Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-03-2012, n. 4428 Ordinanza ingiunzione di pagamento: opposizione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata in data 20 aprile 2005, il Giudice di pace di Padova ha rigettato l’opposizione proposta da TARGET s.r.l. e da M.M., in proprio e quale legale rappresentante della TARGET s.r.l., avverso l’ordinanza-ingiunzione con la quale la Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Padova aveva ingiunto alla TARGET s.r.l. in solido con M.M. il pagamento della sanzione amministrativa di Euro 4.918.986,00 per avere stipulato, nel corso dell’attività di vendita esercitata fuori dai propri locali commerciali, n. 4.542 contratti nei quali l’informazione sul diritto di recesso era riportata in modo non conforme alle prescrizioni contenute nel D.Lgs. n. 50 del 1992.

Il Giudice di pace ha dapprima disatteso le eccezioni di illegittimità costituzionale della L. n. 689 del 1981, art. 22 bis, formulate dall’opponente in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 Cost., nella parte in cui non devolve al Tribunale la cognizione delle controversie aventi ad oggetto provvedimenti sanzionatori per importi superiori al limite di competenza del Giudice di pace.

In proposito, il Giudice di pace ha osservato che le sanzioni, ancorchè contenute in un unico provvedimento, mantengono la loro individualità e che sarebbe illogico far discendere la regola di determinazione della competenza dal fatto, del tutto casuale, che l’amministrazione contesti una pluralità di violazioni con un unico provvedimento, in tal modo eccedendo il limite della competenza per valore del Giudice di pace.

Il Giudice di pace ha poi rigettato il motivo formulato sul rilievo che le condotte contestate, lungi dall’essere una pluralità, erano in realtà riconducibili ad unità, atteso che la ratio del D.Lgs. n. 50 del 1992, è quella di tutelare il singolo consumatore e non la astratta comunità dei consumatori, sanzionando la produzione e la stampa di moduli non conformi alle prescrizioni di legge. E, sulla base del rilievo che le singole sanzioni mantengono la propria individualità, il Giudice di pace ha anche osservato che non risultava in concreto superato, per ciascuna di esse, il limite della competenza per valore del Giudice di pace.

Il Giudice di pace ha quindi ritenuto manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 27 e 76 Cost., anche la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 50 del 1992, artt. 4, 5 e 11, nella parte in cui non prevedono l’applicazione della continuazione al caso in cui venga posta in essere una pluralità di illeciti amministrativi della stessa indole, in violazione della normativa di cui al citato decreto legislativo e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso.

In proposito, il giudice dell’opposizione ha osservato che, dovendosi considerare le sanzioni singolarmente, non era ravvisabile alcuna irragionevolezza nel criterio sanzio-natorio, vista anche la disomogeneità tra illeciti penali e illeciti amministrativi. Del resto, ha proseguito il Giudice di pace, la Corte costituzionale si era già espressa in ordine alla mancata previsione dell’istituto della continuazione relativamente agli illeciti amministrativi, escludendone la illegittimità proprio in considerazione della disomogeneità degli illeciti posti a raffronto.

Il Giudice di pace ha disatteso l’ulteriore motivo di opposizione, con il quale si rilevava la incostituzionalità della normativa di attuazione della direttiva comunitaria, essendo la normativa interna più formalistica e puntigliosa di quella comunitaria. In proposito, il Giudice di pace ha osservato che nulla vieta ai singoli Stati, in sede di attuazione delle direttive comunitarie, di dettare una disciplina più rigorosa di quella comunitaria, al fine di conseguire il risultato imposto dalla direttiva.

Passando alle questioni di merito, il Giudice di pace ha innanzitutto disatteso il motivo con il quale M.M. sosteneva che non poteva essergli ascritta alcuna responsabilità, ai sensi della L. n. 689 del 1981, e del D.Lgs. n. 50 del 1992. Ha quindi rilevato che il D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 11, comma 3, dispone la integrale applicabilità agli illeciti amministrativi dal medesimo decreto previsti della disciplina posta dalla L. n. 689 del 1981, la quale prevede un sistema sanzionatorio improntato al principio della personalità, intesa nel senso che autore dell’illecito amministrativo può essere unicamente la persona fisica, in quanto essa sola, e non la società o l’ente, è capace di porre in essere una condotta cosciente e volontaria e che, allorquando la persona fisica abbia agito quale legale rappresentante della persona giuridica, quest’ultima assume rilievo solo perchè a suo carico viene posta la responsabilità solidale per il pagamento della sanzione. Nel caso di specie, pertanto, la responsabilità dell’opponente doveva ritenersi una responsabilità diretta, poichè in virtù della carica rivestita, amministratore e legale rappresentante della società, a lui erano riferibili gli illeciti compiuti, atteso che egli aveva l’obbligo di far osservare la normativa relativa all’attività svolta dalla medesima persona giuridica.

Il Giudice di pace ha rigettato anche la doglianza concernente il lamentato difetto di motivazione dell’ordinanza ingiunzione, ritenendo invece compiutamente assolto il detto onere sulla base dell’accertamento, al quale l’ordinanza – ingiunzione faceva riferimento, risultando altresì agli atti che i contratti ai quali si riferiva l’illecito contestato erano stati identificati dagli accertatori, mediante apposizione del bollo dell’ufficio e della sigla di uno di essi.

Il Giudice ha disatteso anche le censure consistenti nella denuncia di un eccesso di potere per difetto di istruttoria, essendo risultato evidente che l’amministrazione aveva tenuto conto delle memorie difensive depositate in sede amministrativa.

Con riferimento alle censure concernenti il denunciato formalismo delle disposizioni violate, e segnatamente l’applicazione della sanzione per errori in ordine alla indicazione delle fonte normativa, il Giudice di pace ha rilevato che l’amministrazione ingiungente aveva interpretato le norme ritenute violate secondo la ratio della legge. Ha poi escluso che le violazioni contestate avessero rilievo meramente formale, essendo le erronee indicazioni idonee ad ingenerare incertezze nel contraente in ordine ai diritti spettantigli, e segnatamente al diritto di recesso.

Quanto alla previsione che il recesso avrebbe dovuto essere esercitato con raccomandata semplice anzichè con avviso di ricevimento, il Giudice di pace ha ritenuto che la stessa fosse lesiva della posizione del contraente consumatore e che non integrasse affatto una facilitazione; così come contrastante con le prescrizioni del D.Lgs. n. 50, doveva ritenersi il fatto che la clausola relativa al diritto di recesso non avesse un rilievo tipografico differenziato rispetto alle altre clausole e che fosse collocata sul retro della nota d’ordine, senza una collocazione differenziata rispetto alle altre condizioni generali di contratto.

Infine, il Giudice di pace ha ritenuto legittima la contestazione rivolta all’opponente di avere aggravato l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente con la clausola n. 9, la quale faceva dipendere la decadenza dal diritto di recesso dalla mancata restituzione, entro i sette giorni successivi alla sottoscrizione del contratto, della merce eventualmente già ritirata dal committente, dovendosi invece escludere che la mancata restituzione della merce potesse porre nel nulla il recesso già esercitato.

Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto ricorso TARGET s.r.l. e M.M. sulla base di sei motivi.

L’intimata Camera di Commercio non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 2, 3 e 5, la questione della costituzionalità della L. n. 689 del 1981, art. 22 bis, sostenendo che il Giudice di pace, rifiutando di sollevare la questione di legittimità costituzionale, non avrebbe fatto adeguata applicazione degli artt. 3, 24 e 113 Cost., nonchè del principio di ragionevolezza e di quello di proporzionalità. In particolare, il Giudice di pace non avrebbe prestato attenzione nè alla ratio della attribuzione di alcune delle controversie al Giudice di pace, ad esclusione di quelle, di competenza del Tribunale, in cui la sanzione sia di rilevante valore economico, nè al fatto che la sanzione in concreto applicata era di natura proporzionale.

1.1. Il motivo è infondato;

Correttamente il Giudice di pace ha affermato la propria competenza per valore atteso che, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 22 bis, ai fini della determinazione della competenza per valore nei giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, non rileva la circostanza che il provvedimento sanzionatorio abbia ad oggetto una pluralità di violazioni e che per effetto della somma degli importi delle sanzioni applicabili per ciascuna violazione, si abbia un importo superiore a quello della competenza del Giudice di pace.

Invero, l’attribuzione della competenza al Tribunale postula che l’illecito consista nella "violazione" per la quale è prevista una sanzione superiore nel massimo a Euro 15.493, risultando così evidente che ciò a cui deve aversi riguardo è il massimo edittale della sanzione prevista per la singola violazione contestata.

Devono quindi condividersi le ragioni in base alle quali il Giudice di pace ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dall’opponente. Del resto, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 370 del 2007, ha avuto modo di dichiarare manifestamente infondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale della L. n. 689, art. 22 bis, nella parte in cui non prevede che la competenza a conoscere delle opposizioni avverso ordinanze-ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative spetti al tribunale, anzichè al giudice di pace, quando, per ragioni di connessione soggettiva ed oggettiva, il valore della causa di opposizione a varie ordinanze- ingiunzioni superi il complessivo importo di lire trenta milioni.

Conclusione, questa, cui la Corte costituzionale è pervenuta sulla base del rilievo che la competenza va determinata tenendo conto solo della sanzione prevista per la singola violazione – trattandosi di competenza per materia con limite di valore – e che la riunione di procedimenti relativi a cause connesse ex art. 274 c.p.c., non è nient’altro che una misura organizzativa del lavoro giudiziario, inidonea a superare l’autonomia dei singoli giudizi, non essendo possibile porre sullo stesso piano la posizione di chi sia destinatario di un’unica sanzione pecuniaria di importo superiore alla soglia di competenza del giudice onorario e quella di chi sia invece destinatario di tante sanzioni pecuniarie, ciascuna di importo edittale inferiore. La L. n. 689 del 1981, art. 22 bis, comma 3, lett. a), – ha affermato la Corte costituzionale – è norma speciale rispetto a quella dell’art. 10 c.p.c., comma 2, il quale, pertanto, non si applica nel caso in cui in un giudizio vengano riunite più opposizioni avverso distinte ordinanze-ingiunzioni tutte relative a violazioni per le quali è prevista una sanzione di importo inferiore, nel massimo, ad Euro 15.493, nè nel caso in cui l’ordinanza-ingiunzione sia unica, ancorchè di importo superiore ad Euro 15.493 per effetto della somma delle sanzioni dovute per ciascuna delle singole violazioni contestate.

In proposito, deve ricordarsi che questa Corte ha del resto chiarito che "in materia di opposizione a sanzioni amministrative, la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22 bis, introdotto dal D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, attribuisce la competenza al tribunale, in luogo del giudice di pace, "se per la violazione è prevista una sanzione pecuniaria superiore nel massimo a lire trenta milioni" (comma 3, lett. a), facendo riferimento alla pena edittale e non alla pena in concreto irrogata, come del resto si ricava dall’attribuzione della competenza al tribunale anche quando (lett. b), essendo la violazione punita con sanzione pecuniaria proporzionale senza previsione di un limite massimo, è stata applicata una sanzione superiore a lire trenta milioni, che è quindi la sola ipotesi nella quale si ha riguardo alla pena in concreto irrogata per determinare il tetto, oltre il quale scatta la competenza del tribunale" (Cass. n. 18636 del 2006).

Le diverse argomentazioni sostenute dai ricorrenti non appaiono idonee ad indurre dubbi tali da ipotizzare di dover investire nuovamente la Corte costituzionale della suddetta questione, atteso che i parametri evocati non sono pertinenti, non risultando chiaramente evidenziato quali sarebbero i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione rispetto ai quali la scelta del legislatore delegato si porrebbe in contrasto, e non essendo pertinente, trattandosi di disciplina della competenza in ordine al giudizio di opposizione in materia di illeciti amministrativi, il parametro di cui all’art. 27 Cost..

2. Con il secondo motivo, i ricorrenti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si dolgono del fatto che il Giudice di pace abbia negato l’unitarietà della condotta sanzionata, sostenendo che l’interesse protetto dalla normativa violata sarebbe piuttosto quello della collettività dei consumatori che non quello del singolo consumatore, come chiaramente desumibile dalla normativa comunitaria, sicchè la condotta sanzionabile sarebbe costituita non dalla sottoscrizione del singolo contratto, ma dal complessivo comportamento dell’imprenditore che tale interesse ha violato.

2.1. Il motivo è infondato, atteso che, come esattamente osservato dal giudice del merito, la ratio della tutela del consumatore, introdotta in attuazione della disciplina comunitaria con il D.Lgs. n. 50 del 1992, (ratione temporis applicabile, pur se abrogato dal D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 146, il quale ha tuttavia recepito all’interno del Codice del consumo le disposizioni relative ai contratti negoziati fuori dai locali commerciali e all’esercizio del diritto di recesso), è quella non di sanzionare la produzione e la stampa dei moduli, ma ogni singolo episodio di contrattazione difforme dalle previsioni del decreto legislativo citato.

In proposito, giova ricordare che questa Corte ha, sia pure con riferimento alle pratiche bancarie, avuto modo di chiarire che "la violazione amministrativa consistente nell’omessa indicazione negli atti e nella corrispondenza delle società di capitali, dell’ammontare del capitale sociale effettivamente versato, prevista dall’art. 2250 c.c., comma 2, e art. 2627 c.c. (nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 61 del 2002), tutela l’esigenza (derivante da obblighi comunitari) di mettere in condizione i clienti di conoscere la consistenza patrimoniale della società, sicchè l’illecito si consuma non già nella predisposizione unitaria e generalizzata di stampati e atti per una serie indeterminata di contrattazioni, bensì ogni qual volta, per una operazione commerciale, i singoli stampati ed atti vengano utilizzati senza le indicazioni anzidette. Ne consegue che, in tali ipotesi, non è applicabile nè la L. n. 689 del 1981, art. 8, in quanto relativo alla diversa fattispecie del concorso formale, eterogeneo od omogeneo, che postula l’unicità dell’azione o omissione produttiva di una pluralità di violazioni, nè l’istituto della continuazione, previsto soltanto per gli illeciti previdenziali" (Cass. n. 6194 del 2011).

Tale principio appare applicabile anche al caso delle violazioni previste e sanzionate dal D.Lgs. n. 50 del 1992, nelle quali, quindi, ciò che rileva non è la predisposizione di un modulo utilizzabile innumerevoli volte, ma la concreta utilizzazione del singolo modulo, sanzionabile ogniqualvolta il modulo stesso non sia rispondente alle prescrizioni legislative.

3. Con il terzo motivo, i ricorrenti sostengono la illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 11, per violazione degli artt. 3, 27 e 76 Cost., sul rilievo che la citata disposizione, ove interpretata nel senso fatto proprio dal Giudice di pace, secondo cui l’interesse protetto sarebbe quello dei singoli consumatori e non quello collettivo dei consumatori, irragionevolmente finirebbe con il sanzionare più gravemente gli illeciti amministrativi rispetto a quelli penali, non essendo per i primi previsto l’istituto della continuazione.

3.1. Il motivo è infondato.

Premesso che la determinazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni, siano esse penali o amministrative, rientra nella più ampia discrezionalità legislativa, deve qui rilevarsi che non sussiste in alcun modo la violazione dei principi e criteri direttivi della delega contenuta nella L. n. 428 del 1990. Questa, all’art. 2, comma 1, lett. d), disponeva infatti, quale criterio direttivo per l’esercizio della delega che) "saranno previste, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, salve le norme penali vigenti, norme contenenti le sanzioni amministrative e penali, o il loro adeguamento, per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi, nei limiti, rispettivamente, della pena pecuniaria fino a lire 100 milioni, dell’ammenda fino a lire 100 milioni e dell’arresto fino a tre anni, da comminare in via alternativa o congiunta. Le sanzioni penali saranno previste solo nei casi in cui le infrazioni alle norme di attuazione delle direttive ledano interessi generali dell’ordinamento interno, individuati in base ai criteri ispiratori della L. 24 novembre 1981, n. 689, artt. 34 e 35. Di norma sarà comminata la pena dell’arresto o dell’ammenda. La pena dell’ammenda sarà comminata per le infrazioni formali, la pena dell’arresto e dell’ammenda per le infrazioni che espongono a pericolo grave ovvero a danno l’interesse protetto".

Come si vede, non solo la legge di delegazione rimetteva al legislatore delegato la previsione delle sanzioni e la scelta dell’adozione di una sanzione penale o amministrativa, ma esprimeva anche il criterio che la sanzione penale avrebbe potuto essere adottata solo per in cui la violazione ledesse interessi generali dell’ordinamento, individuati mediante il riferimento alla L. n. 689 del 1981, artt. 34 e 35, e cioè interessi presidiati da disposizioni di carattere penale, escluse dalla depenalizzazione disposta dalla medesima L. n. 689 del 1981, nonchè violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatoria. La scelta del legislatore delegato era dunque orientata nel senso di introdurre, a presidio dei precetti introdotti dai decreti legislativi attuativi di direttive comunitarie, nel senso della configurazione delle dette violazioni quali illeciti amministrativi.

Nel caso di specie, dunque, risulta del tutto infondata la denunciata violazione dell’art. 76 Cost..

3.2. Manifestamente infondata è altresì la denunciata irragionevolezza della scelta del legislatore, sotto il profilo della mancata previsione dell’istituto della continuazione in tutte le ipotesi di illecito amministrativo.

In proposito, deve rilevarsi che le considerazioni dei ricorrenti muovono da una premessa – quella secondo cui la sanzione amministrativa potrebbe in ipotesi essere più grave di quella penale – che si rivela erronea, atteso il diverso ambito di operatività delle sanzioni amministrative e di quelle penali e l’incidenza di queste ultime sulla dignità delle persone, laddove quelle amministrative non attingono, secondo il comune sentire, il medesimo disvalore e la medesima incidenza sul profilo della dignità della persona.

Risulta, quindi, fuorviante la prospettiva dalla quale muovono i ricorrenti, e cioè che la eventuale qualificazione delle violazioni sanzionate dal D.Lgs. n. 50 del 1992, come illeciti penali avrebbe avuto conseguenze meno pregiudizievoli per il contravventore, stante la possibile applicazione, in quel caso, dell’istituto della continuazione, invece esclusa, salvo che per le violazioni considerate dalla L. n. 689 del 1981, art. 8 bis, nel caso dell’illecito amministrativo.

Del resto, questa Corte ha già avuto modo di affermare che "in tema di sanzioni amministrative, la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 8, prevede che salve le ipotesi di cui al comma 2, in materia di violazione delle norme previdenziali ed assistenziali la sanzione più grave aumentata fino al triplo può essere irrogata nei soli casi di concorso formale, senza che possa ritenersi applicabile il medesimo meccanismo sanzionatorio alla fattispecie della continuazione di cui all’art. 81 c.p., comma 2; la disciplina di cui al citato art. 8 che non subisce deroghe neppure in base alla successiva previsione di cui all’art. 8 bis della medesima legge, che ha introdotto, in tema di sanzioni amministrative, il corrispondente di alcune forme di recidiva penale non configura alcuna ipotesi di illegittimità costituzionale sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto alle sanzioni penali, attesa la diversità dei due tipi di violazione" (Cass. n. 5252 del 2011).

In motivazione, e sotto questo ultimo profilo, si è rilevato che la questione di costituzionalità – per supposta violazione dell’art. 3 Cost. – appare manifestamente infondata, anche con riguardo all’indicato parametro normativo di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 8 bis, dovendosi riconfermare il principio secondo cui, in ipotesi di pluralità di illeciti amministrativi in violazione della medesima norma, ciascuna infrazione è assoggettabile a sanzione, non essendo in tal caso applicabile la L. n. 689 del 1981, art. 8, (riferentesi alla diversa ipotesi in cui le violazioni siano state commesse con un’unica azione od omissione), nè essendo estensibili agli illeciti amministrativi i principi in tema di continuazione riguardanti esclusivamente la materia penale, senza che, peraltro, per la mancata previsione della continuazione in subiecta. materia, possa configurarsi un’ipotesi di illegittimità costituzionale sotto il profilo della disparità di trattamento, giacchè tale disparità rispetto alle violazioni penali, come già rilevato dalla Corte Costituzionale (con la sentenza n. 421 del 1987 e le ordinanze n. 468 del 1989 e n. 23 del 1995), trova giustificazione proprio nella diversità dei due tipi di violazione.

3.3. Quanto, infine, alla denunciata violazione dell’art. 27 Cost., appare del tutto evidente la non pertinenza dell’evocato parametro, atteso che, per consolidata giurisprudenza costituzionale, esso si riferisce alle sole sanzioni penali e non trova applicazione con riferimento all’illecito amministrativo.

4. Con il quarto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere escluso la responsabilità solidale del legale rappresentante della TARGET s.r.l., prevedendo il D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 5, la responsabilità solidale del solo operatore commerciale, da individuarsi nelle persone che materialmente avevano concorso a stipulare i contratti. Il Giudice di pace avrebbe poi errato nel ritenere che la responsabilità dell’amministratore fosse diretta e non già di carattere solidale con la società. In tal modo, il Giudice di pace avrebbe anche apportato un mutamento al titolo di responsabilità che era stato contestato dall’amministrazione al legale rappresentante della società, dando altresì per presupposto, ma senza alcun riscontro, che quest’ultimo avesse agito direttamente. Inoltre, il Giudice di pace avrebbe richiamato una giurisprudenza non pertinente, atteso che, ai sensi del D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 5, il responsabile dell’illecito è individuato nell’operatore commerciale, il quale, nel caso di specie, non poteva essere altri che la persona giuridica.

4.1. Il motivo è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di precisare che "nel sistema introdotto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, fondato sulla natura personale della responsabilità, autore dell’illecito amministrativo può essere soltanto la persona fisica che ha commesso il fatto, e non anche un’entità astratta, come società o enti in genere, la cui responsabilità solidale per gl’illeciti commessi dai loro legali rappresentanti o dipendenti è prevista esclusivamente in funzione di garanzia del pagamento della somma dovuta dall’autore della violazione, rispondendo anche alla finalità di sollecitare la vigilanza delle persone e degli enti chiamati a rispondere del fatto altrui. Il criterio d’imputazione di tale responsabilità è chiaramente individuato dalla L. n. 689 cit., art. 6, il quale, richiedendo che l’illecito sia stato commesso dalla persona fisica nell’esercizio delle proprie funzioni o incombenze, stabilisce un criterio di collegamento che costituisce al tempo stesso il presupposto ed il limite della responsabilità dell’ente, nel senso che a tal fine si esige soltanto che la persona fisica si trovi con l’ente nel rapporto indicato, e non anche che essa abbia operato nell’interesse dell’ente" (Cass. n. 12264 del 2007).

Più di recente si è anche precisato che "in tema di sanzioni amministrative, a norma della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3, è responsabile di una violazione amministrativa solo la persona fisica a cui è riferibile l’azione materiale o l’omissione che integra la violazione; ne consegue che, qualora un illecito sia ascrivibile in astratto ad una società di persone (nella specie una s.n.c.), non possono essere automaticamente chiamati a risponderne i soci amministratori, essendo indispensabile accertare che essi abbiano tenuto una condotta positiva o omissiva che abbia dato luogo all’infrazione, sia pure soltanto sotto il profilo del concorso morale" (Cass. n. 26238 del 2011).

Orbene, nel caso di specie, correttamente il Giudice di pace ha disatteso il motivo di opposizione con il quale l’opponente ha sostenuto di non poter essere considerato imputabile con riferimento a violazioni commesse da singoli operatori commerciali che avevano stipulato il contratto per conto della società della quale egli era legale rappresentante. Nè i ricorrenti hanno svolto argomentazioni idonee a dimostrare la erroneità del convincimento del Giudice di pace in ordine alla applicabilità, nel caso di specie, del principio di personalità della responsabilità della sanzione amministrativa, desunto da numerose disposizioni della L. n. 689 del 1981. Nè risultano addotti elementi in fatto idonei ad escludere che il M., in quanto amministratore e legale rappresentante della TARGET s.r.l. fosse responsabile in via diretta degli illeciti riferibili all’attività della detta società, se non altro perchè egli, per la posizione occupata e per autonomia decisionale, aveva la responsabilità dell’osservanza delle disposizioni concernenti l’attività esercitata.

Del resto, ai sensi del D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 2, disposizione ratione tempori, s applicabile nel caso di specie, per operatore commerciale doveva intendersi "la persona fisica o giuridica che, in relazione ai contratti o alle proposte contrattuali disciplinati dal presente decreto, agisce nell’ambito della propria attività commerciale o professionale, nonchè la persona che agisce in nome o per conto di un operatore commerciale". Appare quindi non censurabile la sentenza impugnata per avere ricondotto l’attività illecita riferibile alla TARGET s.r.l. al suo amministratore e legale rappresentante, essendo indubitabilmente egli un operatore commerciale ai sensi della normativa applicabile. Nè potrebbe riferirsi la violazione, consistente nella utilizzazione di moduli contrattuali non conformi alle prescrizioni predisposti dalla società convenuta, ai singoli addetti, e cioè a coloro che, fuori dei locali commerciali, avevano contattato i singoli clienti sottoponendo loro il modulo predisposto dalla società.

Tale attività correttamente è stata riferita alla società, che aveva predisposto i predetti moduli, e correttamente è stata quindi contestata al suo legale rappresentante.

5. Con il quinto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per non avere accolto il motivo di opposizione relativo al difetto di motivazione dell’ordinanza-ingiunzione.

5.1. Il motivo è infondato alla luce del principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, che il Collegio condivide, secondo cui "in tema di opposizione ad ordinanza ingiunzione per l’irrogazione di sanzioni amministrative – emessa in esito al ricorso facoltativo al Prefetto ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 204, ovvero a conclusione del procedimento amministrativo L. 24 novembre 1981, n. 689, ex art. 18, – i vizi di motivazione in ordine alle difese presentate dall’interessato in sede amministrativa non comportano la nullità del provvedimento, e quindi l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa, in quanto il giudizio di opposizione non ha ad oggetto l’atto, ma il rapporto, con conseguente cognizione piena del giudice, che potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa (eventualmente non esaminate o non motivatamente respinte), in quanto riproposte nei motivi di opposizione, decidendo su di esse con pienezza di poteri, sia che le stesse investano questioni di diritto che di fatto" (Cass., S.U., n. 1786 del 2010).

Nella specie, i ricorrenti si dolgono, appunto, della mancata risposta del Giudice di pace alla denunciata carenza di motivazione dell’ordinanza-ingiunzione, che, per quanto detto, non poteva costituire un’autonoma ragione di invalidità del provvedimento sanzionatorio, ben potendo i soggetti destinatari dell’ordinanza- ingiunzione proporre nel giudizio di opposizione le asserite carenze motivazionali. Il che, in effetti, i ricorrenti hanno fatto, ed avrebbero quindi dovuto censurare, in ipotesi, la mancata pronuncia del Giudice di pace in ordine a motivi di opposizione ritualmente introdotti; denuncia, questa, che non può ritenersi proposta dai ricorrenti.

6. Con l’ultimo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere ritenuto che le violazioni formali accertate comportassero una limitazione del diritto di recesso del contraente debole; limitazione che, nel caso di specie, non era stata in alcun modo dimostrata, essendosi al contrario verificatisi numerosi casi di recesso.

6.1. Il motivo è infondato.

Il Giudice di pace, nell’esaminare il motivo di opposizione con il quale gli opponenti avevano denunciato il vizio di istruttoria, lamentando che l’Amministrazione non avesse preso in considerazione la memoria difensiva a suo tempo depositata, con particolare riferimento all’alto numero di recessi concretamente esercitati e tali da essere sintomatici della facilità dell’esercizio del menzionato diritto, ha ritenuto l’argomento infondato, osservando, da un lato, che dagli atti emergeva con chiarezza che le memorie difensive erano state tenute presenti dall’autorità che aveva emesso il provvedimento; dall’altro, che la circostanza dell’alto numero dei recessi non costituiva specifico punto cui rispondere, ma una circostanza che avrebbe dovuto comprovare un argomento altrimenti confutato dalla Camera di commercio nel provvedimento impugnato.

Il Giudice di pace ha quindi ritenuto che la questione della incidenza dell’esercizio in concreto del diritto di recesso da parte dei sottoscrittori dei moduli predisposti dalla società ricorrente non costituisse un’autonoma ragione di opposizione e ne ha conseguentemente escluso la rilevanza, procedendo a prendere in esame le singole contestazioni concernenti la non rispondenza dei moduli alle prescrizioni di legge, con specifico riferimento all’esercizio del diritto di recesso.

Da questo punto di vista, la motivazione della sentenza impugnata risulta congrua e logica, immune dai denunciati vizi, avendo il Giudice di pace accertato e apprezzato che i moduli predisposti dalla società ricorrente non erano, sia per la composizione grafica, sia per il contenuto di alcune clausole, idonei ad assicurare la effettività della informazione del contraente in ordine al diritto di recesso e alle modalità del suo esercizio.

La circostanza che, nonostante queste violazioni, alcuni contraenti avessero esercitato in concreto il diritto di recesso non rileva, pertanto, al fine di escludere la responsabilità di chi aveva predisposto il modulo in modo non conforme alle prescrizioni legislative a tutela del singolo consumatore, attesa la natura precauzionale delle disposizioni legislative in questione e la funzione chiaramente preventiva della scelta legislativa di configurare un illecito amministrativo a tutela della posizione del singolo consumatore, con anticipazione della tutela. Il D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 11, poi trasfuso nel D.Lgs. n. 205 del 2005, prevedeva, invero, che "fatta salva l’applicazione della legge penale qualora il fatto costituisca reato, nell’ipotesi in cui l’operatore commerciale non abbia fornito l’informazione di cui all’art. 5, comma 1, o abbia fornito una informazione incompleta o errata o comunque non conforme a quanto prescritto dagli artt. 5 e 9 del presente decreto, che ostacoli l’esercizio del diritto di recesso (…) si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire un milione a lire dieci milioni".

In tale formulazione, appare evidente come la integrazione dell’elemento oggettivo dell’illecito non sia costituita dal mancato esercizio del diritto di recesso, ma dalla offerta di informazioni inidonee a mettere compiutamente a conoscenza il contraente in ordine alla esistenza e alle modalità di esercizio del diritto di recesso.

Una volta che venga riscontrata la inidoneità o la non correttezza delle informazioni sul punto, la circostanza che il contraente abbia o no esercitato il diritto di recesso non è di per sè idonea ad escludere o ad affermare la antigiuridicità del comportamento sanzionato. L’illecito, infatti, deve ritenersi commesso con la sola utilizzazione di moduli contrattuali finalizzati alla negoziazione al di fuori degli esercizi commerciali non rispondenti, tra l’altro, alle prescrizioni normative in tema di diritto di recesso.

Il motivo deve quindi essere rigettato, atteso che l’accertamento in fatto compiuto dal Giudice di pace in ordine alla non conformità delle indicazioni contenute nei moduli utilizzati per la negoziazione fuori dei locali commerciali alle prescrizioni in tema di esercizio del diritto di recesso rende del tutto inidoneo il denunciato vizio motiva-zionale a determinare la cassazione sul punto della sentenza impugnata, atteso che il detto vizio concernerebbe pur sempre un fatto non decisivo ai fini del giudizio.

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Non avendo l’amministrazione intimata svolto attività difensiva in questa sede, non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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