Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 6.11.92 il Comune di Palermo citò al giudizio del locale Tribunale G.G.,esponendo che questi aveva costruito un edificio condominiale su un terreno acquistato,con atto pubblico del 7.5.65, da C.A. e D.C.L., riservandosi detti venditori la proprietà delle aree del 1^ e 2^ piano,nonchè della metà del 3^, del costruendo stabile,sulle quali avevano poi realizzato dieci appartamenti,successivamente venduti all’ente istante,con atto pubblico del 24.3.81. Lamentava l’attore che, nonostante nel citato atto d’acquisto del G. fosse previsto espressamente che sarebbero rimasti in comune tra le parti, nelle proporzioni di cui all’art. 1118 c.c., "tutti gli spazi sui quali andranno a crearsi le parti comuni dell’edificio, come entrate, scale, alloggio portiere, scarico, tubazioni, ascensori e quant’altro per legge e consuetudine di proprietà comune in un edificio in condominio ex art. 1117 c.c.", il G. aveva di fatto sottratto all’uso condominiale alcune di tali parti, precisamente, il tetto, il cortile interno prospiciente il retroprospetto, gli spazi antistanti il prospetto principale, due locali a piano terra destinati ad alloggio del portiere, nonchè quelli di autoclave e di cisterna, dei quali tutti chiedeva la restituzione, oltre alla rimozione di ogni opera che impediva l’accesso ai condomini ed il risarcimento dei danni.
Costituitosi il convenuto, sostenne che tutti i beni suddetti gli appartenevano, avendo il Comune acquistato solo gli appartamenti, come risultava anche da una relazione del suo ufficio tecnico che aveva preceduto l’acquisto, nella quale gli stessi non figuravano;
successivamente il convenuto invocava anche, in subordine, l’usucapione,in tal senso proponendo domanda riconvenzionale; anche in via riconvenzionale il G. chiedeva la condanna dell’attore a distaccarsi dall’impianto di riserva idrica e sollevamento, in quanto realizzati su suolo di sua esclusiva proprietà, o, in alternativa, al rimborso delle spese affrontate al riguardo. La domanda attrice, alla quale si erano associati i condomini C. L.R., + ALTRI OMESSI intervenuti quali acquirenti degli appartamenti nelle more loro venduti dal Comune, sulla scorta di consulenza tecnica di ufficio, con sentenza del 15.1.02 venne accolta con riferimento a tutti i beni rivendicati,ad eccezione dei due locali a piano terra (la cui destinazione ad alloggio del portiere o ad altro uso comune non era risultata provata), rigettandosi la riconvenzionale e condannandosi il convenuto al risarcimento dei danni nella misura equitativa di L. 10.000.000,da ripartirsi tra il Comune e gli intervenuti in proporzione ai rispettivi periodi di proprietà.
A seguito dell’appello proposto da S.F., vedova ed erede del G., nelle more defunto, cui avevano resistito gli appellati (per la L.R., anche deceduta nelle more, gli eredi V., G. e C.C.), la Corte di Palermo, dopo aver ammesso ed espletato la prova testimoniale richiesta dall’appellante, con sentenza del 9.11-13.12.07 rigettava il gravame, condannando l’appellante alle spese.
Alla conferma della sentenza di primo grado detta corte perveniva considerando, essenzialmente, che nessun elemento, esplicito o implicito, desumibile dai titoli in narrativa citati, consentisse di ritenere superata, come sarebbe stato onere del convenutola presunzione di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., nella cui previsione, non tassativa, rientravano le controverse parti dell’edificio, ciascuna in concreto risultata caratterizzata da obiettiva e funzionale destinazione all’uso comune di tutti i condomini; nessuna contraria rilevanza, in proposito, poteva ascriversi ai certificati catastali, privi di valore probatorio, o alla relazione dell’U.T.C, mero atto interno di natura amministrativa.
Quanto all’usucapione, le testimonianze addotte, già di per sè di dubbia attendibilità in quanto provenienti da persone dell’entourage familiare del G. e riferenti di una circostanza inverosimile, quella che l’edificio fosse già completamente ultimato ed abitabile dal 1968, nonostante la dichiarazione di fine lavori fosse del 1973, non erano nel complesso sufficienti ad evidenziare un possesso ultraventennale continuo e, soprattutto, esclusivo.
Non era risultato provato, quanto alle chiavi del terrazzo, che solo il suddetto, e non anche altri condomini, ne fosse in possesso;
quanto alla recinzione dell’area antistante il prospetto principale, non risultava l’epoca precisa della relativa installazione, che, peraltro, tenuto conto di un’ordinanza sindacale di demolizione richiamante un verbale della polizia municipale del 12.12.89, era da ritenersi risalente ad epoca anteriore e prossima a tale data;quanto all’area retro stante, che sarebbe stata utilizzata per deposito e per la realizzazione di un "corpo basso", la concessione edilizia per quest’ultimo era stata rilasciata il 25.10.91 ed i rilievi fotografici eseguiti dal c.t.u. evidenziavano la presenza solo di attrezzature di cantiere ivi rimaste in attesa del completamento del manufatto; peraltro lo stesso G., in una denunzia di cambiamento presentata all’U.T.E il 4.8.76 aveva dichiarato che la superficie scoperta di mq. 1410 dello stabile costituiva spazio condominiale.
Nè, infine, il Comune poteva essere condannato a distaccarsi dall’impianto di riserva idrica e autoclave o a pagare le relative spese, costituendo la realizzazione di tali impianti, necessari all’abitabilità ed al servizio del condominio, onere del costruttore, le cui spese vengono recuperate con il prezzo delle vendite.
Avverso la suddetta sentenza la S. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui hanno resistito, con comune controricorso, i condomini in epigrafe indicati. Il Comune di Palermo ed i rimanenti condomini intimati non hanno svolto attività difensive. Sono state infine depositate memorie illustrative da ambo le parti.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., commi 1 e 2, artt. 1363, 1366 c.c., nonchè omessa, e/o insufficiente motivazione su fatto decisivo, con riferimento al rigetto del motivo di appello, con il quale si era censurata la dichiarazione di condominialità delle aree controverse, in quanto basata su erronea valutazione della loro destinazione funzionale, dei titoli, della documentazione catastale e degli altri atti acquisiti (in particolare concessione edilizia n. 370/91, dichiarazione di abitabilità del 17.4.75 e ordinanza a di demolizione n. 180/90).
Come si desume dai quesiti di diritto formulati ex art. 366 bis c.p.c., si lamenta essenzialmente che i giudici di merito, senza tener conto della particolarità della fattispecie, caratterizzata da un condominio sorto dal frazionamento di un fabbricato di proprietà esclusiva, non abbiano considerato che la volontà del proprietario costruttore sarebbe stata sufficiente ad escludere dal novero delle parti comuni alcuni beni, quelli nella specie controversi – di cui si nega la natura di parti necessarie all’uso e godimento collettivi – senza necessità che il contrario risultasse in modo espresso dal titolo. In particolare sarebbe stata trascurata o inadeguatamente valutata la vicenda negoziale originaria, nella sua specificità, consistita nella cessione di area edificabile in favore del costruttore, con riserva a favore degli alienanti dell’area superficiaria di alcune porzioni dell’erigendo edificio, oltre che delle parti comuni dello stesso, oggetto di specifica individuazione, secondo un oggettivo criterio di destinazione funzionale. Dalla suddetta insufficiente valutazione di un’ ipotesi, ritenuta "diversa da quella normale", in quanto caratterizzata dalla formazione progressiva del condominio "a seguito di una sequela di atti negoziali" e dall’interpretazione inadeguata dell’originario atto di cessione, compiuta senza tener conto dell’effettiva volontà delle parti desumibile anche dal loro successivo comportamento, dal complesso delle pattuizioni e secondo il principio della buona fede, sarebbe derivata l’indebita applicazione ai beni in questione della presunzione di cui all’art. 1117 c.c. Il motivo non è meritevole di accoglimento.
Va anzitutto osservato come la fattispecie in questione, costituita da un condominio sorto da una originaria permuta, caratterizzata dalla cessione del suolo edificatorio contro quella della proprietà superficiaria di alcuni dei costruendi appartamenti, dato che già di per sè esclude l’assunta qualità di esclusivo originario dominus del complesso da parte del costruttore, non rivesta quei connotati di eccezionalità, su cui fa leva l’impostazione del ricorso, risultando la stessa conforme ad un prassi economico – giuridica notoriamente diffusa, che di per sè comunque non può valere a sottrarre un condominio, ancorchè formatosi progressivamente, all’applicazione dell’art. 1117 c.c. Tale disposizione, come è stato ripetutamente precisato nella giurisprudenza di questa Corte, esprime un principio di carattere generale, a termini del quale, ove un bene del complesso immobiliare, su cui insiste il condominio, comunque risponda a requisiti di destinazione oggettiva e funzionale al godimento o al servizio della collettività dei partecipanti, ancorchè non rientrante nella elencazione normativa (sulla cui non tassati vita v., tra le altre, Cass. nn 17933/10, 4787/07, 3159/06, 8304/03), si presume di proprietà comune, a meno che il contrario non risulti con chiarezza dal titolo.
E tale titolo, attesa la natura di diritti reali immobiliari di quelli in contestazione, non può che essere costituito dall’atto scritto, non potendo assumere rilevanza, al di fuori dell’ipotesi di usucapione (nella specie, peraltro, subordinatamente sostenuta dalla parte convenuta) comportamenti e situazioni di fatto, tali da alterare o limitare la suddetta destinazione funzionale, ancorchè sistematici e protratti, posti in essere dal costruttore, originario proprietario, essendo anch’egli, a seguito delle sopravvenute vicende traslative, ove ancora titolare di alcune parti dell’edificio, soltanto uno dei partecipi del condominio progressivamente formatosi.
In altri termini, quali che siano state le modalità di formazione del condominio, l’art. 1117 c.c., in quanto regola generale, trova comunque applicazione, con la conseguenza che è solo nei titoli negoziali che va ricercata ed, eventualmente, individuata la contraria prova atta a superare le presunzioni di condominialità, e non anche in atti di natura unilaterale o comportamenti, leciti (istanze alla P.A., accatastamenti, et similia) o illeciti (abusi edilizi) posti in essere da tale soggetto rivendicante l’esclusiva proprietà (v., tra le altre, Cass. n. 3257/04, escludente la rilevanza di elementi presuntivi, Cass. n. 8152/01, sull’inidoneità dei dati catastali). Tali atti o comportamenti neppure possono assurgere, ex art. 1362 c.c., comma 2, ad elementi ex post interpretativi del titolo, provenendo soltanto da una delle parti interessate e non essendo comuni ad entrambi i contraenti (v. Cass. nn. 2720/09, 415/06, 18521/04) e porre in dubbio l’operazione ermeneutica nella specie compiuta dalla corte di merito, che nell’esame del titolo originario, costituito dall’atto pubblico del 26.5.1964, non ha rinvenuto alcuna clausola dalla quale si potesse desumere che le parti in questione del costruendo edificio e del relativo lotto edificatorio, su cui già in conseguenza della permuta sarebbe sorto un condominio, fossero state riservate in proprietà esclusiva all’acquirente costruttore. La stessa parte ricorrente, del resto, pur lamentando una non corretta ermeneusi del contratto, non è in grado di indicare da quale specifica clausola avrebbe dovuto desumersi siffatte riserve.
Ne consegue la palese inammissibilità, non solo per l’attinenza a valutazione di merito adeguatamente motivata ed esente da vizi logici, ma anche per genericità, dell’addebito di malgoverno delle disposizioni interpretative, in una fattispecie nella quale la corte territoriale si è attenuta alla regola fondamentale in claris non fit intepretatio, secondo cui, ove il dato letterale ed il relativo coordinamento logico siano di per sè soli sufficienti, per chiarezza ed univocità, a palesare l’intenzione dei contraenti ex art. 1362 c.c. ogni altra indagine ed il ricorso ai sussidiari criteri dettati dai successivi articoli non si rendono necessari (v., tra le altre, Cass. nn. 27021/08, 15399/08, 6366/08, 10250/00). Corretta ed incensurabile risulta, pertanto, l’affermazione della corte di merito, secondo cui la riportata clausola prevedente che sarebbero rimasti di proprietà comune, "nelle proporzioni di cui all’art. 1118 c.c., in relazione ai diritti a ciascuno spettanti sul costruendo edificio..", non solo "tutti gli spazi sui quali andranno a crearsi le parti comuni… " (esemplificativamente indicati), ma anche "tutto quant’altro per legge e per consuetudine di proprietà comune in un edificio ai sensi dell’art. 1117 c.c.".
Tale clausola, dal tenore inequivoco, escludeva ogni ipotesi di deroga alla citata norma fondamentale in materia di condominio, che veniva, anzi, espressamente richiamata, rendendo così necessaria, attesa la non esaustività, anche precisata dai contraenti, dell’elencazione delle parti comuni, una concreta indagine in ordine ai connotati oggettivi e funzionali delle singole parti controverse, rilevanti ai fini dell’applicazione della presunzione di appartenenza comune, cui la corte di merito non si è sottratta, pervenendo – con corrette argomentazioni, come si vedrà esaminando i successivi motivi – alla conclusione della relativa condominialità, ad eccezione di una sola delle stesse (non formante più oggetto del giudizio). Il motivo va conclusivamente respinto.
Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 818 c.c., comma 1, dell’art. 939 c.c., comma 2, artt. 1117, 1362 e 1363 c.c., nonchè omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo si che la Corte d’Appello, dopo aver escluso l’esistenza di titoli comprovanti la proprietà esclusiva del G. sui beni in questione, avrebbe anche escluso illegittimamente che la presunzione di condominialità dettata dall’art. 1117 c.c. potesse ritenersi insussistente o comunque superata dalla destinazione impressa alle cose medesime dal costruttore, senza tener conto che, postulando la presunzione suddetta la destinazione dei beni al godimento o al servizio del condominio, la stessa, in quanto non assoluta, verrebbe meno o resterebbe comunque superata nei casi in cui, come nella specie, gli stessi fossero dotati di una propria autonomia ed indipendenza. A tal riguardo assumerebbero decisiva rilevanza la vicenda negoziale originaria di cessione di tutte le aree edificabili, costituente oggetto del contrattola descrizione dei beni comuni contenuta nello stesso, l’accatastamento delle porzioni di fabbricato, l’uso delle stesse successivo al completamento della costruzione, così come risultati da una relazione di stima eseguita dall’ufficio tecnico comunale e da quella del c.t.u.. Neppure tale motivo, che in buona parte ripropone mutatis verbis doglianze contenute nel precedente, merita accoglimento, poichè, oltre a basarsi su affermazioni di principio prive di fondamento giuridico alla luce della giurisprudenza già citata, secondo cui a superare la presunzione di cui all’art. 1117 c.c., derivante dall’attitudine oggettiva e funzionale dei beni a soddisfare esigenze comuni, non possono valere le risultanze catastali, l’uso di fatto esclusivo da parte di uno o alcuni condomini (v. la già citata Cass. n. 3159/06) o altri elementi estrinseci (come quelli desumili da vicende amministrative), si risolve nella esposizione di palesi ed omnicomprensive censure in fatto, dirette ad accreditare una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, rispetto a quella fornita dalla corte di merito con adeguata motivazione su ogni punto.
I giudici di appello, invero, che nelle singole e specifiche argomentazioni esposte relativamente ai beni controversi, hanno spiegato esaurientemente, anche quando si sono discostati dal parere del c.t.u., le ragioni del proprio convincimento, con coerenza logica e senza incorrere nella violazione delle citate norme di diritto, pervenendo all’accertamento di fatto, incensurabile nella presente sede, che gli stessi, ancorchè di fatto e da tempo sottratti all’uso e godimento comunque, da parte del G., fossero ciascuno (con l’unica eccezione del c.d. "alloggio del portiere", la cui destinazione non è risultata provata) connotati da originaria ed oggettiva attitudine funzionale a soddisfare dette esigenze collettive, con la conseguente applicabilità della presunzione di cui all’art. 1117 c.c., rimasta insuperata, per assenza nel titolo originario del 1965 (cui occorre far riferimento quale primo atto costitutivo del condominio: v. Cass. n. 1812/11) di alcuna riserva di diritti esclusivi a favore del suddetto.
Con il terzo motivo si censura, in particolare, per violazione e falsa applicazione degli artt. 1117 e 1126 c.c., oltre che per omessa e/o insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo, l’applicazione della presunzione di condominialità al lastrico solare dell’edificio, di cui non sarebbe stata, in concreto valutata la specifica destinazione ad uso esclusivo individuale, pur consentita dal secondo dei citati articoli.
La censura non coglie nel segno, considerato che la possibilità di prevedere ex art. 1126 c.c. la proprietà o un diritto di godimento esclusivo sul lastrico solare si pone quale deroga alla regola generale, secondo cui tale superficie, assolvendo alla primaria funzione di copertura del fabbricato, deve presumersi ex art. 1117 c.c., n. 1 di proprietà comune, con la conseguenza che (a parte i diversi casi di terrazze a livello o comunque strutturalmente formanti parti integranti di unità immobiliari di proprietà esclusiva), è solo dal titolo e non anche da altri elementi che può trarsi la relativa prova contraria (v. Cass. n. 8532/99).
L’accertamento, pertanto, della obiettiva e funzionale attitudine del bene de quo a soddisfare dette esigenze comuni, attenendo ad un prius logico – giuridico antecedente, rispetto a quella di una destinazione di fatto diversa, deve necessariamente precedere quella della sussistenza di un titolo escludente la condominialità, e va condotto tenendo conto delle caratteristiche originarie del bene stesso, senza che possano assumere rilevanza quelle impressegli, di fatto e senza titolo, da uno o alcuni condomini.
A tali criteri si è correttamente attenuta la corte di merito, che partendo dalla considerazione che il lastrico de quo fosse obiettivamente e per sua natura essenzialmente funzionale alla copertura del fabbricato, oltre che accessibile dalla scale comuni, ha ritenuto irrilevanti ai fini della dimostrazione dell’esclusività della relativa proprietà, le circostanze che lo stesso fosse recintato e che di fatto lo avesse prevalentemente usato, pur non avendone titolo, il G., non omettendo di considerare (ma tanto in funzione di esclusione della subordinata tesi dell’usucapione) che l’esclusività del dedotto possesso neppure fosse risultata provata (per non avere i testi escluso che anche gli altri condomini fossero in possesso delle chiavi di accesso a quello spazio); ne consegue, a fronte dell’adeguata motivazione al riguardo, l’infondatezza anche del denunciato vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, per non avere il giudice di merito "recuperato" le risultanze di prova orale anche nella valutazione della tesi principale di parte convenuta.
Non miglior sorte, per ragioni in parte analoghe a quelle sopra esposte, merita il quarto motivo, con il quale si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c. e carenza motivazionale, con riferimento alla ravvisata natura condominiale degli spazi esterni al fabbricato.
Anche a tal riguardo le esposte critiche alla sentenza, partendo da un petizione di principio, secondo cui l’esercizio di fatto, più o meno prolungato ed esclusivo, di poteri dominicali su tali beni (vale a dire proprio di quel comportamento che la parte attrice aveva denunciato quale arbitrario, perchè sine titulo) ne avrebbe denotato l’appartenenza esclusiva al G., si risolvono in palesi censure avverso accertamenti che i giudici di merito hanno compiuto e motivato sulla base di valutazioni di fatto, segnatamente desunte dalle planimetrie e dai rilievi fotografici acquisiti, pervenendo alla conclusione che gli stessi fossero oggettivamente e funzionalmente deputati ad assolvere ad esigenze di collettivo interesse della comunità condominiale, e non anche al servizio di parti esclusive, segnatamente appartenenti al convenuto. Tale intrinseca ed originaria destinazione funzionale è stata correttamente accertata, con apprezzamento di merito non illogico e conforme al principio giurisprudenziale, da questo collegio condiviso, secondo cui la presunzione di cui all’art. 1117 c.c., n. 1, attesa la non tassatività dell’elencazione normativa, non è limitata ai cortili stricto sensu (vale a dire alle aree circondate da corpi di fabbrica), estendendosi anche a quelle adiacenti esterne, assolventi, oltre alla primaria funzione di dare aria e luce, anche a quella di consentire l’accesso al fabbricato comune (tra le altre, v.
Cass. 16241/03, 7889/00).
Siffatta naturale stata nella specie desunta, quanto agli spazi del complesso antistanti il prospetto principale del fabbricato, in motivato dissenso dal parere "giuridico" del c.t.u., dall’obiettiva constatata funzione, prevalente rispetto a quella secondaria di dare anche accesso ai magazzini del convenuto, di consentire il passaggio alle persone dirette ai due androni d’ingresso del fabbricato comune, e, quanto a quelli retrostanti, oltre che dall’obiettiva funzione di dare aria e luce agli appartamenti sulla stessa prospettanti, a quelle di dare accesso alla vasca di riserva idrica ed autoclave, beni di evidente destinazione comune, oltre che dalla libera accessibilità dai due androni comuni.
Trattasi all’evidenza di accertamenti di fatto incensurabili nella presente sede, per l’adeguatezza logico-giuridica che li sorregge, a fronte dei quali inammissibilmente si oppone una diversa ipotesi di interpretazione delle risultanze istruttorie, valorizzando elementi di fatto, segnatamente correlati ad un preponderante uso dei beni de quibus da parte del convenuto, comunque inidoneo a far venir meno quella obiettiva ed originaria destinazione funzionale che li connotava, nell’ambito del complesso condominiale sorto dall’edificazione dell’unitario lotto. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione degli art. 1117, 1158, 2712 c.c. e art. 244 c.p.c., con connesse carenze di motivazione, con riferimento alla rigettata domanda riconvenzionale diretta alla dichiarazione di usucapione sui beni in questione.
Con una prima doglianza, sfociante nella formulazione di un corrispondente quesito di diritto, si censura, chiedendo a questa Corte di pronunziarsi sulla legittimità dell’argomentazione, la ritenuta inattendibilità dei testi addotti dalla parte appellante, che sarebbe stata esclusivamente basata, nonostante l’univocità e convergenza delle relative deposizioni, sui legami di parentela con detta parte.
La censura va respinta, perchè radicalmente infondata nelle dedotte premesse, dacchè la corte di merito non ha disatteso le testimonianze in questione, nella specie rese da un fratello, da due consuoceri e da un genero del G., per i soli rispettivi rapporti di parentela e affinità, ma sulla base di una ragionevole, e pertanto incensurabile, valutazione critica delle relative deposizioni (che in cospetto di siffatti legami per costante giurisprudenza, pur a seguito della rimozione, con la sentenza n. 248/74 della Corte Costituzionale, del divieto di testimoniare già dettato dall’art. 247 c.p.c., possono essere vagliate dal giudice di merito con particolare cautela: v. tra le altre Cass. nn. 17630/10, 17384/04, 12259/03, 1632/00), alla stregua della quale le circostanze esposte dai testi, segnatamente nei riferimenti cronologici (decisivi in materia di usucapione) erano risultate in insanabile contrasto con altre, di natura oggettiva (correlate anche ad atti pubblici) emerse dall’istruttoria documentale e dai rilievi in loco, di cui si è già riferito in narrativa. Con un secondo profilo di censura si sostiene che i testi non avrebbero riferito che tutto l’edificio fosse completato fin dal 1968 (circostanza in contrasto con la certificazione di fine lavori rilasciata nel 1973 ^essendosi invece limitati ad affermare che a tale epoca solo una parte dello stesso fosse utilizzata, e si chiede nel conseguente quesito ex art. 366. bis c.p.c. di sancire l’insussistenza della discrepanza ravvisata sulla base di una mera dichiarazione amministrativa. Anche tale censura è inammissibile, perchè confuta accertamenti e valutazioni in fatto, che peraltro, come risulta dal tenore letterale delle testimonianze riportateci fini della c.d. autosufficienza" (v. nota a pagg. 32 e 33 del ricorso), non è incorsa nel lamentato travisamento (vizio revocatorio eventualmente denunciabile ex art. 395 c.p.c., n. 5), avendo tutti i testi riferito dell’ultimazione dell’edificio (anche "definito", secondo il fratello del G.) nell’anno suddetto (o al più tardi nell’estate del 1969), precisando altresì, uno degli stessi, che era già abitato da diverse famiglie, e nessuno anche riferito che i lavori si fossero, sia pure per alcune parti, successivamente protratti; sicchè, nel palese contrasto con la ben successiva dichiarazione di fine lavori del 1973, sul cui eventuale ritardo nessuna plausibile spiegazione risulta fornita, del tutto ragionevole ed incensurabile si evidenzia il giudizio di inattendibilità della corte di merito. Inammissibile, infine, per palese astrattezza della relativa formulazione e per mera assertività della premessa, è l’ultimo quesito con il quale si chiede a questa Corte di stabilire "se la decisione del giudice di merito che abbia svalutato le univoche e convergenti risultanze della prova testimoniale in ordine agli elementi costitutivi della fattispecie, sia illegittima per violazione degli artt. 1158 e 2721 c.c. e segg. e dell’art. 241 c.p.c., e segg.".
Mette conto, comunque, precisare che anche nella parte motiva la doglianza risulta inammissibile, sia nella parte in cui richiama, senza meglio precisarne il contenuto e l’attinenza, "certificazioni anagrafiche" asseritamele attestanti la risalente abitabilità di fatto dell’edificio, sia proponendo una inammissibile rivisitazione delle risultanze istruttorie, con riferimento alla questione del possesso esclusivo delle chiavi del terrazzo, attribuendo impliciti giudizi al riguardo ai testi, o richiamando un’affermazione de relato (desunta da quella del G. stesso), o ancora, a quella delle recinzioni delle aree adiacenti, ipotizzando una tardività del verbale contravvenzionale, elevato nel dicembre del 1989, palesemente implausibile ed illegittima, tenuto conto dell’obbligo degli organi di polizia locale deputati al relativo controllo di accertare e denunziare con tempestività gli illeciti in materia urbanistica. Il ricorso va, conclusivamente, respinto. Le spese, infine, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore dei resistenti, che liquida in complessivi Euro 4.200, 00, di cui 200, 00 per onorari.
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