzioni tra contratti stipulati prima del 1988 e contratti intervenuti successivamente, o tra canoni pagati prima della sentenza n. 139 del 1984 e canoni corrisposti successivamente, non rilevando, al fine di invocare la perdurante applicabilità di dette norme ai contratti più risalenti, la circostanza che, in precedenza, la medesima questione di incostituzionalità fosse stata ritenuta infondata; pertanto risulta priva di fondamento normativo la domanda di ripetizione, L. n. 11 del 1971, ex art. 28, delle somme corrisposte in eccedenza ai livelli massimi d’equità stabiliti dalle tabelle di equo canone; Cass. 28 luglio 2005, n. 15809, che ha affermato che il conduttore non può opporre, per resistere alla domanda di risoluzione fondata sul mancato pagamento del canone L. n. 203 del 1982, ex art. 5, di non essere tenuto al pagamento di un canone superiore a quello massimo tabellare, opponendo in compensazione i canoni pagati in precedenza in misura superiore a quella una volta legale). Ha, anche, precisato questa Corte – in fattispecie analoghe alla presente – che in presenza di una libera quantificazione del canone operata dalle parti, non sussiste il potere, per il giudice, di determinare questo in una misura diversa per adeguarlo ad equità, dovendosi, in particolare, dichiarare priva di qualsiasi fondamento l’assunto secondo cui – a seguito della indicata pronuncia (n. 318 del 2002, della Corte costituzionale) – finchè non interverrà una nuova determinazione del canone equo dovuto per l’affitto dei fondi rustici, questo deve essere determinato in via equitativa dal giudice (in termini, ad es. Cass. 27 giugno 2008 n. 17746).
La Corte di merito non si è attenuta a questi principi ed ha reso una pronuncia prescindendo totalmente dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice sulla questione specifica, che costituisce, al momento, in materia diritto vivente.
La sentenza impugnata, pertanto, è cassata, nella parte in cui ha quantificato le somme dovute dall’affittuario, per le annate agrarie dal 1968/1969 al 1983/1984, sulla base della espletata consulenza tecnica d’ufficio.
La causa è rimessa alla stessa Corte di appello di Reggio Calabria, sezione specializzata agraria, in diversa composizione, perchè proceda a un nuovo esame della controversia facendo applicazione del seguente principio di diritto: "Per effetto della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 318 del 2002, sono divenute prive di effetti sia le tabelle per il canone di equo affitto come disciplinate dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 9 e dalle norme da questo richiamate, sia, ai fini della quantificazione del canone stesso, i redditi dominicali stabiliti – ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 62 – a norma del R.D.L. 4 aprile 1939, n. 589, per cui il canone dovuto dalla parte conduttrice è unicamente quello stabilito, liberamente, tra le parti o l’ultimo, giudizialmente accertato con sentenza passata in cosa giudicata anteriormente alla sentenza n. 318 del 2002, senza che sia consentito al giudice – in attesa di una eventuale nuova disciplina della materia – determinare un canone equo in sostituzione di quello voluto dalle parti o in passato accertato dal giudice, ancorchè il canone cosi determinato pattiziamente o in forza di pronunzia coperta da giudicato non assicuri al concedente una remuneratività non irrisoria della rendita e all’affittuario la possibilità di esercizio dell’impresa con il contemperamento degli interessi reciproci".
Conclusivamente, i primi sei motivi sono dichiarati inammissibili; il settimo è accolto; la sentenza è cassata in relazione al motivo accolto e la causa è rinviata alla stessa Corte d’Appello di Reggio Calabria – sezione specializzata agraria in diversa composizione perchè proceda a un nuovo esame della controversia in applicazione del principio di diritto enunciato. Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili i primi sei motivi di ricorso.
Accoglie il settimo. Cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, alla stessa Corte d’Appello di Reggio Calabria – sezione specializzata agraria in diversa composizione.
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