Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con sentenza del 30 dicembre 2009, la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza emessa il 10 marzo 2007 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima città all’esito del giudizio abbreviato, ha assolto L.G. dalle imputazioni di tentata estorsione e di appropriazione indebita di cui ai capi H) ed I) al medesimo ascritti perchè il fatto non sussiste, ed ha qualificato il fatto di cui al capo G) nel reato di violenza privata di cui all’art. 610 cod. pen.; ha confermato la responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies contestato al capo A) e di tentata estorsione continuata contestata al capo L) ed ha rideterminato la relativa pena in anni cinque di reclusione ed Euro 800,00 di multa.
La medesima sentenza ha altresì assolto C.M. dall’imputazione di tentata estorsione di cui al capo H) perchè il fatto non sussiste e, concesse al medesimo le circostanze attenuanti generiche, ha rideterminato la pena per i rimanenti reati di cui all’art. 648-ter cod. pen., sub B), art. 64-bis cod. pen., sub D), D.L. n. 306 del 1992, 12-quinquies, sub E) ed F), in anni tre e mesi quattro di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa. La stessa pronuncia ha poi ridotto la pena inflitta a S.E.S. ad anni uno di reclusione in ordine al reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies alla medesima contestato al capo F), ed ha confermato, infine, la condanna ad anni cinque e mesi quattro di reclusione ed Euro 2.666,66 di multa inflitta in primo grado a G.G., quale imputato dei reati al medesimo ascritti ai capi B), D), E) ed F), in concorso con C.M..
Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati suddetti.
Nel ricorso proposto nell’interesse di C.M. si deduce, nel primo motivo, la insussistenza del reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies quale presupposto delle contestate ipotesi di riciclaggio e reimpiego di beni di cui agli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen., nonchè vizio di motivazione sul punto. Dopo aver ampiamente rievocato le deduzioni già devolute ai giudici dell’appello ed in forza delle quali doveva escludersi qualsiasi illiceità in ordine alle vicende societarie sulle quali si era radicata l’imputazione e commesse dopo l’entrata in vigore della fattispecie incriminatrice, il ricorrente censura le motivazioni adottate dalla sentenza impugnata per confutare validità a quei rilievi, in quanto, malgrado l’apparente esaustività degli argomenti spesi, gli stessi si rivelerebbero viziati da incoerenza ed illogicità. Non sarebbe stato in particolare spiegato in forza di quale circostanza sarebbe risultato provato, nella specie, il dolo specifico, consistente nel fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione, considerato che la difesa aveva eccepito la impossibilità di raggiungere tale fine mediante le operazioni contestate, essenzialmente facendo leva sul fatto che i vari trasferimento avrebbero rappresentato soltanto una sistemazione degli assetti di tipo familiare, senza alcuna variazione di sostanza sulla titolarità dei beni, riconducibili a parenti dell’originario dante causa, con la conseguente impossibilità – stante il disposto della L. n. 575 del 1965, art. 2-bis, comma 3, – di eludere la normativa in tema di misure di prevenzione. Rilievi, questi, che sarebbero avvalorati da un passaggio della sentenza di questa Corte che si era occupata di uno degli incidenti cautelari, ove si è fatto accenno ad un ipotetico vizio di motivazione in ordine alle "ragioni per le quali, in coincidenza con le singole operazioni di fittizia intestazione di beni, successive alla prima, fosse concretamente configurarle un rinnovato pericolo di provvedimenti ablatori da fronteggiare, appunto, con tali operazioni".
Ugualmente violazione di legge e vizio di motivazione si denuncia nel secondo motivo in riferimento ai reati di riciclaggio e di reimpiego di beni, per mancanza di prova in ordine alla consapevolezza della illecita provenienza delle varie attività, e, dunque, della sussistenza del reato presupposto. Rievocando, ancora una volta, le censure già poste a base dell’appello, si sottolinea, infatti, come a fronte della ricostruzione offerta dal primo giudice, non fosse emersa alcuna prova a conforto della ritenuta consapevolezza da parte dell’imputato che le quote ed azioni intestate dal padre al L. avessero subito le trasformazioni evidenziate nel capo A) della rubrica, di cui l’imputato è stato ritenuto estraneo. Da ciò, l’erronea prospettiva di trattare l’elemento soggettivo dei reati in forma, per così dire, "cumulativa" tra tutti gli imputati e per tutti gli episodi. Per altro verso, l’opera di "riappropriazione" posta in essere dall’imputato nelle vicende successive alla morte del padre, svelerebbe la consapevolezza da parte sua della riferibilità al defunto C.V. di determinate attività, ma non delle varie vicende che avevano caratterizzato l’evoluzione del "gruppo GAS" e delle quali l’imputato non si interessava affatto, essendo ancora in vita il relativo dominus. Rilievi, questi, ai quali la Corte territoriale si sarebbe limitata a rispondere attraverso un semplice rinvio alla disamina della posizione del L., ove peraltro lo specifico tema non era stato affrontato, perchè non devoluto da quell’imputato.
Nel terzo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine ai reati di riciclaggio e di reimpiego di beni per mancanza del fine di ostacolare la identificazione della provenienza delittuosa del denaro. Ancora una volta rievocando i motivi di appello, si sottolinea come le operazioni poste in essere fossero tutte facilmente "tracciabili" e, dunque, incongrue al fine di scongiurare la ricostruibilità della origine delle varie attività. Anche in questo caso, la risposta della Corte territoriale sarebbe soltanto apparente, in quanto fondata su una telefonata intercettata tra il C. ed il G. dalla quale, peraltro, non trasparirebbe nulla di significativo sul punto.
Nel quarto motivo si lamenta vizio di motivazione per insussistenza, in punto di fatto, del reato presupposto in ordine alle ipotesi di reimpiego e riciclaggio contestate ai capi B) e D), nonchè in riferimento alla incompetenza del Tribunale di Palermo a norma dell’art. 12 cod. proc. pen.. Sottolinea il ricorrente di aver lamentato, nei motivi di appello, che i presunti riciclaggi e reinvestimenti non avevano operato sul ricavato delle vendite delle quote cedute dal L. ai familiari – oggetto della contestazione presupposta di cui al capo A) – ma sulle somme ottenute dalla vendita delle quote rimaste, senza alcun passaggio, sin dall’inizio della intera vicenda, detiktitelarkà esclusiva, rimasta nelle mani del L.. La risposta offerta dalla Corte sarebbe anche in questo caso incoerente, in quanto fondata su una sorta di indebito concetto di "unitarietà" dei beni "fittiziamente intestabili", senza procedere, invece, alle doverose distinzioni focalizzate sul fatto che la base della contestazione relativa al D.L. n. 306 del 1992, art. 12- quinquies, si fondava, non sulla originaria e fittizia intestazione di beni da C.V. a L., ma sulle condotte e sui passaggi più recenti di trasferimento da quest’ultimo ai suoi più stretti familiari. La risposta data dalla Corte si rivela, da un lato, meramente reiterativa della pronuncia di primo grado, oggetto di specifica censura, dall’altro in contraddizione con quanto la stessa sentenza deduce a proposito della questione di competenza territoriale, laddove qualifica come un post factum rispetto al già consumato reato di trasferimento fraudolento di valori, l’appoggio della somma di venti milioni di Euro sul conto "(OMISSIS)", frutto della vendita alla GAS Natural del cosiddetto gruppo GAS, in quanto mera restituzione al figlio di C.V. di quanto al medesimo spettante in ragione della partecipazione occulta del padre a quel gruppo. Alla stregua di quanto ritenuto dalla stessa Corte, si sarebbe, infatti, in presenza di beni "ricevibili ma non utilizzabili": evenienza, questa, la quale, oltre ad integrare una situazione giuridicamente inedita, sarebbe comunque inidonea a sostanziare la fattispecie del riciclaggio o del reimpiego.
Nel quinto motivo si denuncia violazione di legge per insussistenza del reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, di cui ai capi E) ed F), violazione di legge in relazione all’art. 157 cod. pen., nonchè vizio di motivazione. Si contesta, in particolare, la congruità dell’assunto della Corte territoriale, nella parte in cui afferma – nel disattendere in rilievi svolti in sede di appello, secondo i quali il reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12- quinquies punirebbe chi attribuisce e chi si fa attribuire la la titolarità fittizia di beni – che il reato in questione si sarebbe nella specie perfezionato attraverso la gestione e la utilizzazione delle somme affluite sul conto della DEA Corp. Si osserva, infatti, che la utilizzazione del conto sarebbe l’esatto contrario di quelle finalità di occultamento che la norma mira a scongiurare.
Si ribadisce, poi, quanto già dedotto a proposito dell’epoca dei fatti di "fittizia attribuzione", da far risalire al 1995 o, al più, al 1997, segnalandosi come le contrarie osservazioni svolte nella sentenza impugnata sarebbero erronee, perchè si confonde la natura istantanea del reato con una sorta di "intoccabilità" dei beni fittiziamente intestati, giacchè le condotte poste in essere dall’imputato rappresenterebbero soltanto atti di godimento dei beni stessi. Sarebbero, poi, generiche e contraddittorie le deduzioni svolte dai giudici a quibus in ordine agli atti di trasformazione che avrebbero coinvolto i conti (OMISSIS) e (OMISSIS) successivamente al 1997 – data dalla quale la difesa fa decorrere la prescrizione – e fino alla morte di C.V., verificatasi il 19 novembre 2002, sottolineandosi come nessuna operazione sospetta fosse stata compiuta fino a tale data. Errati sarebbero, poi, i riferimenti che la sentenza compie a proposito della data di chiusura del conto (OMISSIS) ed al trasferimento dei relativi fondi sul conto (OMISSIS), confondendosi la intenzione di C.V. con la data della effettiva operazione. D’altra parte, il conto intestato alla moglie del C. era direttamente aggredibile in base alla normativa antimafia, rendendo, dunque, incoerente la fattispecie del trasferimento fraudolento di valori e al tempo stesso incongrua la motivazione dei giudici a quibus, secondo la quale il conto era comunque intestato ad una società, avuto riguardo al tenore della L. n. 575 del 1965, art. 2-bis. Si lamenta, poi, la confisca dell’appartamento sito in (OMISSIS), non essendo stata esercitata l’azione penale per il reato di intestazione fittizia di tale bene, in relazione a fatti comunque ormai prescritti. Si censura, poi, la mancata revoca della confisca in ordine ai restanti beni, rilevando che, se si postula che l’esistenza in vita di C.V. sia il confine ultimo di rilevanza delle condotte di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, non si vede come possa il figlio, privo di qualsiasi potere decisionale, rispondere dei reati di cui ai capi E) ed F) e legittimare il provvedimento di confisca.
Nel sesto motivo si deduce la esclusione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies quale delitto presupposto dei reati di cui agli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. e si lamenta vizio di motivazione al riguardo. Rievocando ancora una volta i motivi di appello, il ricorrente sottolinea come in quella sede avesse sottolineato la circostanza che per aversi riciclaggio o reimpiego, occorre che il reato presupposto sia in sè produttivo delle illecite attività economiche da riciclare o reimpiegare: che, quindi, da tale reato scaturisca il bene sul quale, poi, si spiegheranno le successive condotte. Il che non si realizzerebbe sempre nel caso del reato di trasferimento fraudolento di valori, posto che quei beni, pur se "macchiati" dal fine di eludere le misure di prevenzione, ben possono essere, in sè, di lecita origine. A nulla rilevando, poi, che tali beni possano essere confiscati, essendo suscettibili di provvedimento ablatorio, a norma dell’art. 240 c.p., comma 1, anche i beni strumentali del reato. A tali rilievi ed al richiamo alla Convenzione di Strasburgo sul riciclaggio, la Corte territoriale – osserva il ricorrente – avrebbe replicato con deduzioni che si reputano inconferenti.
Nel settimo ed ultimo motivo, si deduce la insussistenza del reato di riciclaggio e reimpiego di beni a causa della qualità di erede del percettore, nonchè vizio di motivazione sul punto. Nei motivi di appello il ricorrente aveva prospettato che nella qualità di erede del defunto C.V., subentrava nei rapporti del de cuius nello stato in cui si trovavano al momento del decesso; sicchè, non avendo "acquistato" o "ricevuto" alcunchè, non poteva rispondere di ricettazione. Si trattava di stabilire se, potendo l’erede possedere senza incorrere in sanzione penale, fosse inibito allo stesso di disporre del bene, richiamandosi al riguardo una pronuncia di questa Corte che aveva escluso il dolo della ricettazione in ipotesi di convivente che avesse ricevuto beni in adempimento di obbligazione naturale e quale corrispettivo giustificato dalle qualità soggettive e dai rapporti interpersonali. Le considerazioni che hanno fatto leva sull’ammontare dei beni percepiti dall’imputato e sulla assenza di obbligazioni giuridiche o naturali, poste a base della replica offerta sul punto dalla Corte territoriale e dal primo giudice – i cui passaggi argomentativi vengono ampiamente riprodotti – si rivelerebbero infondate, in quanto confonderebbero il piano civilistico e fiscale della vicenda con quello penale, posto che l’imputato era comunque beneficialo di una obbligazione naturale.
Quanto, poi, alle operazioni successivamente compiute sui beni ricevuti, trattandosi di acquisizione legittima, non potrebbe ipotizzarsi il reimpiego, anche se le operazioni stesse erano finalizzate a "trarre profitto". Esattamente come, secondo la prassi dei tribunali di prevenzione, non risponde di ricettazione o di riciclaggio il familiare intestatario del bene di proprietà del proposto, anche nel caso in cui emerga che tale bene è stato acquistato con proventi da delitto. Così come deve ritenersi pacifico – conclude il ricorrente – che "i familiari non rispondano di "intestazione fittizia," in quanto la stessa sarebbe geneticamente inidonea ad evitare la misura di prevenzione patrimoniale", a norma della L. n. 575 del 1965, art. 2-bis, comma 3.
Nel ricorso rassegnato nell’interesse di L.G., si ripropone, nel "primo motivo preliminare", la questione relativa alla competenza territoriale, deducendosi che, a fronte della competenza del Tribunale di Milano, sede dell’istituto bancario dal quale è partito il bonifico delle somme di pertinenza del gruppo L. in relazione alla vendita delle società del gas al gruppo spagnolo, e fatto affluire sul conto svizzero della Mignon S.A., i giudici del merito – nel ritenere sussistente la competenza del Tribunale di Palermo – avrebbero opposto che la circostanza di fatto dianzi indicata non aveva formato oggetto di specifica contestazione; tanto da aver indotto la Corte di appello a trasmettere gli atti alla locale procura per il di più a praticarsi. In tal modo trascurando, però, che proprio la vendita delle società del gruppo gas alla società spagnola GAS NATURAL era stata posta a base della accusa di riciclaggio contestata al C. ed al G., mentre nessun rilievo era stato assegnato alla circostanza che dallo stesso conto (OMISSIS) fossero stati effettuati dei bonifici a favore di R. R. il 14 ed il 15 gennaio 2004. Antecedenti, dunque, e non meno "gravi" del bonifico di Euro 500.000 del 21 gennaio 2004, assunto come atto determinativo della competenza palermitana. Ciò non senza rilevare che i finanziamenti della SIRCO ad Agenda 21, non potevano essere considerate condotte illecite di reimpiego, non trattandosi di operazioni suscettibili di ostacolare la individuazione della relativa provvista. Quanto alla preliminare questione relativa alla possibilità di sollevare eccezione di competenza per territorio in relazione al giudizio abbreviato, si registra, comunque, un contrasto di giurisprudenza, per il quale si sollecita, in subordine, la rimessione del tema alle Sezioni unite di questa Corte.
Nel "secondo motivo preliminare," si lamenta violazione dell’art. 416 c.p.p., comma 2, e art. 130 disp. att. cod. proc. pen., in relazione ad uno stralcio di atti dopo l’avviso di conclusione delle indagini, che avrebbe privato il fascicolo degli atti relativi, neppure acquisiti in copia e prodotti solo in epoca successiva; con ciò determinando un pregiudizio per il diritto di difesa. Altri atti, soggiunge il ricorrente, sarebbero stati messi a disposizione delle parti soltanto nel 2009, a seguito di trasmissione da parte della Procura di Palermo, la quale erroneamente aveva ritenuto che tali documenti, sequestrati al C. nel 2005, fossero stati già depositati nel corso delle indagini. Si lamenta, infine, che la Corte territoriale non abbia ammesso la produzione di quattro SIM Card intestate a C.M. e sottoposte a sequestro nel 2006, quando tali documenti, importanti per la difesa, avrebbero dovuto fin dall’inizio trovarsi nel fascicolo del Giudice della udienza preliminare a fondamento del giudizio abbreviato. Tutto ciò condurrebbe, secondo il ricorrente, ad un vizio del procedimento, al lume anche, di principi posti in risalto dalla giurisprudenza costituzionale a margine del valore di sistema da annettere al rispetto dell’art. 416 c.p.p., comma 2, rafforzato dalla introduzione dell’art. 415-bis nel codice di rito. Per rispettare gli equilibri del sistema, altrimenti compromessi, non ci si potrebbe dunque arrestare alla semplice inutilizzabilità del materiale di cui è stata omessa l’acquisizione, ma si deve pervenire alla conclusione di ritenere afflitta dalla nullità ex art. 178 c.p.p., lett. c), tanto l’udienza preliminare che gli atti successivi, compresa la sentenza.
Si lamenta, poi, nello steso "motivo preliminare", la mancata acquisizione, da parte della Corte di appello, di tutta una serie di atti di cui è stata reputata superflua la acquisizione, sottolineandosi, al contrario, le ragioni che indicavano come rilevante, ai fini della difesa, l’espletamento della sollecitata attività di integrazione probatoria.
Nel successivo primo motivo di ricorso, si lamenta violazione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies. Ribadita la natura di reato istantaneo con effetti permanenti che caratterizza l’indicata fattispecie delittuosa, il ricorrente contesta la fondatezza della tesi dei giudici a quibus secondo la quale, a fronte di condotte antecedenti al 1992 e come tali non costituenti reato, si considerino "nuove" violazioni punibili le condotte successive alla entrata in vigore della norma di riferimento e realizzate attraverso le varie cessioni di quote, aumenti di capitale, fusioni o assorbimenti societari e reinvestimento di utili, analiticamente passate in rassegna dalla stessa sentenza impugnata. Dunque, se anche fosse stata raccolta una prova di un originario conferimento di beni riconducibile a C.V., lo stesso sarebbe del tutto lecito, in quanto non previsto all’epoca come reato, con la conseguenza di non consentire la configurabilità del reato di trasferimento fraudolento di valori in ordine ai successivi atti di gestione del patrimonio, restando al riguardo inconferente il richiamo ad alcune pronunce di questa Corte che i giudici a quibus hanno ritenuto invece di evocare a conforto del proprio assunto. In particolare, si contesta che le varie operazioni oggetto di contestazione avessero di fatto creato una situazione giuridica apparente diversa da quella reale e che fossero finalizzate ad eludere le misure di prevenzione patrimoniale, svolgendosi, al riguardo, una diffusa disamina di ciascuna di esse. Si ribadisce, in particolare, che essendo le movimentazioni poste a base degli addebiti originate da fatti antecedenti l’entrata in vigore del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, verrebbe meno la condotta di trasferimento del soggetto attivo, con la conseguenza che le operazioni successive al 1992 non realizzerebbero la fattispecie incriminatrice, perchè non finalizzate ad alcun tipo di occultamento. Argomento, questo, che la Corte territoriale avrebbe travisato, ritenendo lo stesso volto ad asseverare una ipotesi di post factum non punibile, la quale ultima, invece, viene contestata in radice dal ricorrente, presupponendo, essa, una condotta antecedente punibile che nella specie non può ritenersi in alcun modo provata. La liceità dei comportamenti antecedenti l’8 giugno 1992, impedisce, pertanto – ribadisce il ricorrente – "di considerare le movimentazioni successive quali "ulteriori" fittizie e fraudolente intestazioni di valori". In subordine, si lamenta vizio di motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato di trasferimento fraudolento di valori,del quale sarebbe carente la prova, non potendosi ritenere a tal fine congrue le circostanze richiamate al riguardo nella sentenza impugnata.
Nel secondo motivo si deduce la intervenuta prescrizione del reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, posto che le condotte di cui al capo A) costituiscono più reati in continuazione; sicchè, tenuto conto delle nuove disposizioni dettate in proposito dalla L. n. 251 del 2005 e delle sospensioni, le varie condotte enunciate nella imputazione risultano, con decorrenza dalla consumazione di ciascuna di esse, tutte prescritte fino alla data del 28 maggio 2010, salva l’applicazione del proscioglimento nel merito che, nella specie, deve prevalere.
Nel terzo motivo si lamenta violazione di legge in riferimento ai provvedimenti di confisca operati, per una parte, a norma del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies in riferimento ai beni che servirono o furono destinati a commettere il reato di reimpiego di denaro illecito ascritto a C. al capo B) (con riguardo al L., relativo al corrispettivo della vendita delle partecipazioni al "gruppo gas" alla spagnola GAS NATURAL, e, quanto ai familiari del L., al corrispettivo della vendita delle relative partecipazioni alla suddetta società spagnola, nonchè in riferimento alle polizze, fondi di investimento e saldi di conto corrente, in quanto riconducibili al L., ritenuto responsabile del reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies); e, per altra parte, a norma dell’art. 240 c.p., comma 1, in quanto beni che servirono o furono destinati a commettere il reato di reimpiego di denaro illecito ascritto a C. al capo B) e costituiti dal 100% del capitale della SIRCO s.p.a., di cui il 60% costituito dal gruppo LAPIS; dal 100% del capitale della FINGAS s.p.a. di cui il 27% di proprietà del gruppo LAPIS, nonchè, infine, la quota della società rumena AGENDA 21, acquisita dalla SIRCO s.p.a. di proprietà del gruppo LAPIS, in quanto derivata dalla partecipazione dello stesso gruppo nella medesima SIRCO. Si osserva, al riguardo, che alcune delle operazioni contestate erano già prescritte alla data della sentenza della Corte di appello, mentre le altre si sono prescritte entro il maggio 2010.
Pertanto, il mantenimento della confisca sarebbe illegittimo, avendo le Sezioni unite di questa Corte affermato, nella sentenza n. 38834 del 2008, che nei casi di cui all’art. 240 c.p., comma 1, essendo richiesta la condanna, la confisca non può essere disposta se il reato è estinto. Principio, questo, che, al lume dei rilievi svolti nella richiamata pronuncia, deve ritenersi applicabile anche in riferimento alle ipotesi particolari di confisca di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, rendendo dunque censurabile la decisione impugnata anche per questa parte. La Corte di appello, inoltre, avrebbe confermato la confisca anche di beni di proprietà di persone estranee al procedimento, quali D.S.E., L.M., S. e Ma. ed il gruppo CAMPODONICO, violando in tal modo la clausola di salvezza enunciata dall’art. 240 c.p., comma 3, in base alla quale la confisca facoltativa di cui al primo comma dello stesso articolo non si applica se la cosa appartiene a persona estranea al reato. Considerato, dunque, che la confisca di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies ha natura di misura di sicurezza patrimoniale al pari di quella delineata dall’art. 240 c.p., comma 1, e considerata la estraneità di quei soggetti ai fatti del procedimento, i beni dovrebbero essere restituiti agli aventi diritto, dal momento che verrebbe a mancare il nesso di pertinenzialità tra i beni oggetto del provvedimento ablatorio e l’art. 12-quinquies del medesimo decreto.
Nel quarto motivo si lamenta violazione dell’art. 610 cod. pen., e vizio di motivazione sul punto, in quanto la richiesta di interrompere o ritardare la causa civile per la definizione dei rapporti economici tra il L. ed il gruppo BRANCATO rientrava nella imputazione di cui la capo H), dalla quale l’imputato è stato assolto, e non nella ipotesi sub G), che contestava una tentata estorsione nei confronti del gruppo BRANCATO, e che i giudici dell’appello hanno quindi erroneamente riqualificato in violenza privata. Mai era stata infatti contestata una minaccia tendente a far desistere il gruppo BRANCATO da una iniziativa giudiziaria nel quadro di "un differimento del conflitto in attesa di un chiarimento".
Mancherebbero poi in concreto gli estremi della minaccia, alla luce di quanto gli stessi giudici dell’appello hanno contraddittoriamente osservato sul punto. L’invito a non intraprendere azioni giudiziarie è, infatti, una condotta inidonea a coartare l’altrui volere, tant’è che la D. ha intrapreso azione axtragiudiziaria nei confronti del gruppo LAPIS, attraverso la notifica di un atto di intimazione e di messa in mora.
Si denuncia, nel quinto motivo, vizio di motivazione in riferimento alla tentata estorsione di cui al capo L), avendo la Corte territoriale reputato pienamente attendibili le versioni delle parti offese, senza tener conto delle contraddizioni emerse e dei rilievi difensivi svolti al riguardo. La Corte avrebbe in particolare omesso di procedere a quella scrupolosa verifica di attendibilità e di ricercare gli opportuni riscontri, che la consolidata giurisprudenza di legittimità insistentemente evoca ove l’accusa si fondi sulle dichiarazioni della persona offesa che sia anche costituita parte civile. In particolare, sottolinea il ricorrente, mancherebbe la prova che il L. abbia agito mosso da un interesse personale volto ad ottenere per sè o per altri somme di denaro, in quanto unico soggetto interessato a recuperare somme dalla D. era nel frangente P.C., secondo una ricostruzione della vicenda sulla quale il ricorrente diffusamente si sofferma, per evidenziare le aporie argomentative nelle quali la sentenza impugnata sarebbe incorsa. La Corte territoriale, inoltre, avrebbe trascurato il ruolo del tutto marginale svolto dal L. nella vicenda in contestazione, considerati i rapporti particolarmente affettuosi che lo legavano alla famiglia BRANCATO, consentendo di qualificare come mero "sondaggio" il suo intervento. La sentenza, poi, avrebbe fatto leva sulle contraddizioni emergenti tra le varie dichiarazioni dei protagonisti per inferirne la credibilità delle dichiarazioni rese dalla D., quando, al contrario, è massima di comune esperienza quella per la quale sono proprio gli aspetti di diversità sui particolari a rendere credibile la genuinità dei vari racconti.
Mentirebbero, infine, le parti civili, laddove hanno affermato di non essere a conoscenza di tale "Lillo" e dei diritti che questi avrebbe vantato su parte delle partecipazioni FINGAS s.p.a..
Nel sesto motivo si lamenta mancanza di motivazione in ordine alla determinazione della pena relativa al reato di cui al capo L), essendo stata applicata la stessa pena irrogata dal primo giudice per la più grave ipotesi di tentata estorsione contestata al capo G). In primo grado, infatti, era stato ritenuto più grave il delitto di cui al capo G) rispetto a quello di cui al capo L) ed applicata la pena di anni tre e mesi sei di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa: i giudici di appello, senza nulla motivare sul punto, hanno ritenuto di applicare la stessa pena per il reato sub L), come ipotesi più grave della violenza privata (così riqualificato il reato di cui al capo G), ritenuta in continuazione. Dunque, per il reato sub L), reputato in primo grado meno grave, il giudice dell’appello ha applicato la stessa pena irrogata dal primo giudice per la fattispecie più grave, omettendo di fornire una adeguata giustificazione sul punto.
Nel settimo motivo si contesta la mancata concessione delle attenuanti generiche, avuto riguardo, in particolare, alla collaborazione e lealtà processuale serbata dall’imputato, mentre si denuncia, nell’ottavo motivo, vizio di motivazione in ordine alle vicende relative alla gestione del conto (OMISSIS) presso il Credit Lyonnais di (OMISSIS), sul quale affluirono i circa venti milioni di Euro, frutto della vendita delle quote del L. nel "gruppo gas" alla società spagnola GAS NATURAL. Si deduce, al riguardo, che, in base alle intercettazioni telefoniche non prese in considerazione dalla Corte territoriale e del materiale documentale prodotto – in particolare, l’appunto olografo vergato dal L., anch’esso indebitamente negletto dalla Corte – emergeva che il conto (OMISSIS) apparteneva solo al medesimo e che tutte le movimentazioni ivi operate erano state effettuate su disposizione dello stesso imputato.
Nel nono motivo si lamenta vizio di motivazione in riferimento alla SIRCO s.p.a. ed ai suoi investimenti, contestandosi, sulla base di diffusi rilievi, che la stessa fosse "in mano" a C. M., come emergerebbe dall’investimento nella società KAITECH di CAMILLERI, ove il C. svolse un ruolo di intermediatore;
si contesta, al tempo stesso, il giudizio di genuinità annesso ad una scrittura privata rinvenuta in sede di perquisizione al G., erroneamente valorizzata dalla Corte territoriale.
Nell’ultimo motivo si lamenta la mancata astensione del presidente e del relatore del collegio giudicante, essendo stati gli stessi chiamati a decidere, mentre era in corso il procedimento di appello, "sulla responsabilità dello stesso imputato L.G. in ordine al procedimento penale n. 597/09 R.D.C., avente ad oggetto il sequestro dei beni effettuato in danno dello steso imputato per i medesimi fatti del procedimento penale n. 3044/07 R.G.A.".
Nel ricorso proposto nell’interesse di G.G., si rinnova, nel primo motivo, la eccezione di incompetenza territoriale, sottolineandosi la erroneità dell’assunto della Corte territoriale, secondo il quale la vicenda del trasferimento della somma di circa 22 milioni di Euro, costituente il prezzo di vendita delle quote del "gruppo gas" non formava oggetto di imputazione; si osserva, infatti, che la vicenda era chiaramente deducibile dalla accusa di riciclaggio, con la conseguenza di dover ravvisare proprio in quel fatto, verificatosi a (OMISSIS), l’episodio di reimpiego più grave e antecedente da prendere a base per la determinazione della competenza.
Si lamenta, poi, nel secondo motivo, violazione dell’art. 416 cod. proc. pen., in quanto la stessa Corte aveva proceduto alla acquisizione di materiale di indagine già presente nell’originario fascicolo, ma poi espunto; con il che, violando l’obbligo del deposito integrale degli elementi di prova, si è impedito alle parti di fondare le proprie difese anche su tali acquisizioni, ed al giudice dell’abbreviato di decidere anche in forza delle relative emergenze. La risposta data sul punto dalla Corte – relativa ai poteri di selezione degli atti che competono al pubblico ministero – sarebbe errata, in quanto in contrasto con i principi sanciti dall’art. 111 Cost.. Si sollecita, pertanto, la declaratoria di nullità della richiesta di rinvio a giudizio e delle sentenze di entrambi i gradi di merito, come atti conseguenti.
Nel terzo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla sussistenza delle contestate fattispecie delittuose. Si ribadisce, in particolare, che il trasferimento dei 22 milioni di Euro sul conto (OMISSIS) non poteva considerarsi frutto del reato di trasferimento fraudolento di beni, in quanto doveva ritenersi pacifico che il L. si era limitato a trasferire all’estero il prezzo della cessione di quote e partecipazioni di sua esclusiva e personale spettanza, deducendosi la evanescenza e la incongruità delle contrarie deduzioni svolte sul punto nella sentenza impugnata. Si lamenta, anche, che la Corte territoriale avrebbe qualificato come atti di straordinaria amministrazione le condotte contestate nel capo A) a L., quando, al contrario, si trattava di semplici atti di gestione che in nulla innovavano rispetto all’originario quadro di riferimento. Dunque, non poteva trattarsi di operazioni comunque destinate ad impedire la "rilevabilità" del patrimonio del soggetto da sottoporre a misure di prevenzione, rendendo, quindi, priva di oggetto giuridico la fattispecie incriminatrice di riferimento. Nè, a fronte di tali rilievi devoluti in grado di appello, la Corte avrebbe replicato in modo adeguato, essendosi la sentenza limitata a ribadire la fondatezza del costrutto accusatorio già posto a fondamento della sentenza di primo grado. Ugualmente priva di risposta sarebbe rimasta, nella sostanza, anche la ulteriore obiezione difensiva secondo la quale non vi sarebbe stato alcun interesse del C. e, di conseguenza, del L., a mantenere la fittizia intestazione delle partecipazioni societarie intestate a quest’ultimo, considerato il venir meno del pericolo di applicazione di provvedimenti ablatori dopo il decesso di C.V. nel novembre 2002. Rilievi, questi, fondati sull’assunto che la giurisprudenza costituzionale si sarebbe mossa secondo linee diverse da quelle battute dalla giurisprudenza ordinaria, per la quale la morte del prevenuto non è di per sè preclusiva alla confisca dei beni. Si deduce, poi, che l’accusa di violazione degli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen., riferita alla pretesa intestazione fittizia di beni, anche registrati (autovettura, imbarcazione, conti, ecc), di C.M. sarebbe del tutto incongrua rispetto alle finalità delle norme, posto che si trattava di beni la cui "tracciabilità" non è stata in alcun modo impedita od ostacolata.
Vengono poi censurati i rilievi in forza dei quali la sentenza impugnata avrebbe disatteso la fondatezza delle censure difensive, tese a dimostrare che il G. era del tutto estraneo alla gestione delle società siciliane, così come del tutto indimostrata sarebbe la consapevolezza da parte dell’imputato che le somme confluite sul conto (OMISSIS) provenissero dal reato di trasferimento fraudolento di beni.
Nel quarto motivo, dopo aver rilevato che i reati di cui ai capi E) ed F) sono prescritti al 30 giugno 2010 (compresi i periodi di sospensione), essendosi verificati prima della morte di C. V. avvenuta il 19 novembre 2002, se ne deduce comunque la insussistenza, sulla base delle stesse considerazioni già poste a fondamento dell’atto di appello e che si assumono esser state non pertinentemente disattese dalla Corte territoriale, con specifico riferimento alla gestione dei conti riferibili alle società POWERCASE e DEA CORPORATION. Si lamenta, infine, violazione di legge e vizio di motivazione, tanto in riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche, che in merito ai criteri di determinazione del trattamento sanzionatorio, avuto riguardo alla personalità dell’imputato ed al ruolo che gli è stato contestato.
Nel ricorso proposto nell’interesse di S.E.S., si deduce, nel primo motivo, la intervenuta prescrizione del reato di cui al capo F) contestato alla medesima, in quanto gli acquisti immobiliari effettuati con provvista proveniente dal conto (OMISSIS) erano avvenuti in epoca anteriore al 2000. Mentre le spese effettuate sullo stesso conto da C.M., non potevano qualificarsi come atti di straordinaria amministrazione, rappresentando essi il semplice godimento del bene oggetto di attribuzione fittizia. Si contestano, poi, i rilievi svolti nella sentenza impugnata a proposito della data di chiusura del conto e del trasferimento del relativo saldo di circa due milioni e ottocentomila Euro sul conto (OMISSIS), rilevandosi che, essendo stata la operazione effettuata dopo la morte di C.V. (ancorchè per sua volontà), il sopravvenuto decesso dell’"autore proprio" prima della chiusura del conto in questione, rende insussistente l’addebito. Si ribadiscono, poi, i rilievi già dedotti in appello circa il fatto che il conto era intestato ad una società riferibile al coniuge del potenziale proposto, così da essere agevolmente aggredibile in base alla normativa antimafia, deducendosi, al riguardo, la inconsistenza della motivazione svolta nella sentenza impugnata per disattendere la fondatezza del rilievo. Quanto, infine, alla confisca dell’appartamento sito in (OMISSIS), si rinnovano le doglianze già formulate in sede di appello, e fondate sulla circostanza che tale bene andava comunque restituito, non essendo stata esercitata l’azione penale in ordine al reato di intestazione fittizia di tale bene, reato che, comunque, sarebbe ormai estinto per intervenuta prescrizione.
In prossimità della udienza è stata depositata nell’interesse di L.G. una corposa memoria nella quale sono stati diffusamente sviluppati, sotto forma di motivi nuovi, taluni dei rilievi già posti a base dei motivi rassegnati nel ricorso. Si ribadisce, in particolare, la irritualità della acquisizione documentale, per di più effettuata i modo neppure integrale, di atti originariamente esistenti nel fascicolo delle indagini ed erroneamente non trasmessi, lamentando come tale acquisizione, neppure formalmente riferita all’art. 603 cod. proc. pen., risulti del tutto illegittima sul versante delle garanzie difensive, considerato che il procedimento era stato definito in primo grado con le forme del rito abbreviato. Quanto, poi, al reato di trasferimento fraudolento di valori, la Corte di appello non avrebbe fornito prova alcuna che l’imputato avesse agito quale prestanome di C. V. e soprattutto in ordine al dolo specifico in merito alla elusione delle disposizioni sulle misure di prevenzione patrimoniale, come sarebbe dimostrato dal fatto che tanto i familiari del L. che la famiglia CAMPODONICO, pur astrattamente correi, non sono stati imputati. Si ribadisce, poi, la censura per la quale le condotte successive alla entrata in vigore del D.L. n. 306 del 1992, art. 12- quinquies, rappresenterebbero semplicemente un post factum non punibile, difettando elementi alla stregua dei quali ritenere che le operazioni in questione integrassero, come erroneamente ritenuto dai giudici a quibus, nuove e ulteriori attribuzioni fittizie dei beni.
D’altra parte, la non punibilità, ratione temporis, della originaria presunta attribuzione fittizia di beni, determinerebbe, secondo il ricorrente, "l’elisione del disvalore penale per le relative "nuove" e/o ulteriori operazioni successive". Si deduce, ancora, la carenza di motivazione in punto di dolo in ordine al reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, giacchè la Corte nulla avrebbe detto in merito alla consapevolezza che il ricorrente si sia prestato alla intestazione fittizia dei beni per consentire a V. C. di eludere le disposizioni in tema di misure di prevenzione, essendosi i giudici i a quibus limitati ad evocare la condanna subita dall’ex sindaco di (OMISSIS). Il tutto frutto della erronea impostazione secondo la quale alla originaria intestazione fraudolenta, non punibile, sarebbero seguite condotte non anch’esse non punibili, ma attratte nell’alveo del reato non contestabile ab origine. In definitiva, sottolinea il ricorrente, una lettura costituzionalmente orientata della norma – per evitare censure di indeterminatezza della fattispecie – esige che "il trasferimento fraudolento si concretizzi nell’operazione materiale di "schermatura" del bene, sì che – una volta ottenuto il risultato – gli ulteriori passaggi sono neutri rispetto al bene giuridico e al disvalore dell’offesa". Quanto poi al provvedimento di confisca, nel riportarsi al ricorso in merito alla prescrizione dei reati, si rinnova la censura relativa alla confisca di beni appartenenti a persone estranee al procedimento, quali i familiari dell’imputato ed al gruppo CAMPODONICO. Si deduce, inoltre, che, ove fosse superato il rilievo della prescrizione, la confisca doveva comunque essere limitata alla parte dei cespiti dei quali fosse stata accertata la illiceità della provenienza. Si rinnovano poi le censure in riferimento al reato di cui al capo G), in ordine al quale si deduce travisamento dei fatti e motivazione illogica, e si svolgono, infine, diffusi rilievi a sostegno della denunciata questione di incompetenza territoriale del Tribunale di Palermo, rinnovando, in sostanza, le deduzioni in fatto già poste a base del ricorso.
Motivi della decisione
Quasi tutti i ricorrenti prospettano questioni in rito in larga misura comuni, anche se articolate su profili in parte non del tutto convergenti. Un primo tema che viene concordemente agitato, è quello relativo alla competenza per territorio; tematica, questa, che è stata diffusamente sviluppata specie nel ricorso proposto nell’interesse del L., ove sono state analiticamente ripercorse le ragioni poste a fondamento della eccezione a suo tempo proposta e rinnovata nei gradi di merito, contestandosi, al riguardo, la fondatezza dei rilievi in forza dei quali i giudici del merito hanno respinto la eccezione stessa. La tematica in questione, come peraltro esattamente messo a fuoco dallo stesso ricorrente, coinvolge, anzitutto, la soluzione di un problema pregiudiziale: se, cioè, possa o meno ritenersi compatibile con la celebrazione del giudizio abbreviato (il giudizio di primo grado si è infatti svolto secondo le forme di tale rito alternativo) la questione relativa alla competenza per territorio del giudice adito, o se, invece, la richiesta di giudizio abbreviato precluda la formulazione della relativa eccezione. Al riguardo, è dato registrare un tutt’ora irrisolto contrasto di giurisprudenza. In tema di giudizio abbreviato, infatti, la giurisprudenza di legittimità, dopo essersi inizialmente orientata in senso inverso (Cass., Sez. 1, 10 giungo 2004, n. 37156/04, C.E.D. Cass., n. 229532; Cass., Sez. 6, 23 settembre 1998, Vicentini, C.E.D. Cass., n. 213430; Cass., Sez. 6, 20 novembre 1997, Angeli, C.E.D. Cass., n. 211126), si è nei tempi più recenti consolidata nell’affermare che, una volta richiesto ed ammesso il giudizio abbreviato, la eccezione relativa alla incompetenza territoriale, in quanto suscettibile di rinuncia, non è più ammissibile, neanche se sia stata precedentemente proposta e disattesa (Cass., Sez. 5, 10 dicembre 2010, n. 7025/11, C.E.D. Cass., n. 249833; Cass., Sez. 5, 2 dicembre 2010, n. 3035/11, C.E.D. Cass., n. 249704; Cass., Sez. 5, 15 dicembre 2010, n. 1937/11, C.E.D. Cass., n. 249100; Cass., Sez. 1, 31 gennaio 2010, n. 10399/10, C.E.D. Cass., n. 246352; Cass., Sez. 6, 13 febbraio 2009, n. 19825/09, C.E.D. Cass., n. 243850; Cass., Sez. 4, 20 novembre 2008, n. 2841/09, C.E.D. Cass., n. 242493; Cass., Sez. 6, 15 aprile 2008, n. 37170/08, C.E.D. Cass., n. 241208; Cass., Sez. 6, 17 ottobre 2006, n. 4125/07, C.E.D. Cass., n. 235600). In passato, si era invece osservato che l’art. 491 c.p.p., comma 1 dispone che le questioni concernenti la competenza territoriale sono precluse se non siano state proposte subito dopo compiuto la prima volta l’accertamento relativo alla costituzione delle parti. Orbene, poichè tale accertamento trova collocazione anche nell’udienza relativa al giudizio abbreviato, nella quale si osservano, per quanto applicabili, le disposizioni previste per l’udienza preliminare – e tra esse, quindi, anche l’art. 420 c.p.p., comma 2 – se n’è tratto il corollario che l’eccezione di incompetenza territoriale dovesse essere prospettata, nell’udienza relativa al giudizio abbreviato, dopo l’esaurimento di quella formalità. (Fattispecie in cui l’eccezione di incompetenza territoriale era stata prospettata, nell’udienza relativa al giudizio abbreviato, durante la discussione finale; la Cassazione, se da un lato ne ha ritenuto la inammissibilità sulla scorta del principio di cui in massima, dall’altro ha evidenziato la infondatezza della tesi, accolta dal giudice di merito, secondo la quale la scelta del giudizio abbreviato presupporrebbe, di per sè, l’accettazione della competenza territoriale, precisando che invece la tempestiva contestazione di detta competenza da luogo ad un’eccezione che può essere riproposta nei motivi di gravame) (Cass., 28 giugno 1991, D’Andrea, Cass. pen. 1993, 1160). Si era anche affermato che, in tema di incompetenza per territorio, ove la parte abbia tempestivamente eccepito la incompetenza in sede di udienza preliminare, essa non ha l’onere di riproporre tale eccezione in limine al giudizio abbreviato successivamente instauratosi. Da un lato, infatti, la scelta del rito abbreviato non implica di per sè l’accettazione della competenza territoriale; dall’altro, la previsione dell’art. 21, comma 2, codice di rito, secondo la quale l’eccezione di incompetenza respinta nell’udienza preliminare deve essere riproposta a pena di decadenza entro il termine di cui all’art. 491 c.p.p., comma 1, si riferisce solo all’ipotesi in cui alla udienza preliminare segua il dibattimento e non anche il giudizio abbreviato (Cass., 20 novembre 1997, Angeli, C.E.D. Cass., n. 211126). Sempre in tema di giudizio abbreviato si era infine sottolineato che la scelta di tale rito non implicasse l’accettazione della competenza del giudice investito della richiesta, salve le preclusioni previste dalla legge in ordine alla eccepibilità della competenza (Cass., 23 settembre 1998, Vicentini, ivi, n. 213340).
Da ultimo, peraltro, l’originaria tesi della compatibilità della eccezione di incompetenza territoriale con il giudizio abbreviato è stata nuovamente affermata, essendosi ritenuto che quando "la richiesta di rito alternativo risulti accompagnata dalla formalizzazione della reiterata "preliminare" eccezione d’incompetenza per territorio, fondata sulla non peregrina considerazione che dalla contestazione e dagli atti il reato risulta inequivocabilmente commesso in luogo diverso rispetto a quello dell’accertamento, e non emergono ragioni di connessione idonee allo spostamento della competenza, sarebbe contrario a logica e a principi, oltre che privo di base normativa, sostenere che codesta richiesta comunque comporta accettazione dell’imputato ad essere giudicato da un giudice diverso da quello naturalmente competente" (Cass., Sez. 1, 5 luglio 2011, n. 34686/11).
Quest’ultimo orientamento deve senz’altro essere preferito, sia perchè lo stesso risulta del tutto in linea rispetto al quadro normativo di riferimento – il quale non esclude affatto la verifica della competenza per territorio anche in sede di giudizio abbreviato e, dunque, presuppone la corrispondente rilevabilità e deducibilità della questione anche in quella sede – sia perchè la diversa tesi si fonda su presupposizioni del tutto inconcludenti (la rinunciabilità della eccezione è tema eccentrico rispetto al rito alternativo ammesso, mentre è evidente che la semplice assenza di una fase di atti preliminari sullo specifico modello tracciato dall’art. 491 cod. proc. pen. – termine previsto per la possibilità di proporre la eccezione in dibattimento – non può certo far velo all’esercizio di un diritto che si salda ad un valore costituzionale, quale è quello della garanzia del giudice naturale), sia, infine, perchè la Corte costituzionale, nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 23 c.p.p., comma 1, nella parte in cui prevedeva la trasmissione degli atti al giudice competente anzichè al pubblico ministero presso quest’ultimo, quando il giudice del dibattimento dichiari con sentenza la propria incompetenza per territorio (evidenziando così l’esigenza che anche l’udienza preliminare, sede dell’abbreviato, fosse nuovamente celebrata davanti al giudice territorialmente competente), ebbe nella circostanza in particolare ad evidenziare come, a causa dell’erronea individuazione della competenza territoriale da parte del primo pubblico ministero e del giudice dell’udienza preliminare, uno dei due imputati (quello che aveva eccepito l’incompetenza del giudice ratione loci) non avesse potuto beneficiare della riduzione di pena stabilita per la richiesta di rito abbreviato; sottolineadosi, altresì, che l’imputato non era tenuto a formulare una richiesta subordinata, perchè dall’errore del giudice non possono derivare limitazioni di sorta al diritto di difesa (Corte cost., sentenza n. 70 del 1996).
Deve anche condividersi la critica del ricorrente ai passaggi motivazionali dei giudici del merito che sembrano evocare, ai fini della individuazione del reato più grave destinato ad esercitare la vis attractiva agli effetti della determinazione del foro competente, un concetto di "gravità in concreto" parametrato sull’effettivo disvalore del fatto in ragione del danno cagionato. Al contrario, infatti, avuto riguardo all’univoco tenore del dato testuale offerto dalla norma di riferimento, e considerato che la individuazione del giudice competente non può che raccordarsi al nomen iuris dedotto in imputazione e non al fatto storico ivi descritto, deve ritenersi del tutto pacifico che la gravità del reato è da ravvisarsi in astratto, con esclusivo riferimento alla pena edittalmente stabilita per la fattispecie contestata, secondo i criteri determinati dall’art. 16 c.p.p., comma 3. Deve dunque ribadirsi il principio secondo il quale ai fini della individuazione della competenza per territorio in caso di procedimenti connessi, la comparazione dei reati sotto il profilo della gravità, secondo il disposto dell’art. 16 cod. proc. pen., comma 3, va effettuata con riguardo esclusivo alle sanzioni edittali, restando priva di rilevanza, nel caso che queste si equivalgano, la maggiore o minore entità del danno in concreto provocato dalle singole condotte criminose (Cass., Sez. 2, 19 novembre 2003, n. 48784, Mazzaferro).
La decisione dei giudici del merito di respingere la eccezione di incompetenza territoriale deve peraltro ritenersi nella specie corretta. La eccezione, infatti, si era fondata sul rilievo che vi sarebbero stati altri bonifici operati utilizzando lo stesso conto "(OMISSIS)" di alcuni giorni antecedenti a quello di Euro 500.000, del 21 gennaio 2004 ed assunto a base per la determinazione della competenza della autorità giudiziaria palermitana. Bonifici che, a dire dei ricorrenti, attesterebbero il coinvolgimento di altra sede giudiziaria. Sul punto, però, al di là di enunciati in fatto non verificabili se non nei limiti in cui gli stessi sono stati sussunti nel corpo delle sentenze impugnate, è dirimente rilevare che le operazioni di bonifico dedotte, sono in sè prive di significativi rilievi atti ad individuare una competenza diversa da quella ravvisata, trattandosi fra l’altro di fatti che non rinvengono uno specifico enunciato in sede contestativa. D’altra parte, va rilevato che già il primo giudice, nell’affrontare il tema della competenza per territorio, ha escluso, con motivazione esente da censure, qualsiasi valore probante alla documentazione allegata alla memoria difensiva e tendente a dimostrare l’esistenza di operazioni antecedenti il 21 gennaio 2004 a valere sul conto (OMISSIS) e tali da determinare lo spostamento della competenza da Palermo, con ciò dissolvendo, per così dire in punto di fatto, la fondatezza della proposta eccezione. Nè miglior pregio può assegnarsi alla eccezione fondata sulla competenza milanese in ragione del luogo in cui si concluse la vendita del gruppo GAS con erogazione dei relativi fondi, in quanto, come correttamente posto in luce dai giudici di entrambi i gradi, il fatto non venne dedotto in imputazione, tanto da aver determinati la Corte territoriale ad investire sul punto la locale procura della Repubblica, per il di più a praticarsi. E’ del tutto evidente, allora, che una vicenda, pur sussunta nel panorama investigativo e posta a base della ricostruzione fattuale su cui si è radicato il giudizio di responsabilità, ma estranea all’oggetto della imputazione – al punto a aver formato oggetto di una trasmissione degli atti al pubblico ministero, alla stregua di "fatto nuovo" da contestare in forma autonoma – non possa certo essere assunta a base per la configurazione di un "reato più grave", o del "primo reato", suscettibile di attrarre la competenza degli altri reati connessi.
Parimenti infondate si rivelano le varie questioni concernenti la asserita irregolare formazione del fascicolo devoluto al giudice chiamato a celebrare la udienza preliminare; quelle inerenti l’acquisizione di atti da parte della Corte territoriale, nonchè, infine, le doglianze relative alla mancata acquisizione di ulteriori elementi di prova sollecitata dalla difesa del L. in sede di richiesta di rinnovazione della istruzione dibattimentale. Anche a voler prescindere, infatti, dalla incongruenza degli elementi offerti a corredo del ricorso per consentire uno scrutinio in punto di legittimità delle denunciate attività di acquisizione, stralcio o mancata allegazione di atti che avrebbero connotato l’agere del pubblico ministero e quello della Corte in sede di acquisizione del materiale prodotto, e pur a sottacere il rilievo che assume la circostanza che l’indicata ampia gamma di censure non consta abbia formato oggetto di specifici punti attinti dai motivi di appello, è assorbente rilevare che l’omessa allegazione di atti "stralciati" non può dar luogo a vizi di sorta sul piano di una pretesa violazione del diritto di difesa, posto che soltanto gli atti formalmente (e sostanzialmente) acquisiti formano oggetto del sindacato giurisdizionale – nella specie snodatosi, in primo grado, secondo le forme del giudizio abbreviato – senza che le eventuali omissioni (proprio perchè giuridicamente "inesistenti") possano generare un qualche vizio suscettibile di ingenerare uno straordinario rimedio caducatorio, "ora per allora", della decisione fondata su un materiale (in ipotesi) incompleto. D’altra parte, questa Corte ha reiteratamente avuto modo di affermare che il mancato deposito, unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, di parte della documentazione relativa alle indagini espletate, non è causa di nullità della richiesta stessa, ma comporta soltanto la inutilizzabilità, ai fini del rinvio, degli atti non trasmessi (ex plurimis, Cass., Sez. 1, 15 gennaio 2010, n. 19511, Basco; Cass., Sez. 4, 19 novembre 2008, n. 47497, Giangrasso; Cass., Sez. 1, 9 marzo 2004, n. 21376, Biondino). Per altro verso – si è pure osservato – se è ben vero che l’attività selettiva degli atti affidata alla iniziativa pubblico ministero non è soggetta ad alcun controllo finalizzato a verificare se i contenuti segretati possano avere una qualche rilevanza per gli interessi della difesa, "non deve neppure sfuggire che da tale situazione non può semplicisticamente dedursi la violazione del diritto di difesa, violazione che assumerebbe carattere meramente "virtuale", laddove, invece, deve essere supportata da concreti elementi, recuperati eventualmente anche attraverso investigazioni difensive, che dimostrino la rilevanza di specifico materiale investigativo acquisito dal P.M. e non trasmesso al GUP" (v. Cass., Sez. 6, 4 giugno 2006, n. 33453, Battistella).
Quanto, poi, alla contestata acquisizione di ulteriore materiale probatorio da parte della Corte di appello, e da riferirsi necessariamente ai poteri espressamente riservati al giudice del gravame dall’art. 603 codice di rito, nonchè al mancato accoglimenti di richieste intese ad acquisire ulteriori elementi di prova, tutte oggetto di puntuali e motivate decisioni reiettive, deve essere qui ribadito che nel giudizio abbreviato, sia condizionato che non condizionato, è consentito al giudice d’appello, d’ufficio o anche su sollecitazione delle parti, acquisire documenti sopravvenuti necessari ai fini della decisione (ex multis, Cass., Sez. 3, 13 gennaio 2011, n. 7974, Ndreu). Al tempo stesso, va peraltro pure riaffermato che la celebrazione del processo nelle forme del rito abbreviato, se non impedisce al giudice di appello di esercitare i poteri di integrazione probatoria, comporta tuttavia l’esclusione di un diritto dell’imputato a richiedere la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ed un corrispondente obbligo per il giudice di motivare il diniego di tale richiesta (Cass., Sez. 2, 18 gennaio 2011, n. 3609, Sermone). Tutto ciò ancor più nel quadro di una vicenda processuale rispetto alla quale l’ampiezza del contraddittorio e degli sviluppi che il procedimento ha subito in grado di appello, rendono scarsamente conferente il richiamo alle forme idealmente snelle del rito abbreviato, ed al suo presupposto "semplificatorio" (e sul quale si radica la giustificazione della diminuente di pena) di giudizio allo stato degli atti, con la correlativa rinuncia all’esercizio del diritto alla prova in dibattimento. Diritto, questo, per la verità ampiamente assicurato e concretamente esercitato in sede di gravame da parte di tutti gli imputati. E ciò basta a rendere concretamente incongruo il richiamo ad una sorta di efficacia "auto applicativa" dei principi costituzionali del "giusto processo" che i ricorrenti – peraltro solo labilmente – pretendono essere stati violati.
Scendendo al "merito"delle varie censure, può rilevarsi come il nucleo centrale delle doglianze che accomuna le posizioni dei ricorrenti si snodi, essenzialmente, attorno alla ritenuta impossibilità di ravvisare nella specie la sussistenza del delitto di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies e, in particolare, la insuscettibilità delle condotte sussunte a fondamento di quell’addebito a fungere da parametri di riferimento e reato presupposto, ai fini della configurabilità dei delitti di riciclaggio e reimpiego di cui agli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen.. Prospetta, infatti, la difesa del C., per la verità riproponendo il medesimo sviluppo argomentativo già devoluto ai giudici dell’appello e contrastandone i rilievi critici attraverso una inammissibile rievocazione dei fatti di causa e del merito del giudizio, come le condotte su cui si sarebbe radicata la contestazione di trasferimento fraudolento di valori, si siano limitate ad operazioni tese a conseguire un semplice riassetto familiare dei cespiti patrimoniali oggetto di addebito, senza alcuna variazione di sostanza per ciò che atteneva alla relativa titolarità. Sicchè, alla condotta originata da fatti acquisitivi intervenuti prima della entrata in vigore della fattispecie incriminatrice, non sarebbero conseguiti fatti nuovi ed autonomi, per di più difettando nella specie elementi alla stregua dei quali ritenere integrato il dolo specifico che caratterizza il reato in questione.
Anche nel ricorso del L. si pone in evidenza la circostanza che i giudici a quibus avrebbero errato nel ritenere punibili le condotte successive alla entrata in vigore del reato oggetto di contestazione, in quanto essendo state le acquisizioni in ipotesi attribuite a C.V. prima di quella data del tutto legittime, dal momento che la intestazione fittizia non era prevista come reato, verrebbe meno la condotta di trasferimento del soggetto attivo, con la conseguenza che le ulteriori condotte successive al 1992 non integrerebbero il delitto di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12- quinquies, perchè non finalizzate ad alcun trasferimento fraudolento di beni. Non si sarebbe dunque realizzato un posi factum non punibile – come invece avrebbe erroneamente reputato il giudice a quo, fraintendendo la portata del gravame – proprio perchè nella specie faceva difetto una qualsiasi condotta antecedente, in sè punibile.
Le prospettate censure, però, non colgono nel segno e non valgono ad incrinare la correttezza e validità della ricostruzione giuridica e fattuale diffusamente operata dai giudici di entrambi i gradi di merito. La fattispecie incriminatrice descritta dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, delinea, come è noto – attraverso un enunciato ad ampio spettro comportamentale che si specifica e qualifica attraverso la individuazione di un peculiare finalismo soggettivo – uno strumento normativo destinato a reprimere – in determinati frangenti, e secondo una prospettiva che si è da taluni affermato essere rivolta a far "terra bruciata" attorno agli interessi della criminalità organizzata – il fenomeno della intestazione fittizia di beni, denaro o altra utilità economica.
Attraverso il riferimento alla "attribuzione fittizia" ad altri della "titolarità" o "disponibilità" di beni o altre utilità, la norma intende dunque attrarre nella sfera precettiva, qualsiasi forma di trasferimento di beni da un soggetto, che ne rimane comunque effettivo dominus, ad altro, che pare disporne, giuridicamente o di fatto, quale titolare apparente. Attraverso la introduzione di tale fattispecie, l’ordinamento ha dunque mostrato una propensione ad erodere – per determinati fini, che, come si è detto,qualificano e specificano la norma – gli spazi di autonomia privata, nel cui ambito sono ritenuti leciti fenomeni di intestazione fiduciaria, di negozi indiretti, simulati et similia. Propensione, quella appena accennata, che nella legislazione più recente si è ulteriormente rafforzata e raffinata, nel quadro di una sempre più marcata opzione per la corrispondenza tra l’apparenza e la realtà nella titolarità di beni o attività economiche, a tutela di un generale principio di affidamento ed in linea con impegni derivanti dall’ordinamento internazionale e comunitario. Ciò, dunque, già di per sè induce ad una lettura della norma che ne esalti la ratto essendi e non ne vanifichi le finalità, chiaramente orientate verso la salvaguardia di valori di rango primario.
Dunque, se è pur vero che le condotte simulate o di fraudolenta interposizione soggettiva realizzate prima del 1992, non essendo perseguite penalmente, dovevano reputarsi in sè lecite, è altrettanto vero che i "fatti" commessi dopo l’entrata in vigore della norma vanno ragguagliati all’ampio schema normativo di cui si è detto ed allo specifico scopo che illumina la fattispecie incriminatrice. Lo spazio di illiceità che la norma ritaglia a proposito di manovre di occultamento giuridico o di fatto di attività e beni, altrimenti lecite, non si raccorda, infatti, a parametri di tipo oggettivo o tipologico (al punto che la norma, come è noto, è stata a suo tempo censurata proprio perchè connotata da uno scarso coefficiente di tipicità), bensì in relazione al fine perseguito dall’agente, alternativamente individuato come elusione delle disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniali (ed è l’ipotesi che qui rileva), ovvero come agevolazione nella commissione dei delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego, secondo una prospettiva intesa a perseguire penalmente anche i fatti di "auto" ricettazione, riciclaggio e reimpiego, non punibili per la clausola di riserva con cui esordiscono tali fattispecie, e che ne esclude la applicabilità agli autori dei reati presupposti.
Sul piano della struttura, poi, la norma risulta configurata secondo un modello di tipo monosoggettivo, anche se, sul piano della descrizione della condotta, si presuppone un connotato di plurisoggettività. L’attribuzione fittizia non può che postulare, infatti, la presenza di un soggetto che la effettua ed altro cui il bene e" fittiziamente attribuito, ma l’incriminazione prevede soltanto la punibilità del primo. Pertanto – si è osservato – alla comunanza dello scopo, che sarebbe tipica dello schema plurisoggettivo, viene sostituito, attraverso la operatività della disciplina del concorso di persone, la consapevolezza in chi assume la "formale" titolarità o disponibilità dei beni, che chi ha effettuato l’attribuzione è motivato dal perseguimento di uno degli scopi tipici indicati dalla norma, secondo il generale principio per il quale in un illecito a dolo specifico commesso in concorso non è necessario che tutti i partecipi siano animati dalla stessa finalità. Ciò spiega, dunque, la ragione per la quale non tutti i soggetti "formalmente" coinvolti nelle variegate vicissitudini societarie e nelle diverse operazioni contabili e gestorie dedotte nelle contestazioni, siano stati imputati dei medesimi reati ascritti agli odierni ricorrenti, rendendo pertanto infondate le critiche di contraddittorietà che alcuni ricorsi hanno ritenuto di dover enunciare a tale riguardo. D’altra parte, e come gli stessi giudici a quibus ricordano, questa Corte non ha mancato di sottolineare che il criterio secondo il quale non è punibile, per il principio nullum crimen sine lege, il soggetto la cui condotta è richiesta, per la configurazione di un reato plurisoggettivo improprio, non può applicarsi in modo assoluto, giacchè deve stabilirsi caso per caso, in base alla volontà del legislatore, se debba o meno applicarsi il principio generale per cui chi concorre nel reato ne risponde. In particolare, occorre indagare se l’esenzione da pena del concorrente necessario non indicato nella norma corrisponda allo scopo della norma stessa ed alle direttive generali dell’ordinamento giuridico.
Da ciò il corollario per il quale, avuto riguardo alla ratto ed alle finalità del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, e tenuto conto della relativa struttura, il delitto di trasferimento fraudolento di valori non può ritenersi un reato plurisoggettivo improprio, ma è una fattispecie a forma libera che si realizza nell’attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità di denaro o altro bene o utilità e consiste in una situazione di apparenza formale della titolarità del bene, difforme dalla realtà sostanziale; con la conseguenza che colui che si rende fittiziamente titolare di tali beni allo scopo di aggirare le norme in materia di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, o di agevolare la commissione dei reati di ricettazione, riciclaggio o impiego di beni di provenienza illecita, risponde a titolo di concorso nella stessa figura criminosa posta in essere da chi ha operato la fittizia attribuzione, in quanto con la sua condotta cosciente e volontaria contribuisce alla lesione dell’interesse protetto dalla norma (tra le varie, Cass., Sez. 1, 10 febbraio 2005, n. 14626, Pavanati).
Per altro verso, deve reputarsi del pari pacifico che il reato in questione si atteggi alla stregua di fattispecie a forma libera, che si concretizza nella attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità di denaro o altra utilità realizzata attraverso le più varie modalità, giacchè l’in se della fattispecie consiste semplicemente nella dolosa determinazione di una situazione di apparenza giuridica e formale o anche solo materiale della titolarità o disponibilità del bene, difforme dalla realtà, al fine di eludere misure di prevenzione o agevolare la commissione di reati relativi alla circolazione di mezzi economici di illecita provenienza; circostanza,quella appena accennata, che produce evidenti conseguenze sul piano della ricostruzione delle condotte punibili. La norma in questione, in particolare, non intende affatto nè formalizzare i meccanismi, che possono essere molteplici e non classificabili in astratto, attraverso i quali può realizzarsi la "attribuzione fittizia", nè intende ricondurre la definizione di "titolarità" o "disponibilità" entro schemi tipizzati di carattere civilistico; la disciplina, positivamente tracciata dalla figura incriminatrice, intende, infatti, lasciare libero il giudice del merito di procedere a tutti gli accertamenti necessari e pervenire – senza vincoli di carattere formale – ad un giudizio concreto degli elementi logici e fattuali sulla cui falsariga pervenire all’accertamento del "fatto storico" apparente, rispetto a quello reale, e dello scopo specifico che ha qualificato siffatta condotta, altrimenti penalmente neutra.
Da un lato, pertanto, i termini titolarità e disponibilità impongono di comprendere nella previsione normativa non solamente le situazioni del proprietario e del possessore, ma anche quelle nelle quali il soggetto venga comunque a trovarsi in un rapporto di signoria col bene; dall’altro lato, impongono, altresì, di considerare ogni meccanismo che realizzi la fittizia attribuzione, consentendo al soggetto incriminato di mantenere il proprio rapporto con il bene (cfr, fra le altre, Cass., Sez. 1, 26 aprile 207, n. 30165, Di Cataldo; Cass., Sez. 2, 9 luglio 2004, n. 38733, P.M. in proc. Casillo).
Schemi e modalità operative, dunque, quanto mai variegati e flessibili e la cui lettura ed "interpretazione", non può che essere effettuata alla luce degli scopi che li devono animare, secondo un apprezzamento coordinato ed unitario che tenga conto, diacronicamente, delle evoluzioni che la "storia" dei singoli beni può aver subito.
In tale prospettiva, se è ben vero che nella fattispecie criminosa prevista dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies – trattandosi di reato istantaneo con effetti permanenti (ex plurimis, Cass., Sez. 5, 22 maggio 2009, n. 30605, D.T.) – non possono evidentemente rientrare le attribuzioni fittizie di valori anteriori all’entrata in vigore della norma, in virtù dell’inderogabile principio sancito dall’art. 25 Cost., comma 2, (Cass., Sez. 6, 26 dicembre 1993, P.M. in proc. Parisi), e che, pertanto, anche l’eventuale – e si sarebbe tentati di aggiungere, assolutamente "statico"- mantenimento di tale fittizia attribuzione non può rientrare nell’ambito del penalmente rilevante, il discorso cambia ove vengano in discorso condotte gestorie che introducano un quid novi anche sul versante della stessa condizione qualitativa e quantitativa di "apparenza" dei beni, quali anche il reimpiego di utili, o financo quelle operazioni cautamente definite dai ricorrenti, di semplice "sistemazione familiare" dei vari cespiti. Lo stesso concetto di "gestione ordinaria" dei beni fittiziamente attribuiti, infatti, non può assumere, come erroneamete si deduce nei ricorsi, un connotato ontologicamente neutro agli effetti penali, per il sol fatto di riferirsi ad attività economiche la cui originaria attribuzione fittizia sia non punibile perchè antecedente al 1992. Se, infatti, è pur vero che i beni a suo tempo fittiziamente attribuiti non assumono le stimmate della illiceità per il sol fatto che quella condotta è stata poi prevista come reato, è altrettanto vero che i "fatti" successivi, che comunque valgano a "rimodularne" l’attribuzione, entrano nel fuoco della disposizione normativa che qui interessa, legittimando, dunque, l’accertamento dei relativi presupposti applicativi. E’ quindi vero, come hanno puntualizzato le Sezioni unite di questa Corte che, realizzandosi la consumazione del reato con la attribuzione fittizia dei beni, il "permanere della situazione antigiuridica" che scaturisce dalla condotta criminosa, rappresenta un dato "non eccedente l’ambito del postfatto non punibile" (Cass., Sez. un., 24 maggio 2001, Ferrarese), ma deve pure necessariamente condividersi l’assunto, fatto proprio anche dai giudici del merito, secondo il quale, "qualora ad una prima condotta di fittizia attribuzione di beni o di utilità seguano operazioni, anche di natura societaria, dirette a creare o trasformare nuove società ovvero ad attribuire, sempre fittiziamente, nuove utilità agli stessi o a diversi soggetti, deve escludersi che si tratti di un "postfatto" non punibile se tali operazioni sono dirette al medesimo scopo di eludere le disposizioni normative cui si riferisce l’art. 12- quinquies cit. Diversamente, proprio le condotte elusive più insidiose, collegate ad operazioni di ripetute fittizie intestazioni in ambito societario, resterebbero fuori dalla portata della norma incriminatrice, che risulterebbe sostanzialmente aggirata … La creazione, da una originaria società, di ulteriori e nuove società fittizie, così pure le plurime intestazioni fittizie di quote di società possono realizzare, attraverso un reticolo di operazioni simulate, un assetto che rende oltremodo difficile se non impossibile, l’individuazione della reale proprietà dei beni in questione, agevolandone la sottrazione alle legittime pretese dello Stato" (Cass., Sez. 6, 11 dicembre 2008, n. 10024, P.M. in proc.Noviello). Nel medesimo filone si iscrive anche l’orientamento secondo il quale integra il reato di trasferimento fraudolento di valori la fittizia costituzione di una nuova società commerciale volta ad eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, attraverso l’intestazione delle quote a soggetti utilizzati come prestanome dei reali proprietari, risultati essere amministratori e soci occulti di altra società dichiarata fallita (Cass., Sez. 2, 26 gennaio 2011, n. 6939, Melodia), così come del medesimo reato deve essere chiamato a rispondere chi, sempre al fine di eludere le misure di prevenzione patrimoniale, acquisti la qualità di socio occulto di una società già esistente, partecipando alla gestione agli utili dell’attività imprenditoriale (Cass., Sez. 1, 15 ottobre 2003, n. 43049, P.M. in proc. Fiorisi).
Ebbene, di tali principi i giudici del merito hanno fatto puntuale applicazione, mettendo in luce la intera gamma delle "operazioni" attraverso le quali, alle originarie vicende di interposizione che videro il defunto C.V. avvalersi, per sottrarsi alle misure di prevenzione patrimoniale, degli schermi societari approntati d’intesa con il L., si sono succedute le diverse "trasformazioni" che hanno dato vita ai diversi filoni di attività, tutte innovative e modificative – per forma, qualità e consistenza economico-finanziaria e societaria – poi confluite nei variegati rivoli di riciclaggio e reimpiego nelle successive vicende che hanno visto coinvolti il G. e C.M.. La sentenza impugnata, analiticamente contrastando i singoli punti devoluti dall’appellante, ha infatti posto in risalto i vari passaggi societari che si sono succeduti fini alla morte di C.V., tutti caratterizzati da vorticosi trasferimenti di quote coinvolgenti i familiari dello stesso L., rimasto vero dominus, nonchè i C., definiti anch’essi quale longa manus del medesimo L., al quale era direttamente riferibile la formale gestione di conti esteri, quale il conto (OMISSIS). La presenza occulta di C.V., prima, e di C.M. dopo la sua morte, si spiega solo con l’esigenza di rendere non "tracciabile" la genesi della provvista poi confluita nel "gruppo Gas," e dunque sottrarre beni che avevano ormai raggiunto una notevole consistenza, dagli altrimenti scontati interventi in tema di misure di prevenzione patrimoniale, in base alla legislazione antimafia. Che tale legislazione, poi – tema, questo, insistentemente evocato dai ricorrenti, a dimostrazione della pretesa inutilità di intestare fittiziamente beni a familiari – espressamente preveda una sorta di presunzione di interposizione fittizia, in riferimento a beni apparentemente di pertinenza dei prossimi congiunti del prevenuto, secondo quanto stabilito dalla L. n. 575, art. 2-bis, comma 3, è argomento privo di consistenza, posto che, da un lato, la "prevedibile" indagine sulla origine dei cespiti dei familiari non esclude affatto uno specifico interesse a non apparire quale titolare di certi beni di origine non confessabile – specie se di ragguardevole consistenza – e, dall’altro, rende comunque più difficile risalire a quella origine, pur nella perdurante titolarità effettiva di quelle attività, fiduciariamente attribuite a persone legate da vincoli parentali o di altra natura.
L’intera storia del cosiddetto gruppo Gas e delle sue più recenti evoluzioni, meticolosamente ricostruita dai giudici del merito e puntualmente riesaminata in sede di appello con esauriente risposta alle numerose e frammentarie deduzioni svolte dagli appellanti con i vari motivi e delle diverse memorie che si sono aggiunte, ampiamente assevera la validità del costrutto accusatorio, tanto sul versante della portata "innovativa" – rispetto alle condotte ante 1992 – delle vicende finanziarie, societarie e lato sensu gestorie, che hanno caratterizzato i fatti dedotti in imputazione, tanto su quello del dolo specifico, anch’esso più che adeguatamente asseverato dall’ingente e variegato compendio probatorio, accuratamente scrutinato nei gradi di merito.
Che l’"eredità" del tutto occulta di C.V. – analiticamente scrutinata nei gradi di merito, quanto a genesi, consistenza, dinamiche evolutive e peculiari cautele impiegate per il suo "mantenimento"- sia poi trasmigrata, in forma altrettanto "coperta," nella sfera di controllo gestorio e di successivo reimpiego in capo all’"erede" M. ed al fiduciario G., denota all’evidenza come, l’intera sequela delle operazioni – tutte coordinate fra loro – altro scopo non avesse, accanto a quello "fisiologico" dell’incremento dell’utile (spesso realizzato attraverso la estero vestizione di beni, e la correlata evasione fiscale), se non quello di "allontanare" per quanto possibile la titolarità di quei cespiti dalla "ingombrante" persona di C.V., e dal connesso perdurante rischio di provvedimenti di tipo ablatorio, non scongiurato neppure (stante l’autonomia dei fatti successivi) dal suo ormai intervenuto decesso.
In tale quadro di riferimento, finiscono anche per risultare non conducenti i rilievi che alcuni dei ricorrenti svolgono a proposito del fatto che alcune delle condotte di attribuzione fittizia si sarebbero realizzate in epoche per le quali il relativo reato sarebbe prescritto, sin da una data antecedente alla pronuncia della sentenza di appello. Al riguardo, va rammentato che questa Corte ha avuto modo di puntualizzare, anche di recente, che il delitto di trasferimento fraudolento di valori di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12- quinquies, deve si qualificarsi – come si è già posto in evidenza – quale reato di natura istantanea con effetti permanenti, ma con la precisazione che lo stesso si consuma, qualora la condotta criminosa si articoli in una pluralità di attribuzioni fittizie, nel momento in cui viene realizzata l’ultima di esse (Cass., Sez. 1, 28 maggio 2010, n. 23266, Martiradonna). Specie, dunque, nei casi in cui, come nella vicenda in esame, la condotta di attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità dei beni si realizzi attraverso lo schermo sociale, mediante operazioni che ne trasformino l’assetto e le relative attività, i singoli fatti non possono essere atomisticamente apprezzati, ma devono necessariamente inquadrarsi nell’ambito di una concatenata – e logicamente inscindibile – serie di condotte, tutte causalmente orientate al raggiungimento dell’obiettivo di "camuffamento" che la norma in questione intende scongiurare e punire. In tale frangente, dunque, il reato si atteggia alla stregua di una fattispecie a condotta plurima o frazionata, in ordine alla quale la serie concatenata di atti trasformativi realizza una azione unitaria che si esaurisce e si qualifica – sul piano della individuazione del relativo momento consumativo – con il raggiungimento dell’assetto stabile e definitivo della nuova "apparenza" della compagine sociale.
Nel ricorso del C. si prospetta una ulteriore questione che coinvolge la disamina strutturale del delitto di cui all’art. 12- quinquies del D.L. n. 306 del 1992, giacchè il ricorrente ne contesta la astratta configurabilità quale reato presupposto dei delitti di cui agli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen., come invece è stato ritenuto in entrambi i gradi di merito. In estrema sintesi, a parere del ricorrente, per aversi riciclaggio o reimpiego, occorre che il reato presupposto sia in sè produttivo delle illecite attività economiche da riciclare o reimpiegare: è necessario, quindi, che da tale reato scaturisca il bene sul quale, poi, si spiegheranno le successive condotte. La illiceità delineata dall’art. 12-quinquies, al contrario – ha sottolineato il ricorrente – riguarda "la condotta di attribuzione fittizia, non necessariamente i beni che ne sono oggetto (se di lecita provenienza); per aversi "ricettazione" et similia – invece – occorre che i beni provengano da delitto, non che – pur di lecita provenienza – "siano macchiati" dal fine di eludere misure patrimoniali".
Tale configurazione, incentrata su una prospettiva essenzialmente "naturalitica" che deve correlare l’oggetto del riciclaggio o del reimpiego all’oggetto del delitto presupposto, inteso quale bene fisicamente avulso dalla condotta materiale di quest’ultimo delitto, non può essere condivisa, anche se sicuramente presente nello schema più frequente che caratterizza la correlazione tra le varie figure di riferimento: quelle, appunto, che fungono da elemento tipizzante del reato presupposto e quelle di ricettazione, riciclaggio e reimpiego. Le "cose" o i beni che provengono da reato, infatti, di regola ne rappresentano il frutto: ed è per questo che l’ordinamento tende ad impedirne la relativa commercializzazione, trasformazione o reimpiego, che fa disperdere la genesi illecita di quei beni e che ne contamina la ulteriore circolazione. Ma ciò non toglie che è proprio dalla analisi strutturale dell’art. 12-quinqiues che può dedursi la congruità di tale fattispecie a fungere quale reato presupposto dei delitti di cui agli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen.; e ciò a prescindere da quanto sul punto ha diffusamente rilevato la sentenza impugnata, che, per la verità, ha nel frangente esibito un costrutto argomentativo non del tutto perspicuo.
Il delitto di trasferimento fraudolento di valori si trova, come è noto, iscritto all’interno di un provvedimento – il D.L. 8 giugno 1992, n. 306 – adottato subito dopo i tragici fatti di Capaci: basta una semplice lettura della relazione illustrativa che accompagnava il relativo disegno di legge di conversione per avvedersi di come l’intera gamma delle articolate misure previste da quel provvedimento fossero tutte orientate verso una linea tesa a creare un globale rafforzamento degli strumenti normativi di prevenzione e repressione della criminalità organizzata in genere e del fenomeno mafioso in specie (la disamina dei peculiari intenti normativi, la quale ultima ha fra l’altro giustificato, anche sul piano costituzionale, la legittimità della maggior parte degli interventi operati nel frangente dal legislatore, è stata limpidamente scolpita nella sentenza n. 306 del 1993 della Corte costituzionale).
Dunque, un obiettivo chiaramente sintonico con l’esigenza di impedire, non soltanto qualsiasi forma di penetrazione mafiosa nelle varie realtà sociali ed economiche, ma anche – ed è quello che qui interessa – consentire forme di "camuffamento" delle varie attività mafiose, in vista della efficace operatività delle misure di prevenzione patrimoniale, ormai unanimemente riguardate come strumento essenziale di repressione del fenomeno. Da qui, l’esigenza di annettere alla struttura normativa una funzione, per così dire, di "reato-ostacolo", in linea con la segnalata esigenza di impedire la accumulazione, il godimento e lo sfruttamento economico di beni in capo ai soggetti sospettati di appartenere ad organizzazioni mafiose, attraverso le più varie – e nella specie, come si è già detto, normativamente innominate – condotte tese a scongiurare il rischio di misure di prevenzione patrimoniali, specie se di carattere spoliativo. L’art. 12-quinquies, come si è già messo in evidenza, si qualifica, dunque, per lo scopo, lasciando indifferenziati e liberi nella forma i mezzi per realizzarlo. Ma se, per integrare la fattispecie normativamente descritta, basta la attribuzione fittizia dei beni con la finalità di eludere le misure di prevenzione patrimoniali – non importa, ovviamente, se in corso di applicazione o meno (Cass., Sez. 2, 14 luglio 2010, n. 29224, P.M. in proc. Di Rocco – ci si avvede agevolmente di come il bene fìttiziamente attribuito con tale vincolo di "scopo", assuma, non soltanto nel mondo economico, ma anche sotto il profilo squisitamente fenomenico, una "apparenza" ed una configurazione formale nuovi, rispetto a quelle che lo caratterizzavano in precedenza. Il bene "intestato" al mafioso è, per così dire, ontologicamente "altro" rispetto a quello formalmente "intestato" al quìsque de populo, tanto agli effetti della sua facilità di circolazione, quanto sul piano dello stretto valore economico, proprio perchè sottratto al pericolo di interventi ablatori di mano pubblica.
Per questa via risulta dunque soddisfatta la stessa tesi fatta propria dal ricorrente, secondo la quale "il "reato presupposto" deve essere delitto "produttivo" di illecita utilità economica" e tale da provocare "un arricchimento evidente e tangibile nella disponibilità dell’autore". Non v’è dubbio, infatti, che le operazioni trasformative e novative delle varie compagini sociali e delle varie attività finanziarie, tutte volte a schermare le reali disponibilità facenti capo a C.V., abbiano prodotto un sensibile valore aggiunto, proprio perchè sottratte al pericolo di confisca e rese apparentemente estranee rispetto agli interventi gestori ed alla disponibilità di un personaggio indiscutibilmente vicino agli ambienti mafiosi, certo non estranei – secondo la diffusa ricostruzione operata dai giudici del merito – rispetto alla genesi ed alla evoluzione degli affari connessi alla metanizzazione in Sicilia. Riciclare o reimpiegare il prodotto dell’opera di artificiosa trasformazione, realizzata attraverso le condotte sussunte a base della imputazione di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, integra, pertanto, le contestate fattispecie di cui agli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen., avuto riguardo, fra l’altro, al convergente interesse di tutti gli imputati, di continuare nell’opera di "camuffamento" che impedisse comunque, non soltanto la riconoscibilità della originaria appartenenza delle attività a C.V., ma anche che permettesse di escludere la "tracciabilità" dei beni in capo al figlio M., valendo per lui – e forse in misura ancor più sensibile – l’esigenza di approntare le medesime cautele, proprio in ragione del doveroso "rispetto" della volontà del primo, che la sentenza impugnata in più passaggi ha plasticamente messo in evidenza.
In tale quadro di riferimento si rivelano correlativamente infondate le doglianze che, con vari accenti, i ricorrenti hanno formulato in ordine ad una pretesa sottovalutazione dei connotati di specificità che qualificano l’elemento soggettivo dei reati che vengono qui in discorso; doglianze che, per la verità, specie per ciò che concerne i ricorsi del L. e del C., tendono a refluire sul piano degli apprezzamenti di merito piuttosto che a mantenersi sul crinale della pura legittimità. Al contrario, lo scrutinio che i giudici di entrambi i gradi di merito hanno condotto sul punto, si rivela del tutto coerente e asseverativo di una ricostruzione saldamenta agganciata alle plurime ed eterogenee acquisizioni probatorie, tutte limpidamente scandagliate e logicamente ricomposte.
Già la sentenza di primo grado, infatti, in ciò adesivamente apprezzata dai giudici del gravame, aveva puntualmente ricostruito – ripercorrendo le risultanze scaturite dai colloqui telefonici intercorsi tra il L., il C. ed il G. – la origine illecita, seppur parziale, della prima fra le società del "gruppo Gas" in dipendenza dell’apporto di capitali occulti da parte di C.V., socio occulto del L.. Sotto altro profilo, risultava adeguatamente scolpita e messa a fuoco l’intricata serie di passaggi di quote e di modifiche degli assetti societari e finanziari che avevano caratterizzato le trasformazioni subite da quel gruppo societario nel decennio compreso tra il 1990 e la morte di C.V., avvenuta nel (OMISSIS), nelle quali il L. figurava come il vero protagonista, a garanzia e tutela degli interessi occulti dello stesso C.. Sotto un terzo profilo, si è assegnato il necessario risalto alla circostanza che il L. era risultato in concreto assolutamente disinteressato alla gestione di due, probatoriamente "significativi", conti esteri, quali il conto "(OMISSIS)" ed il conto "(OMISSIS)", in realtà solo formalmente riferibili al L., ma in concreto appartenenti al G. ed al C.M.. E’ del tutto coerente dunque l’assunto secondo il quale saranno proprio le operazioni conclusive relative alla vendita delle società del "gruppo gas" agli spagnoli – vendita, sottolineano i giudici a quibus, alla cui positiva realizzazione ebbe a contribuire, nella fase delle trattativa, l’avv. B.M., figlia di E., socio del L. nella gestione di alcune società del gruppo – a dimostrare come parte del ricavato di tale vendita ottenuto dal L. sia stata conferita proprio a C. M., quale restituzione della partecipazione occulta del proprio genitore, del quale occorreva "rispettare la volontà".
Lo sviluppo diacronico delle varie vicende societarie è dunque riguardato dai giudici del merito come coerente evoluzione di un unico disegno: vale a dire quello di far sì che l’ingente patrimonio accumulato da C.V., avvalendosi, oltre che della propria carica pubblica, anche del suoi "conclamati rapporti con esponenti di vertice di Cosa Nostra dell’ala cd. Corleonese (a partire dalle dichiarazioni di Bu.To. del 1984 – precedute da quelle di V.L. – secondo il quale C.V. era "nelle mani" di Ri.To., braccio destro di L. L….)" (v. sent. di primo grado, pag. 14) fosse mantenuto e messo a frutto al riparo da fin troppo prevedibili, ed in parte già realizzatesi, misure di prevenzione, correlate al fatto che quelle disponibilità economiche si rivelavano per quantità e "storia", di origine illecita e, dunque, da occultare. Puntuale si rivela, infatti, la disamina, effettuata specie nella sentenza di primo grado, delle emergenze scaturite, in particolare, tanto dalla sentenza del Tribunale di Palermo del 17 gennaio 1992, con la quale C.V. venne condannato per associazione mafiosa e corruzione aggravata, nonchè dal decreto di confisca di beni emesso dal Tribunale di Palermo il 3 gennaio 1986 e relativo alle quote azionarie della società ETNA Costruzioni e ad immobili della stessa società. Dalle relative acquisizioni processuali era infatti emerso che tale società, costituita nel 1974, aveva come soci C. R., figlio di V., ed una società fiduciaria, la FIGEROMA, facete capo allo stesso C.V., mentre amministratore unico era la moglie di questi, S.E.S.. Nel 1982, a seguito di incorporazione, nella società stessa era confluita altra società, la SIR, a sua volta costituita nel 1962, con la partecipazione occulta di C.V. e della quale facevano parte quali soci, esponenti di spicco della mafia palermitana, quali BU.Sa. e BO.Fr., con i quali C. era entrato in società sin dal 1977. Nel 1984, vale a dire soltanto due anni dopo la incorporazione della SIR, la società FIGEROMA che, come si è detto, faceva parte sin dall’inizio della ETNA Costruzioni, cedeva il proprio pacchetto azionario al conte VA. R., il quale pacificamente era risultato essere il prestanome del C. per l’occultamento del suo patrimonio. La vicenda è stata correttamente valorizzata dai giudici del merito, in quanto, da un lato, denotativa della propensione già da tempo manifestata da C.V. a porre in essere condotte atte a "occultare" attraverso lo schermo societario le proprie disponibilità partrimoniali (circostanza, questa, già emersa sin da tempi assai remoti), ma, dall’altro lato, anche eloquentemente dimostrativa della piena consapevolezza di tutti gli imputati circa le finalità reali di siffatte operazioni di "mascheramento". Dagli atti processuali innanzi indicati, ed in particolare dal decreto di confisca dei beni, era infatti emerso che la società ETNA aveva sede legale in (OMISSIS), ove non soltanto era ubicato lo studio del L., ma avevano sede anche molte altre società formalmente facenti capo allo stesso; inoltre, era risultato che il L. aveva costantemente partecipato alle varie riunioni assembleari ed aveva addirittura suggerito a C.V. le modalità attraverso le quali avrebbe potuto trasferire le azioni da FIGEROMA a VA. R.. Dunque, ben conosceva – e sin da epoca risalente – non soltanto i metodi di occultamento del proprio patrimonio praticati dal C., ma vi aveva direttamente contribuito, nel trasparente intento di sottrarre quei cespiti al regime delle misure patrimoniali antimafia all’epoca già vigenti e poi attivate con la confisca del 1986, il cui decreto divenne esecutivo nel 1993.
Tutto ciò ha dunque permesso coerentemente ai giudici del merito di dedurre la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ascritto al capo A) al L., "evidentemente ben consapevole – come l’avvocato G., il quale difensore di fiducia di C. fin dagli anni novanta, era posto nelle migliori condizioni per conoscere l’esatta conformazione dei comportamenti illeciti compiuti dallo stesso e la loro consistenza "economica" -… dei trucchi utilizzati da C.V. per nascondere le sue sostanze patrimoniali, dell’esistenza di dette sostanze e della particolare propensione all’utilizzo della partecipazione societaria occulta e, dunque, di soggetti prestanome da parte dello stesso C." (v. sentenza di primo grado, pag. 18).
D’altra parte, la incontestabile sussistenza dei rapporti intercorsi tra C.V. ed il L. nello specifico settore delle imprese di metanizzazione, rapporti che passavano necessariamente proprio sul versante del "camuffamento" societario della partecipazione del primo alle attività formalmente riconducibili al secondo, risulta univocamente asseverata dalla versione offerta dai numerosi collaboratori di giustizia sentiti nell’ambito del procedimento e che si sono espressi in termini assai eloquenti, anche sul versante dei veri interessi mafiosi coinvolti nel settore in questione. A ciò aggiungendosi, anche, la ulteriore acquisizione, giustamente definita dai giudici dell’appello di tipo "oggettivo," rappresentata dal rinvenimento nel covo di PR.Be., all’atto del suo arresto, di due lettere del noto latitante M. D.M. nelle quali si fa riferimento al tema della metanizzazone della città di Alcamo e si formulano espressi riferimenti alle persone di V. e C.M., il quale ultimo ("uno dei figli del "paesano morto", che vive a (OMISSIS)") "si era indebitamente appropriato di 250 milioni di lire che l’"impresa" aveva destinato ai mafiosi" (v. sentenza di primo grado pag. 43).
Emergenze oggettive, queste, che correttamente il primo giudice ha messo in risalto, non soltanto quali elementi di conferma della attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori che hanno descritto la vicenda della metanizzazione di Alcamo, ma che, più in generale, dimostrano, al di là di ogni dubbio, la esistenza di "un profondo legame tra C.V. ed il vertice della mafia corleonese, nonchè di un ruolo esecutivo di C.M. negli affari del padre, anche in relazione al pagamento di pizzo (per come riferito da BR. e, con le dovute differenze, da V. C.)".
Quanto poi all’assunto, dedotto da vari ricorrenti, ma in particolare dal C., secondo il quale dovrebbe ritenersi escluso il dolo specifico in ordine alle varie operazioni contestate, in ragione del fatto che essendo comunque coinvolti prossimi congiunti, il fine di eludere le misure di prevenzione risulterebbe incongruo, essendo normativamente "sospettata" la interposizione fittizia, avuto riguardo al disposto della L. n. 575 del 1965, art. 2-bis, comma 3, la doglianze si rivela non pertinente, giacchè il trasferimento fittizio del cespite al familiare deve essere comunque, per un verso, "individuato" (rendendo dunque, finalisticamente significativa la relativa condotta agli effetti elusivi delle misure patrimoniali) e, sotto altro profilo, accertato nei suoi presupposti. Con riguardo, poi, alle doglianze formulate dallo stesso ricorrente in ordine ad una pretesa valutazione "cumulativa" dell’elemento soggettivo per tutti gli episodi contestati e per tutti gli imputati, le stesse si rivelano palesemente inconsistenti, giacchè le sentenze di entrambi i gradi di merito hanno meticolosamente ricostruito la intera sequenza delle vicende, analizzando il ruolo svolto da ciascun imputato e tracciandone, di conseguenza, un filo conduttore unitario circa la disamina dell’animus, in un contesto complessivo che, per gli intimi rapporti da anni esistenti fra i protagonisti della vicenda, la perfetta consapevolezza di ognuno del ruolo e della "storia" degli altri – primo fra tutti, ovviamente, di quella che ha caratterizzato C.V. – ben ammetteva un apprezzamento non parcellizzato del dolo, proprio per l’intima e stabile correlazione temporalmente tracciata tra i fatti e le persone che ne sono state protagoniste.
Tanto il C. che il G. lamentano che negli addebiti loro ascritti a titolo di riciclaggio e di reimpiego dei beni si sia omesso di considerare che la intera gamma delle operazioni oggetto di contestazione, non poteva di per sè ritenersi volta ad impedire l’accertamento della origine dei beni, posto che si è sempre trattato di cespiti in ogni caso agevolmente "tracciabili", rendendo, dunque, non configuragli le fattispecie dedotte in imputazione, la cui ratio essendi è proprio quella di precludere la ricostruzione della provenienza di determinate attività o valori, ponendo a fulcro della condotta, appunto, la "specifica finalità di far perdere le tracce dell’origine illecita". L’assunto, però, non è pertinente alla vicenda in esame. Se, infatti, è pur vero che le disposizioni di cui agli artt. 64S-bis e 648-ter cod. pen., pur configurando reati a forma libera, richiedono che le condotte di riciclaggio o di reimpiego siano caratterizzate da un tipico effetto dissimulatorio, risultando dirette in ogni caso ad ostacolare l’accertamento sull’origine delittuosa di denaro, beni o altre utilità (ex plurimis, Cass., Sez. 1, 11 dicembre 2007, n. 1470, P.G. in proc. Addante), è altrettanto vero che tale obiettivo ben può essere realizzato anche attraverso condotte che non escludono affatto l’accertamento – o la astratta individuabilità – della origine delittuosa del bene, non trattandosi di evento del reato. Nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, è costante l’insegnamento secondo il quale integra il delitto di riciclaggio il compimento di operazioni volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, attraverso un qualsiasi espediente che consista nell’aggirare la libera e normale esecuzione dell’attività posta in essere. (Principio, questo, affermato in una fattispecie relativa alla effettuazione di versamenti di denaro di illecita provenienza in favore di varie società controllate dagli imputati, attraverso il temporaneo utilizzo di "conti di sponda" su cui affluivano in modo da non conservare traccia delle operazioni, mancando gli elementi identificativi sia della provenienza delle somme confluite nelle società, sia della destinazione di quelle dalle stesse defluite) (Cass., Sez. 6, 18 dicembre 2007, n. 16980, Gocini; v. anche Cass., Sez. 2, 12 gennaio 2006, n. 2818, Caione).
Alla stregua di tali rilievi, le varie operazioni dissimulatorie analiticamente passate in rassegna dai giudici del merito, e relative alle diversificate compagini sciali interessate dalle singole operazioni, nonchè le vicissitudini inerenti la gestione, anch’essa dissimulata, dei conti esteri, in una con i fatti di reimpiego univocamente rivolti non soltanto a mettere a frutto i cespiti di illecita origine, ma anche a "trasfigurarne" l’essenza per occultarne la relativa "storia", ampiamente asseverano il motivato apprezzamento dei giudici a quibus circa la sussistenza dei reati in contestazione, posto che la astratta "accettabilità" di quella origine (peraltro emersa solo all’esito di un complesso e faticoso iter investigativo) non è certo di ostacolo alla integrazione dei reati stessi, al cui perfezionamento basta la realizzazione di un qualsivoglia risultato di "camuffamento". Nè, per la verità, al di là di una generica ed assertiva denuncia, i ricorrenti si sono spinti a prospettare una effettiva inidoneità ex ante della condotta in ordine alla realizzazione di un siffatto effetto dissimulatorio.
Del pari infondate si rivelano le doglianze poste a fondamento del quarto motivo di ricorso proposto dal C., considerato che le censure – tanto articolate quanto di inagevole lettura – si limitano a proporre una critica che coinvolge il merito delle valutazioni offerte dai giudici di entrambi i gradi di giudizio, in ordine ai reati di reimpiego e di riciclaggio, contestati rispettivamente ai capi B) e D) e riferiti, il primo, all’"investimento" di una parte della somma ricavata dalla vendita del gruppo gas nell’acquisto di AGENDA 21 con sede a (OMISSIS), e di cui C.M. era socio occulto, ed in operazioni di finanziamento della stessa e di altre società del medesimo gruppo aventi sede in (OMISSIS); ed il secondo, alle operazioni di "sostituzione" di parte del denaro depositato sul conto "(OMISSIS)" – facente parte del patrimonio occulto di C.V., fittiziamente intestato al L. – mediate l’acquisto di beni formalmente intestati al G., ma di fatto nella disponibilità di C.M.. Ciò che emerge dalle sentenze di entrambi i gradi di merito non è – come pretenderebbe il ricorrente – una valutazione globale e generica della origine illecita dei cespiti del cui reimpiego o riciclaggio si discute, ma, più semplicemente, l’osservazione che la responsabilità del L. quale concorrente nel reato presupposto, realizzatosi attraverso il trasferimento fraudolento dei beni di C.V., ha impedito di configurare le relative e successive condotte "trasformative" quali autonome ipotesi di riciclaggio o di reimpiego, operando per quell’imputato la clausola di salvezza che esclude la responsabilità per tali delitti in capo all’autore del delitto presupposto. Ma tutto ciò evidentemente non esclude affatto la illecita origine dei cespiti – ovviamente valutati nella loro integralità – la quale ha coerentemente connotato di altrettanta illiceità le successive condotte di investimento e di "sostituzione," correttamente ascritte al C. ed al G., proprio per l’autonomia strutturale e funzionale che i fatti dedotti nelle imputazioni hanno presentato rispetto alle varie condotte di "camuffamento" (e di trasformazione) che avevano contaminato il patrimonio "sostanzialmente" riconducibile a C.V..
In tale contesto si chiarisce, dunque, l’assunto del primo giudice, secondo il quale risulterebbe "fin troppo sofisticato – una volta che il bene è sostanzialmente riconducibile a L. e gli atti di trasferimento a terzi suoi familiari, per stessa ammissione dell’imputato, sarebbero stati dettati solo da motivi fiscali e quindi sarebbero, a loro volta, fittizi – andare a scomporre gli effetti successivi a detti atti di straordinaria amministrazione, ponendo differenze tratte dalle modalità utilizzate da L. G. per la restituzione delle somme a C.M. (attraverso sue quote personali, possedute da sempre, per quanto attiene al (OMISSIS), o attraverso la compartecipazione pro-quota agli investimenti SIRCO e FINGAS …)". (v. pag. 290 della sentenza di primo grado). Nè può dirsi conducente la critica che il ricorrente muove alla sentenza di appello nella parte in cui la stessa qualifica come non punibile la condotta del L. relativa alla "restituzione" al C. di quanto doveva al medesimo essere devoluto – a fronte del ricavato della vendita del "gruppo gas" – in quanto figlio dell’originario e ormai defunto titolare, C. V., posto che i successivi "trasferimenti", reimpieghi e sostituzioni delle somme affluite sul conto (OMISSIS), integrano, come si è detto, condotte soggettivamente e strutturalmente autonome.
Dunque, non si trattava affatto – come erroneamente deduce il ricorrente – di beni "ricevibili ma non utilizzabili", ma di beni provenienti da reato – quello di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12- quiquies – e come tali ritualmente sussumibili nelle fattispecie di cui agli art. 648-bis e 648-ter cod. pen..
Del tutto inconsistente si rivelano, poi, le censure che il C. muove nel settimo motivo sul rilievo che il medesimo, in quanto erede del padre V., non potrebbe rispondere dei reati di cui agli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen., dal momento che "l’erede non "acquista" o "riceve" i beni del de cuius, ma subentra allo stesso nei rapporti giuridici di natura patrimoniale nello stato in cui si trovano nel momento del decesso". Pertanto, non potendo l’erede rispondere di ricettazione ed essendo dunque legittimato a "possedere senza incorrere in sanzione penale", allo stesso non può ritenersi inibito, opina il ricorrente, "ad esempio, alienare il bene (sempre sotto il profilo penalistico: al solito, diverso discorso sarebbe da farsi quanto alle somme ottenute dalla vendita".
Rievocando, altresì, a coronamento delle censure. una lontana pronuncia di questa Corte relativa all’assenza di dolo della ricettazione in ipotesi di beni ricevuti in forza di adempimento di obbligazione naturale.
Le tesi del ricorrente, resistite in entrambi i gradi di giudizio con argomentazioni che non vengono reputate convincenti, sono del tutto eccentriche rispetto alla vicenda di specie, posto che la perfetta consapevolezza di C.M. della illecita provenienza del patrimonio paterno, frutto, fra l’altro, del contestato meccanismo di "camuffamento" posto in essere dal de cuius assieme al L., rende, anche sul piano soggettivo, i relativi beni illeciti per origine e come tali suscettibili delle condotte di riciclaggio e di reimpiego poste a base della contestazione, senza che possa in alcun modo venire in discorso il tema della obbligazione naturale. D’altra parte, non si vede come possa evocarsi tale categoria che, a norma dell’art. 2034 cod. civ. determina la soluti retentio di quanto è stato spontaneamente prestato in "esecuzione di doveri morali o sociali", per legittimare la impunità dell’accipiens che ricicli o reimpieghi beni che siano stati, come nella specie, "prodotti" da un reato posto in essere proprio dal dante causa. E della "storia" relativa alla origine ed alla trasformazione del patrimonio del padre, C.M. era perfettamente a conoscenza, e non certo da epoche recenti, visto che già nel 1984, appena ventenne, venne impiegato proprio dal padre "per trasferire somme di denaro contante in libretti al portatore nelle mani di un altro prestanome, D.T.J., condannato con la sentenza del 1992 per favoreggiamento reale verso C.V." (V. la sentenza di primo grado, pag. 16).
Devono reputarsi infondate e, per larga parte, inammissibili, le censure che il L. muove in ordine alla riqualificazione in violenza privata del reato di tentata estorsione contestato al capo G), ed in merito alla tentata estorsione di cui al capo L). Quanto alla prima questione, la stessa è stata dedotta essenzialmente sotto il profilo della sostanziale immutatio libelli, non essendo la richiesta al gruppo BRANCATO di interrompere o differire la causa per la definizione dei rapporti con il L. oggetto della contestazione sub G) ma di quella sub H), dalla quale lo stesso L. era stato assolto. L’assunto si rivela però incongruo, in quanto la evidente intima correlazione tra le vicende oggetto di contestazione ben consentiva ai giudici del gravame di riqualificare sotto il nomen juris reputato pertinente i fatti, o quella porzione di essi, formalmente enunciati sotto diverse rubriche, posto che, al fondo delle stesse, vi era, come tratto unificante, proprio la individuazione di una condotta coartatrice, seppur reputata priva dei connotati tipici del reato di tentata estorsione, in quanto priva del requisito del danno patrimoniale. Quanto, poi, alla ravvisabilità degli estremi della minaccia, le censure del ricorrente finiscono per evocare, nella sostanza, profili di merito, giacchè la sentenza impugnata, pur nello sfumare la gravità delle espressioni intimidatorie, reputa comunque motivatamente sussistente il reato di violenza privata, alla luce delle testimonianze degli avvocati MA. e D.B., concordi nell’attestare "l’atteggiamento complessivo del L. rivolto a far desistere" le parti offese "da iniziative giudiziarie nell’ottica di un differimento del conflitto in attesa di un chiarimento: il che – puntualizza correttamente la sentenza impugnata – costituisce giustappunto l’essenza della violenza privata" (v. sentenza di appello pag. 172).
D’altra parte, la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo consolidata nell’affermare che, ai fini del reato di violenza privata, nella nozione di minaccia rientra qualsiasi comportamento od atteggiamento intimidatorio dell’agente, che sia idoneo ad eliminare o ridurre sensibilmente nel soggetto passivo la capacità di determinarsi e di agire secondo la propria volontà indipendente.
Pertanto, non occorre neppure una minaccia verbale od esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento o atteggiamento, tanto verso il soggetto passivo quanto verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualche cosa. Il che vale ad asseverare la fondatezza dei rilievi posti a base della sentenza impugnata, dal momento che la condotta serbata dall’imputato si inseriva in un contesto in cui le parti offese venivano fatte segno a vivace pressione, in vista della sistemazione dei loro rapporti con il L..
A proposito, invece, delle diffuse doglianze che il ricorrente muove in ordine alla motivazione della sentenza impugnata per ciò che attiene alla vicenda contestata al capo L), le stesse fuoriescono all’evidenza dal rigoroso perimetro di legittimità cui si riferisce il vizio denunciato, per diffondersi in una inammissibile critica del merito, concentrata sui diversi profili di fatto evocato dai giudici a quibus per contrastare i motivi di appello. Il sindacato sulla attendibilità delle dichiarazioni rese dalle persone offese, specie se costituite parti civili, deve essere, come è noto, particolarmente rigoroso, trattandosi di dichiarazioni che promanano da soggetti che rivestono la qualità di parti processuali, e, dunque, non terze ed "indifferenti" rispetto ai fatti di causa. Ma una volta che il giudice del merito abbia – come incontestabilmente è avvenuto nella specie – dato adeguato conto dei profili che rendono probatoriamente affidabile il narrato sui fatti offerto dalle persone offese, saldando tale scrutinio all’interno di un "discorso giustificativo" basato sulle acquisizioni processuali e non su aspetti di carattere astratto o, peggio, congetturale, un siffatto iter motivazionale si sottrae all’evidenza a qualsiasi censura in punto di legittimità, giacchè il controllo "interno" di ciascun elemento che componga quel giudizio ed il relativo apprezzamento globale, ineluttabilmente sconfinerebbe in un ulteriore sindacato di merito, sostitutivo o integrativo rispetto a quello già compiuto dal giudice funzionalmente a ciò competente. La vicenda " P." è stata, infatti, più che adeguatamente scandagliata dai giudici del merito, essendosi la sentenza di appello ampiamente soffermata sul punto, sia nel quadro di una rilettura critica degli approdi cui era pervenuta la sentenza di primo grado – con specifica attenzione serbata alle diverse questioni agitate nei motivi di appello – sia in riferimento all’apprezzamento complessivo che da tale rilettura poteva dedursi, proprio sul piano della attendibilità delle dichiarazioni di accusa. La interpretazione delle pretese "incongruenze" di tali dichiarazioni, l’amicizia che legava da epoca risalente il L. alla famiglia BRANCATO, la lettura alternativa che il ricorrente propone circa l’interesse diretto del P., l’asserito disinteresse personale dell’imputato, circostanze, tutte, che il ricorrente diffusamente evoca ed analizza a sostegno del dedotto vizio, si rivelano, dunque, quali meri espedienti dialettici per introdurre una rivisitazione del merito e, con essa, offrire il destro per giungere ad una interpretazione alternativa dei fatti, evidentemente impraticabile in questa sede.
Non fondato è anche il sesto motivo del ricorso proposto dal L., nel quale si lamenta vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio stabilito per il reato di cui al capo L).
Deduce infatti il ricorrente che i giudici del gravame avrebbero applicato la stessa pena irrogata dal primo giudice per il reato sub G), reputato dal medesimo più grave di quello sub L). L’assunto è privo di fondamento, in quanto la valutazione della gravità in concreto dei reati compiuta dal primo giudice si dissolve, ove in appello, come nella specie, uno dei reati posto a raffronto sia venuto meno nella sua consistenza giuridica e, dunque, non consenta più di operare comparazioni sul punto. Nè vi è dunque, al riguardo, necessità alcuna di offrire una specifica motivazione delle ragioni per le quali il giudice dell’appello, dovendo rideterminare il trattamento sanzionatorio del nuovo "reato base" – divenuto "unico" come reato più grave – debba procedere ad un (non più esistente) raffronto con lo statuto decisorio adottato dal giudice di primo grado in riferimento ad altra imputazione della stessa gravità. La motivazione dei giudici dell’appello, pertanto, si rivela del tutto congrua e priva dei denunciati aspetti di aporia argomentativa. Nè può evocarsi alcun genere di violazione di legge, essendosi applicato un trattamento motivatamente conforme ai parametri normativamente delineati e non venendo qui in discorso alcun profilo di reformatio in peius.
Sempre per ciò che attiene al ricorso del L., le censure poste a fondamento del settimo e dell’ottavo motivo sono palesemente inammissibili, risolvendosi – quanto al settimo motivo – in doglianze del tutto prive di consistenza giuridica e – quanto all’ottavo motivo – in rilievi basati esclusivamente su profili di merito, del tutto incompatibili con il rigoroso perimetro entro il quale è consentito il sindacato di legittimità. A proposito, infatti, della mancata concessone delle circostanze attenuanti generiche, i giudici dell’appello hanno esibito un’ampia, dettagliata e del tutto esauriente motivazione in ordine alle plurime e non certo evanescenti circostanze di fatto alla stregua delle quali si è ritenuto di dover confermare il giudizio negativo sulla personalità dell’imputato e sulla natura e gravità del fatti, ostativi alla applicazione delle attenuanti non scritte, smentendo la sussistenza dei positivi elementi invece prospettati dal ricorrente, in forza, peraltro, di un costrutto argomentativo essenzialmente assertivo. A proposito, invece, delle critiche che lo stesso ricorrente muove alla motivazione offerta dai giudici a quibus in ordine alla gestione del conto "(OMISSIS)", il relativo motivo di ricorso si limita a proporre una ricostruzione della vicenda in termini alternativi a quella offerta dai giudici di entrambi i gradi di merito, senza porre in risalto aspetti critici o aporie logico-argomentative realmente emergenti dal testo del provvedimento impugnato, al contrario puntuale e diffuso nella enucleazione degli elementi – tutti processualmente accertati e criticamente ricomposti – alla cui stregua ha parametrato il giudizio in ordine alle varie dinamiche che hanno contrassegnato la gestione di tale conto estero, indubbiamente centrale per la disamina dei fatti e delle responsabilità.
Non diversa la sorte cui va incontro anche il nono motivo del ricorso del L., posto che il ricorrente, anche in questa circostanza, si concentra nel disarticolare il discorso giustificativo posto a base dello statuto di condanna, quale, ad esempio, quello fondato sull’univoco tenore della scrittura privata tra il G. ed il C. rinvenuta in sede di perquisizione, evocando altre emergenze probatorie secondo una prospettiva intrisa di apprezzamenti di merito, o di valutazioni di ordine logico, peraltro tutte ribaltabili, ove non condivise – come i giudici dell’appello hanno più che motivatamente ritenuto di non poter condividere – nella loro portata "dimostrativa" o nella base fattuale che ne ha costituito il sostrato. Un motivo, dunque, tanto diffuso quanto non scrutinabile, proprio perchè contenutisticamente eccedente il pur dedotto vizio di legittimità.
A proposito, poi, dell’ultimo motivo del ricorso del L., relativo alla mancata astensione dei giudici dell’appello per aver due componenti del collegio deciso un procedimento avente ad oggetto il sequestro di beni in danno dello stesso imputato, la doglianza è manifestamente infondata, in quanto la eventuale omessa astensione del giudice – a prescindere da qualsiasi rilievo in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti, solo assertivamente evocati dal ricorrente – non determina alcun vizio del procedimento, non incidendo essa sulle condizioni di capacità del giudice, e potendo dar luogo soltanto al rimedio della ricusazione (cfr., ex multis, Cass., Sez. 5, 12 marzo 2010, n. 13593, Bonaventura).
Quanto alle doglianze enunciate nel ricorso rassegnato nell’interesse del G., le stesse si muovono sulle medesime tracce già solcate da altri ricorsi e dunque da ritenersi infondate per le ragioni già esposte. Si dissolve, quindi, la fondatezza del rilievo secondo il quale il L. si sarebbe limitato a trasferire all’estero il prezzo della vendita di quote e partecipazioni di sua esclusiva spettanza – alla luce dei motivati rilievi in fatto che i giudici a quibus hanno offerto sul punto e che il ricorrente contesta sulla base di censure che non fuoriescono dall’alveo del merito – così come appare inconferente l’assunto secondo il quale non sussisterebbe interesse alcuno del C. e, di riflesso, del L., a mantenere la fittizia intestazione delle partecipazioni societarie dopo la morte di C.V.. La tesi, infatti, oltre che fondata su profili meramente congetturali, si scontra proprio con l’esigenza di precludere l’accertamento della "storia" che aveva contrassegnato le vicissitudini societarie e i numerosi passaggi che avevano subito i diversi cespiti di attività, nella logica – fin troppo evidente – di "camuffare" l’origine di quel patrimonio e la possibilità che esso, nelle successive "trasformazioni" e nei vari reimpieghi, potesse essere assoggettato a novi provvedimenti ablatori, in ragione, anche, delle nuove ipotesi di reato che proprio da quelle condotte di trasformazione e di reimpiego potevano scaturire. Quanto, poi, alla consapevolezza, da parte dell’imputato, non soltanto della "storia" di quelle accumulazioni patrimoniali, ma anche di tutte le vicende successive inerenti anche alla gestione dei conti esteri – in particolare del noto conto "(OMISSIS)" – i giudici del merito hanno offerto una motivazione di ineludibile spessore che univocamente assevera, non soltanto il lungo e stretto rapporto fiduciario intrattenuto dall’imputato con la famiglia CIANCIMINO, quanto – e soprattutto – il ruolo da protagonista che il G. ebbe effettivamente a mantenere in occasione delle numerose operazioni che sono state dedotte in rubrica, ponendo a tal proposito in specifico risalto le univoche risultanze scaturite dalle intercettazioni, dalle dichiarazioni acquisite e dai sequestri operati, con particolare riferimento alla nota scrittura privata di riconoscimento delle intestazioni fiduciarie mantenute dal G. o suoi familiari nell’interesse di C.M., il quale non doveva comparire come formale titolare dei consistenti beni di sua effettiva spettanza.
Ciò svela anche la totale infondatezza dei rilievi mossi in punto di determinazione della pena e di mancata concessione delle attenuanti generiche, avuto riguardo ai motivati rilievi che i giudici dell’appello hanno svolto sul punto.
Per quanto attiene, poi, alla gestione dei conti (OMISSIS) e (OMISSIS), al di là della puntuale ricostruzione delle relative vicende, e della agevole identificazione di chi fossero i soggetti effettivamente interessati alla relativa gestione, la sentenza impugnata offre elementi di univoco significato, anche sul versante dei beni confiscati. Puntualizza, infatti, la decisione oggetto di ricorso, che tra i documenti rinvenuti nella disponibilità del G. e quelli relativi al rapporto bancario denominato "(OMISSIS)", intrattenuti presso l’istituto di credito ABN AMBRO BANK di (OMISSIS), acquisiti in sede di rogatoria internazionale, è stato rinvenuto un documento, datato 9 novembre 2001, redatto dal G. dietro sollecitazione della Banca olandese, per chiarire – dato, questo, significativo, in riferimento alla rilevata scarsa "trasparenza" delle operazioni – la gestione dei rapporti bancari della società POWERCASE ed i passaggi di denaro sui propri conti. La lettera, riepilogando gli investimenti effettuati dal "cliente" – S.E.S. – indica vari investimenti, fra i quali l’acquisto di una villa a (OMISSIS), di un appartamento a (OMISSIS), dell’appartamento di (OMISSIS) (cui si riferiscono le doglianze del C. e della S. in ordine alla confisca, sull’erroneo presupposto che tale acquisto non avrebbe formato oggetto di imputazione D.L. n. 306 del 1992, ex art. 12- quinquies), la società di gestione del negozio del C. in (OMISSIS), la Ferrari Maranello, una Porsche e la imbarcazione ITAMA. Documentazione, quella indicata dai giudici a quibus, che svela la inconsistenza dei rilievi mossi tanto dal G., in punto di responsabilità, che – anche per ciò che attiene alla confisca dell’appartamento (OMISSIS) del C. – dalla S. e dallo stesso C.M., posto che la vicenda relativa alla gestione del conto (OMISSIS) ha espressamente formato oggetto della imputazione di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies contestato ai tre nel capo F).
I reati di cui ai capi A), E) ed F) sono peraltro estinti per intervenuta prescrizione, essendosi la causa estintiva maturata il 30 giugno 2010, ivi compresi i periodi di sospensione. Per quanto concerne l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., comma 2, pur evocata da alcuni ricorrenti, va ribadito che il sindacato di legittimità, ai fini della applicazione della richiamata norma, deve essere circoscritto all’accertamento della sussistenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: sicchè, la conclusione può essere favorevole all’imputato solo se la prova della insussistenza del fatto o della estraneità ad esso dell’imputato medesimo risulti evidente, sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini e di ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo il quale la operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui essa interviene, non può essere ritardata. Qualora – come nella specie, ed alla luce dei rilievi già svolti – il contenuto della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 cod. proc. pen., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, deve prevalere l’esigenza della definizione immediata del processo. In presenza di una causa di estinzione del reato, dunque, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "contestazione", ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento. L’esatto contrario, dunque, di quanto è dato riscontrare nel caso di specie, ove fatti e responsabilità possono ritenersi congruamente acclarati. Non senza trascurare, d’altra parte, che, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili, in sede di legittimità, vizi di motivazione della sentenza (nel frangente, come si è detto, ampiamente dedotti dai ricorrenti), in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (ex plurimis, Cass., Sez. un., 28 maggio 2009, n. 35490, Tettamanti).
Alla declaratoria di estinzione dei reati anzidetti segue l’annullamento senza rinvio in parte qua della sentenza impugnata e la eliminazione del relativo trattamento sanzionatorio nei confronti del L., del C. e del G., con determinazione della nuova misura della pena: operazioni, queste, che non comportano rinvio, in quanto il nuovo trattamento sanzionatorio può essere stabilito direttamente da questa Corte, alla stregua delle statuizioni adottate sul punto dai giudici del merito. Detratta, dunque, nei confronti del L. la pena di anni due e mesi quattro di reclusione; nei confronti del C. di mesi cinque e giorni dieci di reclusione, e nei confronti del G. di mesi otto di reclusione, la pena complessiva nei confronti dei predetti, può così statuirsi: quanto al L., in anni due e mesi otto di reclusione ed Euro 800 di multa; quanto al C. in anni due, mesi dieci e giorni venti di reclusione ed Euro 2.000 di multa;
quanto al G., in anni quattro e mesi otto di reclusione ed Euro 2.666 di multa. Il L. va altresì condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili D.M., B.A. e B.M. che si liquidano come da dispositivo. Nel resto, i ricorsi vanno rigettati e conseguentemente va confermata la sentenza impugnata, ivi comprese le disposizioni inerenti alle confische nei confronti di tutti gli imputati, essendo risultate prive di fondamento – per quel che si è già osservato – le doglianze espresse in proposito dai ricorrenti interessati da quei provvedimenti.
A quest’ultimo proposito, nel ricorso del L., in particolare, ma con accenti presenti anche nelle censure devolute dal C. e dalla S., si fa leva sulla intervenuta prescrizione dei reati loro rispettivamente contestati ai capi A), E) ed F), per reputare illegittima la confisca di beni, difettando il requisito della pronuncia della sentenza di condanna, al lume dei più recenti approdi cui è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte, espressasi sul punto anche a Sezioni unite.
Con sentenza del 10 luglio 2008, n. 38834, P.M. in proc. Di Maio, le Sezioni unite di questa Corte hanno, infatti, affermato il principio secondo il quale l’estinzione del reato preclude la confisca delle cose che ne costituiscono il prezzo, prevista come obbligatoria dall’art. 240 c.p., comma 2, n. 1. Vale la pena, però, di scandagliare la ratto deciderteli di tale pronuncia, avuto riguardo, anche, agli apporti successivi della giurisprudenza di legittimità sul tema controverso. Nella richiamata decisione, le Sezioni unite hanno infatti premesso che deve condividersi la interpretazione secondo la quale la formula normativa "è sempre ordinata" – che compare nell’art. 240 c.p., comma 2, – si contrappone a quella "può ordinare" di cui al comma 1, fermo rimanendo il presupposto "nel caso di condanna", sancito dallo stesso primo comma, ed espressamente derogato soltanto con riferimento alle cose di cui al n. 2) del secondo comma: l’avverbio "sempre", dunque, è finalizzato a contrapporre la confisca obbligatoria a quella facoltativa, ma non ad escludere la necessità della condanna. E’ stata invece ritenuta non condivisibile la tesi secondo la quale l’inciso "anche se non è stata pronunciata condanna", enunciato nell’art. 240 c.p., comma 2, n. 2), debba essere riferito anche alla previsione di cui al numero 1), posto che la topografia della norma e la netta scansione tra numeri ben distinti, impedisce una lettura siffatta, per legittimare la quale il legislatore avrebbe dovuto far precedere alle descrizioni dei numeri, quale esordio del capoverso, l’inciso "anche se non è stata pronunciata condanna" dopo quello "è sempre ordinata la confisca".
A sua volta, la disposizione dell’art. 236 cod. pen. – evocata a sostegno della tesi non accolta dalle Sezioni unite – che rende inapplicabili alla confisca le disposizioni di cui all’art. 210 cod. pen., secondo il quale "l’estinzione del reato impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l’esecuzione", si limita ad enunciare un principio di carattere generale che lascia il legislatore libero di stabilire in quali casi tale effetto preclusivo si realizzi anche con riferimento alla confisca: tant’è che è lo stesso art. 240 cod. pen. – oltre a varie leggi speciali – a determinare, appunto, in quali casi è necessaria una condanna per applicare la confisca. La pronuncia in esame ha peraltro conclusivamente osservato che "l’obiettivo perseguito dal legislatore con la confisca è sempre più quello di privare l’autore del reato dai vantaggi economici che da esso derivano. Pertanto, considerando l’evoluzione della legislazione in materia e la sempre più ampia utilizzazione dell’istituto della confisca al fine di contrastare i più diffusi fenomeni di criminalità, si può dire che – ha puntualizzato la sentenza – in caso di estinzione del reato, il riconoscimento al giudice di poteri di accertamento al fine dell’applicazione della confisca medesima non possono dirsi necessariamente legati alla facilità dell’accertamento medesimo e che, quindi, tale accertamento possa riguardare non solo le cose oggettivamente criminose per loro intrinseca natura (art. 240 c.p., comma 2, n. 2), ma anche quelle che sono considerate tali dal legislatore per il loro collegamento con uno specifico fatto reato".
Considerazioni, queste, che se non consentivano di mutare l’indicato principio di diritto, venivano comunque prospettate "quale motivo di riflessione per il legislatore". Una pronuncia, dunque, focalizzata, oltre che sulla analisi testuale e sistematica della normativa di riferimento, anche sulla ritenuta compatibilità teorica tra estinzione del reato e accertamento dei presupposti per la applicazione della misura della confisca, a prescindere dalle difficoltà che tale accertamento possa presentare. Il punto è, per quel che si dirà, di centrale rilievo, giacchè è proprio il tema dell’accertamento quello che costituisce l’indiscutibile punto di collegamento – e di frizione – tra gli enunciati normativi contenuti nel codice di diritto sostanziale ed i riflessi che se ne devono trarre sul piano squisitamente processuale.
D’altra parte, non pare senza significato neppure la ragione di fondo che anima una successiva decisione, in cui questa Corte ha ritenuto di non aderire alla tesi sposata invece dalle Sezioni unite. Con sentenza di questa stessa Sezione del 24 agosto 2010, n. 32273, rie.
Pastore (Mass. Uff. n. 248409), si è infatti affermata la possibilità della confisca nei casi di confisca obbligatoria a norma dell’art. 240 c.p., comma 2, n. 1) e del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, pure nella ipotesi di estinzione del reato, ancora una volta facendo leva sul combinato disposto degli artt. 210 e 236 cod. pen.. "Del resto – si è osservato – la misura di sicurezza della confisca obbligatoria rispende ad una duplice finalità, ossia quella di colpire il soggetto che ha acquisito i beni illecitamente e quella di eliminare in maniera definitiva dal mondo giuridico e dai traffici commerciali valori patrimoniali la cui origine risale all’attività criminale posta in essere, essendo il provvedimento ablativo correlato ad una precisa connotazione obiettiva di illiceità che investe la res determinandone la pericolosità in sè". Ma ciò che maggiormente rileva, ai fini dell’odierno scrutinio, è l’affermazione per la quale "l’indirizzo giurisprudenziale proposto ammette la proiezione della cognizione del giudice sul tema della confisca: nel senso che la confisca disposta nel caso di estinzione del reato è subordinata all’esistenza, da accertarsi dal giudice, del fatto costituente reato, trattandosi di indagine che non investe questioni relative all’azione penale, bensì soltanto l’applicazione di una misura di sicurezza, sottratta all’effetto preclusivo della causa estintiva" (v. anche Cass., Sez. 1, 4 dicembre 2008, n. 2453, Squillante, relativa ad un caso di estinzione del reato dichiarata con provvedimento di archiviazione).
Ancora una volta, dunque, seppure in una prospettiva opposta a quella additata dalle Sezioni unite, il punto nodale è rappresentato dalla concreta verifica dei presupposti per l’adozione del provvedimento di confisca, quali la riscontrata sussistenza del fatto reato e della correlazione normativamente qualificata che i beni da assoggettare al provvedimento ablatorio devono presentare rispetto ad esso. Un punto, questo, che d’altra parte è significativamente ben presente anche laddove la giurisprudenza ha inteso, invece, seguire l’orientamento delle Sezioni unite, affermando che l’estinzione del reato per prescrizione impedisce la confisca, pur prevista come obbligatoria, delle cose che ne costituiscono il prezzo, proprio perchè "la misura ablativa è prevista non in ragione dell’intrinseca illiceità delle stesse, bensì in forza del loro peculiare collegamento con il reato, "il cui positivo accertamento è necessario presupposto" (Cass., Sez. 6, 9 febbraio 2011, n. 8382, Ferone).
Dunque, la "condanna" funge da presupposto, non in quanto categoria astratta, ma quale termine evocativo proprio di quell’"accertamento" che ontologicamente giustifica, sul piano normativo, la sottrazione definitiva del bene, in quanto proveniente dal reato.
Tale assunto, d’altra parte, si pone in linea con la ratio dell’istituto, quale desumibile dagli stessi lavori preparatori del codice penale. "La confisca – puntualizzava, infatti, la Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, 1^, pag. 245 – consiste nella eliminazione di cose che provengono da fatti illeciti penali, o in alcuna guisa collegandosi alla loro esecuzione, mantengono viva l’idea e l’attrattiva del reato". Gustificandosi, poi, nella Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo, la confiscabilità non soltanto del prodotto ma anche del profitto del reato, con il rilievo che "le utili trasformazioni dell’immediato prodotto del reato, gli impieghi redditizi del denaro di provenienza delittuosa non debbono, nè possono impedire che al colpevole venga sottratto ciò che era precisamente obbietto del disegno criminoso e che egli sperava di convertire in mezzo di maggior lucro e di illeciti guadagni" (v. Relazione, pag. 280).
Alla stregua di tali rilievi, può quindi dedursi che, ciò che viene posto a fulcro della disciplina codicistica, non è il rinvio ad un concetto di "condanna" evocativo della categoria del giudicato formale, ma – più concretamente – il richiamo ad un termine che intende esprimere un valore di equivalenza rispetto all’accertamento definitivo del reato, della responsabilità e del nesso di "pertinenzialità" che i beni oggetto di confisca devono presentare rispetto al reato stesso: a prescindere, evidentemente, dalla "formula" con la quale il giudizio viene ad essere formalmente definito. Un assunto, questo, che, a ben guardare, consente di escludere, fra l’altro, la irragionevole identità di trattamento (sul piano della medesima preclusione alla confisca) che verrebbe ad essere riservata alle ipotesi in cui la causa di estinzione del reato intervenga (come nella presente vicenda processuale) quando le statuizioni di condanna adottate dai giudici del merito hanno integralmente cristallizzato lo scrutinio su responsabilità e collegamento tra beni e reato, rispetto alle ipotesi in cui la causa estintiva sia stata dichiarata, ad esempio, già con la sentenza di primo grado (come nella vicenda che ha dato origine alla pronuncia delle Sezioni unite, innanzi ricordata), senza alcuna concreta verifica degli accennati presupposti.
Per altro verso, appare addirittura dirimente la circostanza che, proprio con riferimento alla confisca di cui al D.L. n. 306 del 1990, art. 12-sexies, il legislatore abbia ritenuto di dover espressamente precisare, con riferimento ai casi di confisca ivi previsti, che gli stessi trovano applicazione "nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 c.p.p.": una previsione, questa, che sta appunto a dimostrare come per la estensione alle sentenze di "patteggiamento" di quei casi di confisca fosse necessaria una espressa previsione normativa, proprio perchè – a differenza che nella "condanna" – quelle sentenze non presuppongono un accertamento pieno di responsabilità. Il che consente, evidentemente, di trarre la proposizione reciproca, per la quale la locuzione "condanna" assume, agli effetti della confisca, il valore di pronuncia che irrevocabilmente attesti la sussistenza del reato e della relativa responsabilità.
Ebbene, nella specie, la causa estintiva dei reati è intervenuta dopo la pronuncia di condanna, tanto in primo che in secondo grado, ed in un contesto in cui i motivi di impugnazione, proposti dai ricorrenti cui si riferisce la causa estintiva, vanno reputati, per quel che si è detto, come infondati. I ricorsi, in quanto ammissibili, non precludono, pertanto, l’intervento della causa estintiva, ma la relativa infondatezza non è in grado di determinare, da parte di questa Corte, una pronuncia rescindente che incida sulla "sostanza" dei precedenti giudizi. Quindi, le statuizioni adottate dai giudici del merito in punto di accertamento dei fatti-reato, delle responsabilità e della illecita provenienza dei beni sottoposti a confisca si sono definitivamente "cristallizzate", al punto da vanificare, contenutisticamente, la stessa presunzione di non colpevolezza: il che giustifica, pertanto, il soddisfacimento dei fini di garanzia di accertamento pieno, che il termine "condanna" è volto ad assicurare nel quadro della confisca, quale necessario presupposto del provvedimento ablatorio.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza nei confronti di L. G. in ordine al reato sub A), nei confronti di C. M. e G.G. in ordine ai reati sub E) ed F), nei confronti di S.E.S. in ordine al reato sub F), per essere tutti detti reati estinti per intervenuta prescrizione.
Elimina le relative pene, quanto al L. di anni due e mesi quattro di reclusione;
quanto al C. di mesi cinque e giorni dieci di reclusione;
quanto al G. di mesi otto di reclusione.
Determina pertanto la pena complessiva, quanto al L., in anni due e mesi otto di reclusione ed Euro 800 di multa; quanto al C. in anni due, mesi dieci e giorni venti di reclusione ed Euro 2.000 di multa; quanto al G. in anni quattro, mesi otto di reclusione ed Euro 2.666 di multa.
Condanna L.G. alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado dalle parti civili D.M., B. A. e B.M., che liquida in complessivi Euro 2.050,00 di cui 2000,00 per onorari, oltre IVA e CPA. Rigetta nel resto i ricorsi e per l’effetto conferma l’impugnata sentenza ivi comprese le disposte confische nei confronti di tutti gli imputati.
Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2011.
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