Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 18/20-5-1988 V.L., nella qualità di tutore provvisorio della madre interdicenda I.M., assumeva che quest’ultima, mentre versava già in Stato di incapacità di intendere e di volere in quanto affetta da sindrome arteriosclerotica cerebrale, aveva donato al figlio V. E. un fondo rustico sito in (OMISSIS), ed aveva rilasciato al medesimo una procura a vendere tutti i propri beni. Aggiungeva che il detto V.E. aveva effettivamente venduto, in data 8-5-1987, sia il fondo ricevuto in donazione sia i terreni contigui rimasti in proprietà della madre. Tanto premesso, l’attrice conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Agrigento V.E. e gli acquirenti dei terreni L.M., C.S., G.C., C.L., D. C.A., C.S. e Ma.Co., chiedendo che venissero dichiarati nulli o annullati ex artt. 428 e 775 c.c. tutti gli atti sopra indicati, con conseguente condanna dei convenuti alla restituzione dei beni ed al risarcimento dei danni.
Nel costituirsi, V.E. contestava la dedotta incapacità d’intendere e di volere della madre, assumendo che la stessa era stata visitata e riconosciuta sana di mente appena pochi mesi prima della donazione, e rilevando che la predetta aveva anche percepito il prezzo della vendita.
Si costituivano anche gli altri convenuti, deducendo di avere acquistato i beni a titolo oneroso in buona fede e contestando, in ogni caso, lo stato d’incapacità di intendere e di volere della I..
Successivamente, con separati atti di citazione, V.L., premesso che nonostante la trascrizione della prima citazione, effettuata il 10-6-1988, gli acquirenti già convenuti avevano proceduto a vendere a terzi i beni in questione, conveniva in giudizio gli stessi convenuti e i successivi acquirenti, chiedendo che venissero dichiarati nulli e improduttivi di effetti i vari atti di vendita.
La stessa attrice, inoltre, evocava in giudizio i medesimi L. M., C.S., G.C., C.L., D.C.A., C.S. e Ma.Co., nonchè il Comune di Canicattì, per far dichiarare la nullità degli atti con i quali erano stati costituiti alcuni vincoli in favore di tale Ente su alcune particelle del fondo nel frattempo frazionato.
A seguito della riunione di tutte le cause e dell’integrazione del contraddicono nei confronti degli altri eredi ( V.E., V.A.M. e V.A.) di I.M., nel frattempo deceduta, il Tribunale di Agrigento, con sentenza del 20-4- 2004, ritenuta raggiunta la prova della incapacità di intendere e di volere della I. solo in relazione alla procura a vendere rilasciata al figlio V.E. il 30-3-1987 e non anche in relazione alla donazione del 19-6-1985, annullava detta procura e il conseguente atto pubblico di compravendita dell’8-5-1987 tra V. E. e L.M., C.S., G.C., C.L., D.C.A., C.S. e Ma.Co.; dichiarava, inoltre, l’inefficacia dei successivi atti di compravendita e di apposizione di vincoli in favore del Comune di Canicattì, posti in essere dagli acquirenti;
condannava i convenuti alla restituzione dei beni immobili e al risarcimento dei danni; rigettava le ulteriori domande proposte dall’attrice e le domande riconvenzionali dei convenuti.
Avverso la predetta decisione proponevano appello L.M., C.S., G.C., C.L., D. C.A., C.S., Ma.Co., D.N. M., in proprio e quale erede di P.I., e M.S..
Con sentenza depositata il 22-2-2007 la Corte di Appello di Palermo rigettava il gravame.
Per la cassazione di tale sentenza ricorrono L.M., C.S., G.C., C.L., D. C.A., Ma.Co., in proprio e quale erede di C.S., M.S. e D.N.M., in proprio e quale erede di P.I., sulla base di sei motivi.
Gli intimati non si sono costituiti.
I ricorrenti hanno depositato istanza di persistenza dell’interesse alla trattazione, ai sensi della L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 26.
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 2719 c.c., nonchè l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Deducono che i giudici di merito hanno retrodatato al dicembre 1986 lo stato di demenza senile e, quindi, di incapacità di intendere e di volere di I.M., esclusivamente sulla base della fotocopia di una ipotetica lettera del 13-12-1986 della Direzione della Casa di Riposo, riferente uno stato di "confusione mentale" della predetta e la convinzione della stessa che "i figli la vogliono derubare e/o avvelenare". Sostengono che tale fotocopia è stata espressamente disconosciuta nella sua conformità all’originale sia all’udienza successiva alla sua produzione che nell’atto di appello; e che, pertanto, di essa non poteva farsi uso, non avendo parte avversa prodotto l’originale nè dimostrato in altro modo ì fatti asseriti nella fotocopia disconosciuta. Evidenziano che la non conformità della detta fotocopia all’originale è comprovata dalla lettera del gennaio 1987 dell’avv. Vincenzo Valenza, nella quale, con riferimento alla segnalazione ricevuta dalla Casa di Riposo riguardo alle condizioni della I., non si parlava affatto nè dello stato confusionale in cui versava la donna, nè dei timori della stessa nei confronti dei figli. Rilevano che ìa Corte di Appello ha ritenuto infondato l’operato disconoscimento perchè riferito ai "requisiti di autenticità", senza considerare che il rilievo di non autenticità equivaleva al rilievo di non conformità della copia all’originale.
Aggiungono che nel terzo motivo di gravame è stato specificato chiaramente il significato da attribuire all’operato disconoscimento, e che il disconoscimento di conformità all’originale di copie di scritture non provenienti dalla parte può essere effettuato per la prima volta anche in appello.
Il motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: "Dica la Corte Suprema, nel caso di scritture di copie non provenienti dalle parti, se la contestazione di un documento perchè privo dei requisiti di autenticità equivale o meno alla contestazione di conformità del documento all’originale, e se tale disconoscimento di conformità all’originale è proponibile anche per la prima volta in appello".
Il motivo non è meritevole di accoglimento.
Deve premettersi che, secondo un principio affermato dalla giurisprudenza, mentre il disconoscimento della scrittura o della sottoscrizione è superabile solo con l’esperimento positivo della procedura di verificazione prevista dall’art. 216 c.p.c., il disconoscimento della conformità della copia fotostatica all’originale non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (v. Cass. 6-10-2001 n. 12598; Cass. 12-5-2000 n. Cass. 5-2-1996 n. 940; Cass. 22.12.1993 n. 12705). Ne deriva che l’avvenuta produzione in giudizio della copia fotostatica di un documento, se impegna la parte contro la quale il documento prodotto a prendere posizione sulla conformità della copia all’originale, tuttavia, non vincola il giudice all’avvenuto disconoscimento della riproduzione, potendo egli apprezzarne l’efficacia rappresentativa (Cass. 4-3-2004 n. 4395).
Nel caso in esame, la Corte di Appello non si è limitata a rilevare che le contestazioni dei convenuti, per la loro genericità, non valevano ad integrare un formale disconoscimento della conformità all’originale della lettera della Direzione della Casa di Riposo del dicembre 1986, prodotta in copia dall’attrice. Essa, al contrario, nel prosieguo della motivazione, ha altresì evidenziato che la lettera dell’avv. Valenza del 1987 contiene mere considerazioni personali del legale circa le ragioni per le quali la predetta Direzione, con la missiva del dicembre 1986, avrebbe segnalato gli allontanamenti della I.; considerazioni che, secondo il giudice del gravame, non pongono in dubbio la sussistenza dei fatti nella loro obiettività nè, tanto meno, comprovano la non autenticità della lettera del 13-12-1986, ma, semmai, ne confermano sia l’esistenza che il contenuto.
La sentenza impugnata, pertanto, ha di fatto accertato l’autenticità della copia della lettera della Direzione della Casa di Riposo prodotta dall’attrice e la veridicità dei fatti in essa asseriti, proprio sulla base del documento (lettera dell’avv. Valenza) che, secondo gli appellanti, avrebbe dovuto comprovare l’alterazione e la non conformità di detta copia all’originale; e tale accertamento non ha costituito oggetto di censura da parte dei ricorrenti.
La questione inerente alla ritualità del disconoscimento operato dagli appellanti, di conseguenza, si palesa irrilevante, risultando superata dall’accertamento della conformità all’originale della copia del documento in esame, in concreto compiuto dai giudici di merito ex aliunde e non fatto oggetto di specifiche censure da parte dei ricorrenti.
2) Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e vizi di motivazione, sostenendo che la Corte di Appello ha affermato l’incapacità di intendere e di volere della I. (accertata dal C.T.U. nominato nel giudizio di interdizione alla data del 12-4-1988) sin dall’epoca del conferimento della procura (30-3-1987), ossia un anno e dodici giorni prima, in virtù di presunzioni prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.
Le censure mosse, che pur denunciando anche la violazione di norme di diritto, attengono, in realtà, esclusivamente alla motivazione della sentenza impugnata e ai criteri di valutazione della prova, sono infondate.
Giova rammentare che, secondo il costante orientamento di questa Corte, spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (v. Cass. 27-10-2010 n. 21961;
Cass. 13-11-2009 n. 24028; Cass. 2-4-2009 n. 8023; Cass. 11-5-2007 n. 10847; Cass. 4-3- 2005 n. 4743).
Nel caso di specie, la Corte di Appello è pervenuta alla conclusione della sussistenza dello stato di demenza senile e della conseguente incapacità di intendere e di volere della I. già alla data del rilascio della procura oggetto del presente giudizio (30-3-1987), sulla base di argomentazioni appaganti e congrue, facenti leva, in particolare, sulla lettera del dicembre 1986 della Casa di Cura che ospitava la donna (nella quale venivano riferite condotte di quest’ultima tali da manifestare la sussistenza di gravi disturbi psichici e la perdita di qualsiasi autonomia decisionale), nonchè su un certificato del dott. C. (contenente la diagnosi di vasculopatia cerebrale e demenza senile), che, benchè datato 30-10- 1987 e non proveniente da uno psichiatra, in modo non irragionevole è stato ritenuto utile e significativo delle pregresse condizioni della donna, in quanto fondato sullo stato della paziente direttamente riscontrato dal medico che l’aveva in cura in occasione delle visite periodicamente effettuate sin dal 1982.
Il convincimento espresso dal giudice di merito, pertanto, risulta sorretto da una motivazione esauriente e logica, frutto di un’accurata indagine degli elementi di fatto emergenti dalle risultanze processuali.
3) Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 2702 e 2703 c.c. e vizi di motivazione, per avere la Corte di Appello negato valore di prova legale della capacità di intendere e di volere all’atto del 14-8-1987, prodotto in giudizio dalla stessa attrice, con il quale la I. delegava la figlia a riscuotere le pensioni di cui godeva, pur essendo stata tale delega vergata per intero e sottoscritta dalla stessa I., e la relativa firma autenticata dal pubblico ufficiale.
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se la produzione in giudizio di una scrittura privata, avente valore di prova legale in ordine alla validità del consenso manifestato dalla sottoscrittrice, equivale o meno, per la parte procedente, a riconoscimento implicito della capacità di intendere e di volere della sottoscrittrice".
Il motivo è infondato, in quanto l’autenticazione, da parte del notaio, della firma apposta all’atto di delega dalla I., non costituisce affatto prova legale della validità del consenso manifestato dalla sottoscrittrice. Deve ribadirsi, infatti, il principio già affermato da questa Corte, secondo cui l’atto pubblico fa fede fino a querela di falso solo relativamente alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato, alle dichiarazioni al medesimo rese e agli altri fatti dal medesimo compiuti, ma tale efficacia probatoria non si estende anche ai giudizi valutativi (eventualmente) compiuti dal pubblico ufficiale, tra i quali va compreso quello relativo al possesso, da parte di uno dei contraenti, della capacità di intendere e di volere (Cass. 27-4- 2006 n. 9649).
4) Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 428 c.c., comma 1 e vizi di motivazione.
Sostengono che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il rilascio della procura a vendere al figlio non integrava gli estremi del pregiudizio grave ed attuale richiesto dalla citata disposizione di legge ai fini dell’annullamento degli atti unilaterali per incapacità di intendere e di volere. Rilevano, in particolare, che la I. si è trovata nella necessità di vendere l’unico bene (costituente l’intero patrimonio) per far fronte alle elevata retta mensile della Casa di Riposo di Lodi, e che l’appezzamento di terreno in questione è stato venduto ad un prezzo congruo, corrispondente al valore di mercato dell’immobile e interamente incassato dalla I.. Il motivo si conclude con la formulazione del seguente motivo di diritto: "Dica la Suprema Corte se il rilascio di una procura generale a vendere al proprio figlio dell’unico suo bene, motivato dalla necessità di pagare la retta mensile della Casa di Riposo, possa o meno costituire di per sè prova del grave pregiudizio richiesto dall’art. 428 c.c., comma 1, specie in assenza di un pregiudizio economico per essere stato il bene poi venduto al prezzo di mercato, interamente incassato dalla mandante".
Il motivo non merita accoglimento.
Il riferimento alla congruità del prezzo di vendita dei beni oggetto della procura non appare pertinente, atteso che, come è stato esattamente osservato nella sentenza impugnata, l’atto da prendere in considerazione ai fini della valutazione della sussistenza o meno del grave pregiudizio di cui all’art. 428 c.c. non è la vendita poi posta in essere da V.E., bensì la procura a vendere precedentemente rilasciata a quest’ultimo dalla I..
Per il resto, attraverso la formale denuncia di violazione di legge e di vizi di motivazione, con il motivo in esame vengono mosse mere censure di merito, dirette ad ottenere una ricostruzione in fatto della vicenda e una valutazione delle risultanze processuali diversa rispetto a quella compiuta dalla Corte di Appello, la quale, dando adeguato conto delle ragioni del proprio convincimento, ha ritenuto gravemente pregiudizievole per la I. il rilascio della procura a vendere del 30-3-1987.
Il giudizio espresso al riguardo dal giudice di merito si sottrae al sindacato di questa Corte, essendo sorretto da argomentazioni congrue e logiche, con le quali è stato posto in evidenza che la procura rilasciata dalla I. al figlio riguardava la vendita di tutti i beni presenti e futuri, senza previsione di alcuna indicazione e limitazione di prezzo; che gli appellanti non hanno fornito alcuna prova in ordine alla dedotta necessità di procedere alla vendita del patrimonio della I. per far fronte al pagamento della retta del ricovero di quest’ultima; che il rilascio di una simile procura generale e incondizionata ha costituito un atto gravemente pregiudizievole per l’incapace, per il rischio, poi verificatosi, di rimanere priva dell’intero patrimonio, senza avere più alcuna possibilità di controllo e di ripensamento, stante l’accertata incapacità, che avrebbe impedito alla donna anche soltanto di revocare la procura senza l’intervento dello stesso beneficiario.
5) Con il quinto motivo viene denunciata la violazione di legge e l’errata motivazione, in relazione alla ritenuta inapplicabilità dell’art. 1389 c.c., in base al quale, in caso di rappresentanza conferita dall’interessato, per la validità del contratto concluso dal rappresentante è sufficiente che il rappresentato sia legalmente capace. A conclusione del motivo viene posto il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se l’art. 1389 c.c. è applicabile o meno nel caso in cui il contratto sia posto in essere dal rappresentante, capace di intendere e di volere, qualora il rappresentato versi in stato di incapacità naturale, ma sia legalmente capace in quanto maggiorenne e non interdetto alla data della stipula del contratto".
Il motivo è infondato.
E’ vero che, in base al menzionato art. 1389 c.c., nei contratti conclusi a mezzo di rappresentante è sufficiente la capacità legale del rappresentato, ossia che questi al momento della stipula sia maggiorenne e non interdetto, mentre per il rappresentante è richiesta la capacità di intendere e di volere (Cass. 13-1-1984 n. 275).
Come è stato evidenziato nella sentenza impugnata, tuttavia, la disposizione codicistica in esame disciplina l’ipotesi del contratto stipulato dal rappresentante in forza di una procura validamente conferitagli dal rappresentato; laddove, nel caso in esame, per effetto dell’annullamento ex art. 428 c.c., comma 1 della procura a vendere rilasciata dalla I., il successivo atto di vendita dell’8-5-1987, per la parte concernente i beni di proprietà di quest’ultima, deve ritenersi stipulato da rappresentante senza potere.
La decisione adottata, pertanto, non si pone in contrasto con la regola dettata dall’art. 1389 c.c., non avendo ritenuto che il contratto di compravendita stipulato dal rappresentante fosse invalido a causa dello stato di incapacità naturale della I., ma avendo correttamente tenuto conto degli effetti giuridici dell’annullamento della procura, che ponendo nel nulla l’atto di conferimento del potere di rappresentanza a V. E., ha fatto sì che quest’ultimo, al momento in cui ha alienato a terzi i beni della madre, risultasse privo del necessario potere rappresentativo.
6) Con il sesto motivo i ricorrenti, lamentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 1396 c.c. e vizi di motivazione, censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’applicazione del principio dell’apparenza di diritto, sul presupposto che gli acquirenti avessero stipulato l’atto di compravendita senza attenersi ai criteri di normale diligenza. Affermano, in particolare, che la Corte di Appello avrebbe dovuto ammettere la prova testimoniale articolata, diretta a dimostrare che le visure erano state eseguite da una visurista di fiducia degli acquirenti. A conclusione del motivo, formulano il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se l’aver fatto eseguire da un visurista di fiducia, anzichè dal visurista del notaio rogante, visure sul rappresentato-venditore, in ordine alle trascrizioni ed iscrizioni risultanti dai pubblici registri, al fine di accertare la proprietà in testa al rappresentato-venditore e la assenza di ipoteche o di altre iscrizioni pregiudizievoli, costituisca o meno difetto dell’ordinaria diligenza".
Il motivo non può trovare accoglimento.
La Corte di Appello ha sufficientemente motivato la sua decisione, spiegando, con argomenti convincenti e logici, che gli acquirenti hanno stipulato l’atto di compravendita senza attenersi ai criteri di normale diligenza, avendo rinunciato non solo alle visure ipotecarie – esonerando il notaio da qualsiasi responsabilità -, ma, soprattutto, all’acquisizione del titolo di provenienza della proprietà della I., essendosi accontentati, in sostituzione di questo, della sola dichiarazione del procuratore (a tanto non legittimato, non essendo compresa tale facoltà nella procura a vendere), secondo cui le terre vendute provenivano alla venditrice "per giusti e validi titoli ultraventennali". Tali circostanze e la dichiarata "urgenza" con cui il contratto è stato stipulato, hanno ragionevolmente indotto il giudice del gravame ad escludere che gli acquirenti abbiano fatto incolpevole affidamento sulla corrispondenza tra la situazione apparente e quella reale; ed a ritenere, al contrario, che i medesimi siano stati consapevoli della mancanza di una procura validamente rilasciata, ed abbiano concluso il contratto con urgenza – tanto da non avere neppure il tempo di verificare quanto meno la provenienza della proprietà interpellando direttamente la venditrice – per prevenire l’intervento di altri familiari della I. ed evitare il formale accertamento dello stato di incapacità di quest’ultima.
Tali valutazioni costituiscono espressione di un tipico apprezzamento in fatto riservato al giudice di merito, e come tale censurabile in cassazione solo per vizi di motivazione, che nella specie non ricorrono. E, in realtà, con le loro doglianze i ricorrenti invocano sostanzialmente un riesame delle risultanze processuali, non consentito in sede di legittimità.
Quanto alle censure mosse in ordine alla mancata ammissione della prova orale, giustificata dalla ritenuta superfluità del capitolo articolato, si rileva in primo luogo che i ricorrenti, contravvenendo al principio di specificità e autosufficienza del ricorso, hanno omesso di indicare il nominativo del teste da escutere. Va ulteriormente osservato che il giudice di merito non è tenuto ad ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti ove ritenga sufficientemente istruito il processo e ben può, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, non ammettere la dedotta prova testimoniale quando, alla stregua di tutte le altre risultanze di causa, ritenga – con giudizio che, se congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità- la stessa superflua (Cass. 10-6- 2009 n. 13375).
Nella specie, la Corte di Appello, nel far presente che appare poco verosimile che le visure asseritamente eseguite a cura degli acquirenti non siano state esibite al notaio, ha rilevato che, comunque, la prova dedotta non varrebbe a superare l’elemento di negligenza addebitabile agli stessi acquirenti per il fatto di avere stipulato la compravendita senza nemmeno avere certezza della proprietà della venditrice, essendo priva di ogni rilievo giuridico la dichiarazione resa al riguardo dal procuratore. Si tratta di una motivazione coerente e logica, che sfugge quindi al sindacato di questa Corte.
Deve aggiungersi che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, i principi dell’apparenza del diritto e dell’affidamento incolpevole possono essere invocati con riguardo alla rappresentanza allorchè non solo vi sia la buona fede del terzo che ha stipulato con il falso rappresentante, ma anche un comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente (ex plurimis: Cass. 28-8-2007 n. 18191; Cass. 12-1-2006 n. 408; Cass. 23-7-2004 n. 13829; Cass. 18-2-1998 n. 1720). In materia di rappresentanza, pertanto, il rilievo dell’apparenza non è dato solo dall’atteggiamento psicologico di chi invoca la situazione di apparenza, ma anche da quello, negligente o malizioso, del rappresentato, il quale deve avere posto in essere una situazione tale da far presumere la volontà di conferire al rappresentante una serie di poteri (Cass. 1-3-1995 n. 2311). Nel caso in esame, non risulta che gli odierni ricorrenti nel giudizio di merito abbiano fatto riferimento ad un eventuale comportamento di siffatta natura posto in essere dalla rappresentata; sicchè, anche sotto tale profilo, difettano i presupposti per l’applicazione del principio dell’apparenza da essi invocato.
7) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato.
Poichè gli intimati non hanno svolto attività difensive, non va adottata alcuna pronuncia sulle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
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