Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 7.5.2009, in parziale riforma della sentenza 9.5.2007 del Tribunale di quella città:
a) ribadiva l’affermazione della responsabilità penale di P. E. in ordine ai reati di cui:
– al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), (per avere realizzato – senza il prescritto permesso di costruire – su manufatti già oggetto di altro procedimento penale, la prosecuzione dei lavori abusivi con opere di rifinitura interna ed esterna – in Roma via Canestrini, il 80, fino al 28.2.2005);
– all’art. 349 cpv. c.p. (violazione, in qualità di custode, dei sigilli apposti ai manufatti abusivi il 15 luglio, il 13 ottobre ed il 22 dicembre 2004);
— all’art. 483 cod. pen. (poichè – in tre domande di condono edilizio da lui presentate ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, art. 32 – attestava falsamente che le opere di cui veniva richiesta la sanatoria erano state ultimate entro il 31 marzo 2003 – in (OMISSIS));
b) confermava la condanna alla pena complessiva di anni uno, mesi due di reclusione ed Euro 700,00 di multa, nonchè l’ordine di demolizione delle opere abusive;
c) concedeva all’imputato il beneficio della sospensione condizionale di detta pena, revocando l’indulto concesso dal primo giudice.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore del P., il quale ha eccepito, sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione:
– la completa estraneità dell’imputato all’edificazione abusiva, avendo egli dimostrato che il terreno era stato acquistato dai propri figli L. ed A. con atto dell’8 giugno 2004 e non sussistendo elementi concreti idonei a dimostrare che egli fosse committente o realizzatore delle opere realizzate su quel fondo;
– la illegittimità della disconosciuta possibilità di sanatoria in relazione alle procedure di condono edilizio esperite ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, per la erroneità dell’asserito presupposto secondo il quale i lavori edilizi erano continuati dopo il 31 marzo 2003 (cioè dopo il termine utile di sanabilità fissato dallo stesso D.L. n. 269 del 2003);
– la insussistenza del delitto di falso, stante la veridicità delle attestazioni riferite alla data di completamento dei lavori al rustico.
Motivi della decisione
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, poichè manifestamente infondato.
1. Il P. è stato condannato in seguito a corretta valutazione della situazione concreta in cui venne svolta l’attività incriminata e la sua responsabilità circa la realizzazione delle opere illecite è stata dedotta, dalla disponibilità di fatto del suolo e dei manufatti abusivamente edificati; dalla circostanza che egli stesso ebbe a qualificarsi esecutore materiale dei lavori in occasione della redazione del primo verbale di sequestro; dalla presentazione di tre domande di condono edilizio a sua firma, ove egli si è qualificato "possessore" degli immobili; dalla conseguente configurabilità di un proprio interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui prodest"), (cfr. Cass., Sez. 3: 29.4.1999, n. 5476, Zarbo; 27.9.2000, il 10284, Cutaia ed altro; 3.5.2001, il 17752, Zorzi ed altri; 10.8.2001, n. 31130, Gagliardi; 26.11.2001, Sutera Sardo ed altra).
2. Quanto alla ritenuta inapplicabilità della normativa di "condono edilizio", posta dal D.L. n. 269 del 2003, art. 32, convertito dalla L. n. 326 del 2003, e dalla L. n. 47 del 1985, artt. 35 e segg., deve rilevarsi che – secondo la giurisprudenza costante di questa Corte Suprema – spetta al giudice penale verificare la sussistenza dei presupposti affinchè possa essere applicata la speciale causa di estinzione per oblazione.
L’ambito di tale potere di controllo è strettamente connesso all’esercizio della giurisdizione penale, sicchè il giudice – nell’eseguire l’indispensabile verifica degli elementi di fatto e di diritto della causa estintiva – deve accertare:
– il tipo di intervento realizzato e la sua riconducibilità agli schemi dell’art. 32 del convertito D.L. n. 269 del 2003;
– le dimensioni volumetriche dell’immobile;
– la "ultimazione" dei lavori (secondo la nozione fornita dalla L. n. 47 del 1985, art. 31, comma 2) entro il termine previsto del 31 marzo 2003;
– la tempestività della presentazione, da parte dell’imputato (o di eventuali comproprietari) di una domanda di sanatoria riferita puntualmente alle opere abusive contestate nel capo di imputazione;
– l’avvenuto "integrale versamento" della somma dovuta ai fini dell’oblazione, ritenuta congrua dall’Amministrazione comunale.
Trattasi di compiti propri dell’autorità giurisdizionale – conformi al dettato dell’art. 101 Cost., comma 2, art. 102 Cost., art. 104 Cost., comma 1, e art. 112 Cost. – che non possono essere demandati neppure con legge ordinaria all’autorità amministrativa in un corretto rapporto delle sfere specifiche di attribuzione.
Il giudice penale, nell’eventualità in cui i presupposti anzidetti (o anche uno solo di essi) stano inesistenti, deve dichiarare non integrata la fattispecie estintiva ed adottare le conseguenti determinazioni.
2.1 Nella fattispecie in esame – ove la richiesta sanatoria edilizia non risulta comunque concessa – va ribadito l’orientamento costante di questa Corte Suprema secondo il quale non sono suscettibili di sanatoria, ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, art. 32, le nuove costruzioni realizzate, in assenza del titolo abilitativo edilizio, in epoca successiva al 31 marzo 2003.
I giudici del merito hanno accertato, in punto di fatto (alla stregua delle deposizioni testimoniali, della documentazione fotografica realizzata dai verbalizzanti e delle acquisite riprese aeree del 13 luglio 2003), che gli immobili, alla data dei 31 marzo 2003, non erano "ultimati" secondo la nozione fornita dalla L. n. 47 del 1985, art. 31, comma 2.
A fronte dell’anzidetto accertamento fattuale, l’imputato non ha fornito alcuna risolutiva prova contraria e le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio e dell’attribuzione dello stesso alla persona dell’imputato non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.
Devono respingersi, pertanto, anche le correlate eccezioni svolte in ricorso circa la pretesa insussistenza di una falsa rappresentazione dei fatti nelle domande di condono edilizio.
3. In tema di violazione dei sigilli ( art. 349 c.p., comma 2), il custode è obbligato ad esercitare sul bene sottoposto a sequestro, e sulla integrità dei relativi sigilli, una custodia continua ed attenta: egli non può sottrarsi a tale obbligo se non adducendo oggettive ragioni di impedimento e, quindi, chiedendo ed ottenendo di essere sostituito, ovvero, qualora ciò non abbia fatto, fornendo la prova del caso fortuito o della forza maggiore che gli abbiano impedito di esercitare la dovuta vigilanza.
Ne consegue che, allorquando venga riscontrata la violazione di sigilli, senza che il custode abbia provveduto ad informare dell’accaduto l’autorità (come è accaduto nel caso di specie), deve razionalmente ritenersi che detta violazione sia opera dello stesso custode (da solo o in concorso con altri), tranne che lo stesso dimostri di non essere stato in grado di agire secondo legge per caso fortuito o per forza maggiore (vedi Cass., sez. 3, 7-5-2009, n. 19075, Santoro). L’onere della relativa prova incombe sul custode e, nella vicenda in esame, non è stata fornita.
4. La inammissibilità del ricorso non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, per cui non può tenersi conto della prescrizione del reato contravvenzionale scaduta (considerato anche un periodo di sospensione di mesi 4 e giorni 25 (dal 14.12.2006 al 9.5.2007), secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza 11.1.2002, n. 1021, ric. Cremonese) in epoca successiva (22.1.2010) alla pronuncia della sentenza impugnata (vedi Cass., Sez. Unite, 21.12.2000, n. 32, ric. De Luca).
5. Tenuto conto della sentenza 13.6.2000, n. 186 della Corte Costituzionale e rilevato che, nella specie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria della stessa segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento di una somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente rissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00.
P.Q.M.
la Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro mille/00 in favore della Cassa delle ammende.
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