Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 3.3.2011 la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Milano che, in data 28.7.2010, aveva condannato alla pena di anni 2 di recl. ed Euro 4.000,00 di multa, B.A. per il reato di appropriazione indebita aggravata (capi 1 e 2) commessa in concorso con M.L., F.G., S.S. e BO.Gi. in danno della Banca Popolare di Lodi e per il delitto di ricettazione (capi 5- 6) sempre in danno della stessa Banca.
Per una migliore comprensione dei fatti, si ritiene opportuno riportare sia i capi di imputazione contestati all’imputato sia la esposizione dei fatti medesimi contenuta nelle decisioni dei Giudici del merito, significando fin d’ora che la sentenza della Corte di Appello ha riportato le parti salienti di quella di primo grado e ha dato atto di motivare per relationem con riguardo alle questioni che non contenevano elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e disattesi dal primo giudice, sicchè le due decisioni devono considerarsi come un unicum inscindibile.
– LE IMPUTAZIONI B.A. (capi 1 e 2 in concorso con M.L. separatamente giudicata).
1) del reato di cui agli artt. 110 e 646 c.p., art. 61 c.p., nn. 7 e 11, perchè, in concorso tra loro, nonchè con F.G. e BO.Gi., all’epoca rispettivamente Amministratore Delegato e Direttore Finanziario di Banca Popolare di Lodi, per procurare a sè un ingiusto profitto, si impossessavano della somma di Euro 300.000,00 di cui avevano il possesso. In particolare il BO., dietro indicazione del F. (al quale il B. aveva fatto richiesta di denaro) imposta va una operazione di mercato con la quale vendeva una opzione put su azioni TIM ordinarie dalla quale derivava un upfront di Euro 3.400.000,00 di spettanza di B.P.L. che invece suddivideva tra vari correntisti, tra i quali M. L., (titolare del c/c (OMISSIS)), la quale poi trasferiva la somma anzidetta (Euro 300.000,00) sul c/c (OMISSIS) intestato al B..
Con l’aggravante di aver cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità.
Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera. In (OMISSIS).
2) del reato di cui agli artt. 110 e 646 c.p., art. 61 c.p., nn. 7 e 11, perchè, in concorso tra loro, nonchè con F.G. e BO.Gi., all’epoca rispettivamente Amministratore Delegato e Direttore Finanziario di Banca Popolare di Lodi, per procurare a sè un ingiusto profitto, si impossessavano della somma di Euro 127.596,03 di cui avevano il possesso. In particolare il BO., dietro indicazione del F. (al quale il B. aveva fatto richiesta di denaro) imposta va una operazione di mercato con la quale vendeva una opzione put su azioni Autostrade s.p.a. ordinarie dalla quale derivava un up front di spettanza di B.P.L. che invece suddivideva tra vari correntisti, tra i quali M.L., (titolare del c/c (OMISSIS)), la quale poi trasferiva quasi integralmente la somma anzidetta (Euro 124.000,00) sul c/c (OMISSIS) intestato al B..
Con l’aggravante di aver cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità.
Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera. In (OMISSIS).
B.A..
5) del reato di cui all’art. 648 c.p. perchè, al fine di procurare a sè stesso un profitto, riceveva la somma di Euro 200.000,00 in contanti, provento del delitto di appropriazione indebita commessa da F.G., da S.S. e da BO.Gi.
(nei cui confronti si procede per tale reato davanti all’Autorità giudiziaria di Milano) in danno di Banca Popolare di Lodi. In particolare il F. (che con S. e BO. aveva un accordo per la spartizione tra loro e alcuni clienti compiacenti di plusvalenze realizzate con risorse della banca) dava disposizione allo S. (che fungeva da cassiere in relazione alle somme in tal modo generate) di consegnare la somma anzidetta a un suo fiduciario ( P.D.) il quale ultimo la recapitava in busta chiusa al B., che lo attendeva presso l’autogrill di (OMISSIS). In (OMISSIS);
6) del reato di cui all’art. 648 c.p. perchè, al fine di procurare a sè stesso un profitto, riceveva la somma di Euro 200.000,00 in contanti, provento del delitto di appropriazione indebita commessa da F.G., da S.S. e da BO.Gi.
(nei cui confronti si procede per tale reato davanti all’Autorità giudiziaria di Milano) in danno di Banca Popolare di Lodi. In particolare il F. (che con S. e BO. aveva un accordo per la spartizione tra loro e alcuni clienti compiacenti di plusvalenze realizzate con risorse della banca) dava disposizione allo S. (che fungeva da caliere in relazione alle somme in tal modo generate) di recapitargli la somma anzidetta (all’interno di una busta) nel suo ufficio; poi la consegnava al B.. In (OMISSIS).
– LE DECISIONI DI MERITO. I Giudici del merito hanno dato conto che il presente procedimento traeva origine da una più ampia indagine che aveva riguardato ipotesi di reato diverse da quelle in esame e soggetti differenti dall’odierno imputato, indagine che aveva portato alla luce irregolarità compiute nella gestione dei fidi e nell’area finanza della Banca Popolare di Lodi dai vertici dell’istituto ed, in particolare, dall’amministratore delegato F.G., e dal direttore finanziario Bo.Gi..
All’attività di indagine svolta dalla polizia si era affiancata un’ispezione disposta dalla Banca di Italia che, a decorrere dal momento in cui F. e Bo. – raggiunti da un’ordinanza applicativa di una misura cautelare interdittiva – avevano rassegnato le dimissioni, si era avvalsa della collaborazione del servizio di internai auditing della banca che, per quanto riguarda il caso in argomento, aveva contribuito a redigere un atto di ricognizione della operatività in strumenti finanziari posta in essere da M. L. sui rapporti da lei intrattenuti con la BPL. Dall’indagine svolta emergeva che il 17/9/2003 era stato proposto un fido di cassa in favore della M. per l’importo di Euro 300.000,00 con apertura di un nuovo conto corrente ((OMISSIS)) presso la sede di Firenze della BPL e che tale operazione era stata autorizzata con delibera dell’amministratore delegato in data 30 settembre 2003. I giudici del merito hanno dato atto che dalla documentazione relativa all’operazione emergeva con evidenza che la proposta di affidamento era basata solamente sulle positive referenze fornite dal regional manager, P.D., in ordine alle potenzialità patrimoniali ed alle capacità imprenditoriali della cliente che risultava, tra l’altro, socia al 50% dell’azienda agricola Casoretto il cui valore immobiliare era stimato in circa tre milioni di Euro. Non risultava che la banca – e, per essa, i funzionali che avevano proposto e deliberato la concessione di un fido di cassa di così significativo importo – avessero dato corso ad un’istruttoria prima di autorizzare tale fido. "Debole", con riferimento alla prova dell’avvenuta istruttoria, è stato considerato l’argomento sostenuto dalla difesa che aveva fatto presente come tra la proposta di affidamento e la delibera favorevole erano decorsi circa dieci giorni e che all’imputata era stata addebitata la somma di Euro 387,36 a titolo di "spese istruttoria di una linea di credito".
Veniva sottolineato come tutte le risultanze delle indagini (dichiarazioni F., confermate da BO. e da P.) deponevano univocamente in senso diverso e consentivano di affermare che, in realtà, nessuna istruttoria era stata compiuta e che il rapporto sottostante non era reale. Il conto corrente affidato intestato a M.L., moglie del B., era stato acceso per "salvaguardare esigenze di riservatezza connesse alla posizione" di quest’ultimo. Negli anni l’imputato aveva avviato attività imprenditoriali attraverso società di cui era socio e che erano affidate da BPL ed, in particolare, tramite la PLASTECOPACK aveva ottenuto dalla banca un fido per la cui concessione era stata chiesta in garanzia una fideiussione personale dei soci. La società, dopo un breve periodo di attività, era andata in perdita e l’istituto, dopo aver tentato di escutere la fideiussione, era giunto ad un accordo transattivo con il cliente che, comunque, aveva dovuto sborsare una considerevole somma di denaro. Per questo il B. aveva chiesto a F. di fargli "guadagnare qualche soldo" in modo da poter recuperare la perdita subita e questi lo aveva "affidato" a Bo. per fargli realizzare utili in Borsa.
Occorreva però "escogitare" un espediente che consentisse al B. di avere un trattamento differenziato rispetto agli altri garanti senza che questi ne avessero la percezione e, nel contempo, di fargli recuperare velocemente la perdita derivante dal pagamento della fideiussione. L’apertura di un conto affidato per Euro 300.000,00 intestato a M.L. presso la filiale di Firenze serviva a tale scopo. Su tale conto venivano fatte transitare, per il successivo bonifico sul conto del B., le somme di proprietà della banca derivanti dalla negoziazione di strumenti finanziari derivati, somme provento dei reati di appropriazione indebita contestati ai capi 1) e 2). I giudici hanno evidenziato che al B. era stato riservato un trattamento privilegiato, a differenza di quanto avvenuto per gli altri garanti della posizione debitoria della PLASTEOPACK che erano anche loro clienti di BPL e, probabilmente, clienti di una certa importanza, perchè rivestiva una carica politica cui F. attribuiva un particolare rilievo in quanto interessato ad ottenere la "benevolenza" dei politici nei confronti di BPL, soprattutto da quando aveva dato avvio all’operazione relativa alla cd. "scalata" alla banca Antonveneta.
L’erogazione delle somme oggetto delle contestazioni sub 1) e 2) veniva indicata nelle decisioni di merito come parte di un più generale accordo intervenuto con l’imputato.
Il meccanismo escogitato prevedeva la negoziazione di strumenti finanziari derivati compiuta direttamente dalla banca che generava un utile che non veniva destinato all’istituto ma "dirottato" sui conti correnti dei clienti "privilegiati". A tal fine si stipulavano contratti derivati che generavano un up front che, attraverso il sistema delle cd. "partite viaggianti", veniva accreditato al cliente.
E’ stato evidenziato, in proposito, che il contratto derivato è infatti "un contratto che assegna ad una della parti, dietro il versamento di un premio che costituisce il costo di acquisto, il diritto e non l’obbligo di acquistare (opzione cali) o di vendere (opzione put) una certa quantità di un determinato strumento finanziario (bene sottostante), ad una scadenza fissa (opzioni "Europee") o entro la stessa (opzioni "Americane")". Vup front è, infatti, il provento, l’utilità o il guadagno, che la banca consegue a fronte di una determinata operazione posta in essere sia come intermediario bancario/creditizio sia come soggetto che opera come controparte sul mercato come un vero e proprio investitore. Partite viaggianti sono gli strumenti contabili normalmente utilizzati da BPL per trasferire somme in addebito od in accredito da un ente contabile di iniziativa ad un ente contabile di conferma entrambi interni all’istituto, somme che – nei casi in esame – venivano, invece, immotivatamente "dirottate" sui conti correnti dei clienti.
Le sentenze davano atto che il 13 novembre 2003 la BPL aveva posto in essere con la Banca Akros s.p.a. un contratto derivato avente ad oggetto il diritto di vendere 10.000.000 azioni TIM ordinarie entro la scadenza del novembre 2004: si trattava, quindi, della vendita di un’opzione put cd. "Americana"per la quale BPL aveva ricevuto dalla controparte un upfront di complessivi Euro 3.400.000,00 con valuta in data 6/11/2003. L’up front di cui si è detto sarebbe dovuto entrare, quale utile, nel conto economico della banca ed invece l’ente contabile 7100 TI – che faceva capo alla Divisione Amministrazioni Valori e gestiva la contabilità delle operazioni del tipo di quella sopra descritta – con il sistema della partita viaggiante aveva trasferito la somma all’ente contabile 5100 CG (Direzione Finanza, Borsa e Titoli) che, a sua volta, l’aveva dirottata sui conti correnti di alcuni clienti tra i quali M.L.. In particolare sul c/c intestato all’imputata presso la filiale di Firenze era stato accreditato, con data contabile 7/11/2003, l’importo di Euro 300.000,00 con la causale "netto ricavo opzioni TIM".
Molto simile era stata l’altra operazione che si era conclusa con l’accredito sul c/c della M. dell’importo di Euro 127.596,03.
In questo caso la banca, con regolamento in data 31 ottobre 2003, aveva venduto un’opzione put avente ad oggetto 400.000 azioni Autostrade ordinarie. Il premio incassato, pari alla somma prima indicata, era stato accreditato, il 4 novembre 2003, sul conto corrente intestato alla M. con causale "compravendita titoli e diritti per contanti". Il 19 dicembre 2003 con valuta in pari data veniva disposto un bonifico dal conto corrente della M., in essere presso la filiale BPL di Firenze, a quello intestato al marito esistente presso la stessa filiale per Euro 424.000 pari, quindi, quasi interamente alle somme accreditate alla M. per le "speculazioni mobiliari". E’ stato ancora sottolineato come, nel caso in esame, non fossero state compiute solo delle mere irregolarità contabili, delle quali i coniugi B. non si erano avveduti nè avevano avuto modo di avvedersi, come invece sostenuto dalla difesa.
I Giudici del merito hanno respinto anche la tesi difensiva secondo cui, nella fattispecie, la banca avrebbe utilizzato titoli già presenti nel suo portafoglio, usando così proprie provviste invece che comprarne gli equivalenti con il fido poi concesso alla sig.ra M., operando, in tal modo, una scelta del tutto legittima e, comunque, ignota alla cliente. Nelle decisioni è stato sottolineato che – al di là del fatto che gli investimenti in esame avevano ad oggetto il diritto non di acquistare (opzione cali), ma di vendere (opzione put) strumenti finanziari che non erano di pertinenza dell’imputata – la tesi difensiva non spiegava come mai nelle diverse fasi dell’operazione nessun rischio e nessun costo fosse mai gravato sulla cliente che si era vista accreditare, per la vendita dell’opzione put sui titoli Tim già effettuata all’atto della concessione del fido, l’equivalente dell’intero importo affidato conseguendo, in tal modo, un profitto che non trovava giustificazione in alcun tipo di controprestazione.
E’ stato affermato anche che l’unica spiegazione possibile era proprio quella che l’operazione fosse stata compiuta in nome e per conto di BPL, interamente con provviste economiche dell’istituto e con rischio esclusivamente a suo carico e che, una volta accreditato sull’ente contabile 7100 TI l’importo complessivo dell’upfront poi trasmesso con partita viaggiante all’ente contabile 5100 CG, la somma fosse stata indebitamente sottratta alla banca ed accreditata, per il valore di Euro 300.000 sul c/c intestato alla M., conto che era stato aperto proprio con questa finalità. In sintesi è stato sottolineata la mancanza di qualsiasi "collegamento tra l’operazione in derivati ed i clienti destinatari finali dell’"upfront", circostanza che giustificava il fatto che alla M., come agli altri "beneficiari" dell’operazione non era stata addebitata alcuna somma a titolo di interessi o commissione in favore dell’istituto. Lo stesso BO. aveva spiegato che, in realtà, nessuna importanza aveva il capitale del cliente che poteva essere messo a rischio posto che, se la speculazione non avesse avuto l’esito sperato, avrebbe potuto essere rinnovata anche all’infinito ed i relativi costi sarebbero gravati sulla banca.
I Giudici hanno negato la fisiologia del rapporto intercorso tra la M. e la banca, come invece sostenuto dalla difesa, che aveva evidenziato che dagli estratti conto prodotti era emerso che la banca aveva provveduto ad addebitare interessi debitori e creditori, imposte di bollo, spese di conto corrente, spese di conto affidato ed anche spese per l’amministrazione del dossier titoli. Era infatti stato sottolineato che nel marzo 2004 era stato addebitato sul conto corrente dell’imputata l’importo di Euro 15.949,54 a titolo di imposta sostitutiva ex D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 416, importo che era stato bonificato alla M. – che non aveva la necessaria disponibilità – dal marito cui la donna, come già indicato, aveva, nel dicembre 2003, trasferito quasi per intero le somme derivanti dalle operazioni put Tim ed Autostrade.
I giudici del merito hanno sottolineato ancora che, per quanto riguardava il periodo intercorrente tra l’apertura del conto ed il bonifico disposto in favore del B., dalla documentazione in atti non era emerso che alla M. fossero state addebitate commissioni per le operazioni in titoli. Per quanto concerneva le spese, in qualche modo riferibili alla amministrazione dei titoli, hanno evidenziato che, solo nell’estratto conto del 29/2/2004, erano presenti addebiti genericamente connessi al dossier titoli e, precisamente, Euro 8,52 per "imposta di bollo L. 26/2/94 n. 133, estratto conto titoli dossier" ed Euro 2,60 per "recupero spese per invio estratto conto titoli e spese di amministrazione titoli".
Entrambi gli addebiti erano stati contabilizzati con valuta 31/12/2003, data successiva al bonifico in favore del B., e riguardavano il secondo semestre del 2003.
Hanno considerato, altresì, singolare che, a fronte delle operazioni di ingente valore compiute e del mancato addebito delle relative commissioni, fossero state imputate a debito della cliente solo spese di amministrazione titoli che, per l’importo, erano tali da trovare giustificazione in quelle ordinariamente conteggiate per l’invio dell’estratto conto del relativo dossier. Ritenevano che non doveva sorprendere che alla M. fossero state addebitate modeste cifre per imposta di bollo o per " estratto conto titoli dossier", o per "conto corrente" in quanto il rapporto di conto corrente era stato effettivamente istaurato così come realmente era stato creato un dossier titoli collegato a detto conto con conseguente addebito della relativa imposta di bollo. Quello che era oggetto di causa non era l’effettività del conto corrente ma le motivazioni sottostanti alla sua apertura, la "strumentalità" della linea di credito concessa e l’utilizzo che del conto era stato fatto come "contenitore" temporaneo di somme di proprietà della banca, destinate ad essere "girate" al B.. Come pure ciò che la banca lamentava non era di non aver avuto contezza dell’esistenza del conto corrente ma, bensì, del fatto che su quel conto erano stati effettuati movimenti ed accrediti di importi non di pertinenza della cliente. A ciò si aggiungeva un ulteriore elemento: il bonifico effettuato il 19/12/2003 dalla M. sul conto del marito di una somma pari, quasi, all’intero utile delle operazioni che le avevano fatto guadagnare, in due mesi dall’apertura del conto corrente, poco più di 427.000,00 Euro. Cosi regolandosi l’imputata aveva privato di effettiva provvista il proprio conto corrente, al punto che aveva avuto necessità di ricevere un bonifico dal coniuge per far fronte al debito di imposta, senza curarsi del fatto che era forse opportuno che almeno il ricavato della vendita dell’opzione put della azioni TIM ordinarie – pari all’importo affidato – restasse depositato per darle la possibilità, nel caso in cui ulteriori speculazioni avessero avuto esito negativo, di rientrare nell’affidamento che, comunque, era destinato a scadere, seppure nel marzo 2005.
Con riguardo alla sussistenza del reato di appropriazione è stato evidenziato che era palese che la condotta dei funzionari non era nell’interesse della banca e tendeva, unicamente, a distrarre a profitto del B. – per il tramite del conto corrente della moglie che era stata affidata senza alcuna garanzia – somme di proprietà dell’istituto. In proposito i giudici del merito hanno ricordato quanto emergeva non solo dalle dichiarazioni di F. e di Bo. ma anche dalle testimonianze di P. e dai promemoria da lui redatti per l’A.D. L’intera operazione era motivata dalla necessità di coprire l’esposizione debitoria dell’imputato in conseguenza della fideiussione, che si doveva necessariamente escutere, per non far apparire che gli era stato riservato un trattamento diverso da quello realizzato nei confronti degli altri garanti. Per ottenere questo risultato si era reso necessario accendere un conto corrente intestato personalmente alla M., persona estranea alla vicenda Plasteopack – e, come tale, non "raggiungibile" dai sospetti degli altri clienti la cui fideiussione era stata escussa e da loro non "rintracciabile" posto che il rapporto di c/c era stato aperto presso una filiale diversa da quella di Lodi -, conto sul quale era stato concesso l’affidamento in chiara violazione dei regolamenti interni e, soprattutto, in aperto contrasto con le minime garanzie richieste per il compimento di operazioni di importo così significativo e, quindi, ad alto rischio per la banca.
E’ stato evidenziato, altresì, come doveva essere esclusa sia l’irrilevanza penale dei comportamenti posti in essere dalla M. (apertura del conto corrente e richiesta di fido) sia la sua buona fede derivante dalla asserita mancata conoscenza del preciso contenuto dell’operazione che si andava a compiere anche in considerazione del fatto che, nel caso in esame come in tutti gli altri in cui si erano poste in essere – col concorso dei clienti – condotte appropriative in danno della banca, si era provveduto a far aprire al cliente un conto corrente ad hoc sul quale operare per portare a termine il disegno perseguito.
E’ stato sottolineato, ancora, come le circostanze evidenziate non esaurivano il merito della vicenda perchè nella fattispecie l’appropriazione indebita si era attuata anche con altro mezzo:
l’accredito, mediante il sistema delle partite viaggianti, sul predetto conto corrente di disponibilità di pertinenza della banca in quanto costituenti l’up front di operazioni in derivati compiute a nome e per conto della banca stessa e che, quindi, dovevano essere depositate sul conto economico. In tal modo si era realizzata una delle forme tipiche del reato in contestazione: l’appropriazione indebita per distrazione. I funzionari di BPL, difatti, avevano "dirottato" sul conto della M. somme dell’istituto delle quali avevano incontestabilmente il possesso, posto che ne avevano potuto disporre nel modo sopra detto, sottraendole al potere di gestione e di disponibilità dell’istituto, il cui patrimonio era stato, in tal modo, depauperato. I coniugi B., dal canto loro, avevano partecipato alla commissione del reato secondo gli ordinali criteri di imputazione a titolo di concorso contribuendo all’accordo iniziale finalizzato all’appropriazione, accendendo il conto corrente "di transito" e chiedendone l’affidamento – attività che nel quadro descritto non sono di certo penalmente irrilevanti -, ricevendo su tale conto un attivo non dovuto ed, infine, trasferendo sul conto di reale destinazione (quello del B.) il ricavato.
Il bonifico effettuato dalla M. sul conto del marito, "chiudeva il cerchio" dimostrando come l’operazione, effettuata solo un mese dopo l’avvenuto accredito sul suo conto delle somme di proprietà della banca, era l’unico, e definitivo, movente dell’operazione. Solo quando è venuta alla luce l’intera vicenda l’imputata si era decisa a restituire, in via transattiva, il denaro ricevuto per l’operazione descritta al capo 1) rendendo alla banca non l’importo dell’affidamento, ma la somma di cui si era indebitamente appropriata.
Le circostanze evidenziate e le argomentazioni svolte hanno, così, consentito ai giudici del merito di superare agevolmente i rilievi sollevati dalla difesa in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. E’ stato posto in rilievo come non si poteva certo discutere di buona fede, derivante dalla fiducia totale nelle capacità di F. e Bo. e dalla asserita "ignoranza" relativa alle negoziazioni in derivati, quando la richiesta avanzata ai complici all’interno di BPL e la reale motivazione dell’intera operazione era solo quella di ottenere, interamente, subito ma – soprattutto – in maniera occulta il denaro necessario per assicurarsi, a seguito della vicenda plasteopack, un trattamento differenziato rispetto agli altri garanti. Hanno negato i giudici di merito che, nel caso in esame, fosse configurabile in luogo del reato di appropriazione indebita quello previsto dall’art. 2634 c.c. introdotto con il D.Lgs. n. 61 del 2002, art. 1 recante "Nuove disposizioni sugli illeciti penali ed amministrativi in materia di società e consorzi ", da ritenere norma speciale rispetto a quella generale ex art. 646 c.p.. Hanno posto in debito rilievo come la questione del rapporto intercorrente tra tale disposizione e quella di cui all’art. 646 c.p. era stata più volte affrontata non solo dalla dottrina ma anche dalla giurisprudenza che aveva costantemente affermato che tra le due norme sussiste un rapporto di specialità reciproca. Hanno richiamato, sul punto, i principi dettati dalla Corte di Cassazione e hanno sottolineato, in proposito, come le differenze fra i due reati non giustificavano l’accoglimento della tesi difensiva che riteneva applicabile nel caso in esame unicamente il delitto di infedeltà patrimoniale sul presupposto che, proprio alla luce delle diversità segnalate, la fattispecie di cui all’art. 646 c.p. si caratterizzava solo "per difetto" degli elementi "specializzanti" previsti dall’art. 2634 c.c. per l’integrazione della fattispecie.
Alla luce dei principi dettati dalla Corte di Cassazione e delle altre considerazioni svolte sulla natura e sugli elementi costitutivi dei due delitti, i giudici del merito hanno affermato che l’ipotesi di cui all’art. 646 c.p., era relativa ai casi in cui, in assenza di un preesistente conflitto di interessi, l’amministratore compia atti appropriativi di denaro od altra cosa mobile della società al fine di profitto proprio o di altri senza essere assistito dal dolo intenzionale di arrecare danno all’ente. E ritenevano che ciò era accaduto nel caso in esame in cui non sussisteva un preesistente interesse dei vertici di BPL in contrasto con quelli dell’istituto – interesse che, peraltro, avrebbe dovuto essere connotato da oggettiva valutabilità, effettività ed attualità – e l’operazione era stata pensata, organizzata e realizzata unicamente per procurare al B. un profitto ingiusto in quanto non dovuto e, comunque, realizzato con uno strumento antigiuridico (gli atti appropriativi) ma non con il dolo intenzionale di cagionare danno alla banca.
E’ stato, infine, sottolineato – come già si è accennato in precedenza – che l’erogazione delle somme oggetto delle contestazioni sub 1) e 2) era parte di un più generale accordo intervenuto con il B. che, secondo quanto dichiarato dal F., prevedeva la dazione di ulteriori somme, provenienti da riserve occulte, non transitate sui conti correnti dell’odierno imputato o di sua moglie, ma consegnate direttamente e in contanti. Operazioni che hanno dato origine alle contestazioni del reato di ricettazione.
Con riguardo alle ricettazioni contestate ai capi 5) e 6) la sentenza impugnata – anche richiamando quanto ampiamente esposto dal Giudice di 1 grado – ha affermato che gli atti di indagine avevano accertato l’illecita provenienza del denaro consegnato al B.. In particolare veniva dato conto dei diversi meccanismi utilizzati dal F. e dai suoi complici per dirottare sui clienti privilegiati disponibilità di pertinenza di BPL o di altri soggetti – in particolare correntisti – ovvero somme che erano state sottratte alla tassazione prevista per la plusvalenza delle operazioni su titoli ovvero, ancora, quelle derivanti dalla vendita alla banca di azioni a prezzi superiori a quelli di mercato. Il punto di partenza della complessiva attività criminosa posta in essere dai vertici della banca era l’accordo che intercorreva con i clienti privilegiati, così come spiegato da S. nei vari interrogatori. Il coimputato aveva dichiarato che nel 2001 F. aveva proposto a lui ed a Bo. di "accontentare" alcuni clienti concedendo particolari privilegi con "l’effettuazione di operazioni particolarmente vantaggiose a guadagno garantito e con la retrocessione di parte dei proventi così percepiti" in favore di loro tre. In particolare S. avrebbe dovuto individuare e contattare i clienti e Bo. occuparsi della gestione dei titoli.
Le persone da coinvolgere dovevano essere clienti che avevano in essere più posizioni presso BPL che non venivano "toccate" dall’affare e che, per partecipare all’illecito, aprivano un conto corrente ad hoc sul quale "fare cassa", conto che doveva avere "un affidamento importante finalizzato alla operatività in titoli, la domiciliazione della documentazione bancaria presso la banca stessa e la mancanza di convenzione di assegno bancario". Tali conti solo formalmente intestati ai clienti in realtà, erano nella completa disponibilità dei tre "gestori" dell’attività. In virtù dell’accordo le plusvalenze realizzate con le operazioni venivano retrocesse dai clienti, in una percentuale variabile tra il 40 ed il 60%, a F., Bo. e S. che incassavano parte della somma a proprio profitto destinandone altra alla cd. "cassa nera", un fondo istituito per volontà di F. che, come sostenuto da Bo., in quel periodo era impegnato in un’intensa attività di lobbismo e contava di impiegare il denaro per assicurarsi la benevolenza di personalità di rilievo ed, in particolare, di politici. E’ stato sottolineato dai Giudici del merito che non vi era dubbio che l’attività in argomento era non solo irregolare da un punto di vista contabile, ma anche illecita in quanto posta in essere in danno della banca. Lo stesso F., nel descrivere l’accordo intercorso tra lui, Bo., S. ed i clienti privilegiati, dopo aver detto che l’intesa prevedeva una suddivisione degli utili ma anche delle perdite, aveva aggiunto circostanze atte a dimostrare con evidenza che la clientela selezionata, in realtà, non subiva nè poteva subire alcuna perdita poichè questa veniva immediatamente riparata utilizzando i fondi messi da parte da S. e, cioè, il denaro di proprietà della banca di cui i tre dipendenti si erano appropriati.
E’ stato, ancora, messo in rilievo che proprio dalla complessiva attività di indagine era emerso con evidenza la sussistenza delle condotte appropriative compiute in danno della banca e realizzate con espedienti che consistevano nella creazione di operazioni in derivati con spartizione tra i correntisti dei relativi upfront; nell’apertura di linee di credito senza garanzie allo scopo di eseguire operazioni in titoli; in operazioni in contropartita diretta con la banca a condizioni diverse rispetto a quelle di mercato, con ribaltamento sull’istituto delle eventuali perdite; nel mancato versamento all’Erario di somme dovute a titolo di imposta sul capitai gain e spartizione o reindirizzo delle stesse; in trasferimento di denaro proveniente da altri c/c e depositi titoli. Quanto agli altri espedienti utilizzati, dagli accertamenti effettuati dalla G.d.F. si poteva rilevare che, in alcuni casi, si era operato un cambio temporaneo del conto corrente di appoggio dei dossier titoli di altri clienti nel senso che "il controvalore di alcune operazioni in titoli, anzichè essere imputato al c/c di pertinenza … veniva immotivatamente destinato sui c/c di altri clienti"; in altri si era intervenuto "forzando" il calcolo del capitai gain per sottrarlo alla tassazione oppure, dopo aver addebitato ai clienti non privilegiati l’importo dell’imposta, non provvedendo a versarla all’Erario ed utilizzandola per accreditare la clientela selezionata; in altri, ancora, si erano effettuate operazioni in titoli direttamente con la banca ma a prezzi diversi da quelli di mercato e molto svantaggiosi per l’istituto; in altri, infine, si era provveduto allo storno di operazioni in titoli precedentemente effettuata trasferendoli, a seconda della convenienza per il cliente, da lui a BPL o viceversa.
In sintesi, gli atti di indagine consentivano di affermare con certezza la provenienza dal reato di appropriazione indebita aggravata delle somme depositate da F., Bo. e S. nella cd. "cassa nera" ovvero introitate a loro profitto.
Proprio da tale fondo illecitamente costituito proveniva il denaro, consegnato in contanti ed a più riprese, al B. nelle circostanze descritte ai capi 5) e 6) della rubrica, così come riconosciuto dallo stesso F. e confermato, quanto al primo episodio, dal P. e, quanto al secondo, dallo S., episodi sui quali ci si soffermerà diffusamente nella parte motivazionale della presente decisione.
Sulla base di tali considerazioni, entrambi i Giudici del merito sono pervenuti al giudizio di responsabilità nei confronti del B. in ordine ai reati a lui ascritti.
– I MOTIVI DI RICORSO PER CASSAZIONE. Avverso la sentenza della Corte di Appello, depositata il 16.4.2011, B.A., a mezzo dei suoi difensori di fiducia, presentava, in data 26.5.2011, ricorso per Cassazione deducendo i seguenti motivi.
1 Motivo: violazione dell’art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza oggetto di ricorso ritenuto sussistente la responsabilità dell’imputato in ordine ai reati contestati in assenza di motivazione.
Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata, che ricorre ad una motivazione per relationem, sia affetta da vizio assoluto di motivazione sottraendosi al dovere di valutazione critica del provvedimento appellato. Invero, in relazione all’intero impianto della sentenza impugnata, lamenta la difesa che la Corte di Appello ha a più riprese richiamato e fatto propri gli argomenti del Tribunale erroneamente adducendo a giustificazione di siffatto procedere la legittimità della motivazione per relationem. Rileva in proposito che il rinvio alla precedente decisione da parte del giudice dell’impugnazione non può mai vanificare il mezzo di gravame omettendone la verifica di fondatezza, come è invece accaduto nella specie, con riguardo alle richieste difensive ed ai precisi motivi di censura che erano stati dedotti avverso la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale.
2 Motivo: violazione dell’art. 533 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza oggetto di ricorso ritenuto responsabile il B. oltre il ragionevole dubbio del reato di appropriazione indebita di cui ai capi 1 e 2 nonostante dalla documentazione in atti e dalle dichiarazioni dei coimputati non fossero emersi elementi di prova dell’illiceità delle operazioni poste in essere, previa assenza di motivazione.
Si duole il ricorrente del mancato esame di elementi, anche documentali, significativi, di segno contrario idonei a smentire la tesi difensiva in ordine: alla frettolosità nella concessione del fido, alla effettività del rapporto intercorso fra la M. e la banca, all’illiceità delle operazioni. Vengono richiamate le dichiarazioni rese da BO. in data 22.10.2007 in ordine alla regolarità delle operazioni e sottolineato come tali dichiarazioni sono riscontrate dal rinvenimento del block notes sul quale era stato annotato il capitale che la M. consentiva venisse investito.
Sostiene che l’asserita incompatibilità temporale tra la data di concessione del fido e quella di realizzazione dell’operazione titoli sia frutto di confusione e che comunque se anche la banca avesse operato utilizzando titoli già nel suo portafoglio invece che comperandone di equivalenti con il fido della M. si sarebbe trattato di scelte del gestore BPL, sulla regolarità delle quali non era dato dubitare e che non venivano comunicate alla cliente.
Sottolinea come i fatti si prestino ad una soluzione alternativa secondo la quale la banca in un primo momento aveva comprato i titoli con i propri fondi per poi cederne una parte ai clienti interessati all’opzione put, per i quali, poi – in qualità di intermediaria – aveva positivamente concluso le operazioni accreditando i relativi premi spettanti a ciascun investitore. Contesta anche l’affermazione contenuta in sentenza di assenza del rischio da parte della M. sostenendo che la stessa era frutto di un’errata interpretazione delle dichiarazioni del BO.. Sostiene la regolarità dell’operazione di cui al capo 2) evidenziando come l’international auditing di BPI non aveva riscontrato anomalie e che la Banca non aveva richiesto alla cliente la restituzione. Evidenzia come la sentenza impugnata si sia limitata a richiamare la sentenza di primo grado senza offrire una specifica motivazione.
3 Motivo: violazione degli artt. 110 646 c.p. in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. b) e violazione dell’art. 533 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ravvisato una responsabilità a titolo di concorso del B. per il reato di appropriazione indebita di cui ai capi 1 e 2 per assenza di motivazione.
Lamenta il ricorrente che la sentenza impugnata perviene ad un giudizio di responsabilità concorsuale del B. attraverso una valutazione che investe solo l’elemento soggettivo della partecipazione criminosa trascurando l’aspetto oggettivo.
4 Motivo: violazione degli artt. 110 e 646 c.p. in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. b) e violazione dell’art. 533 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ravvisato una responsabilità a titolo di concorso del B. per il reato di appropriazione indebita di cui ai capi 1 e 2 a fronte dell’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, previa assenza di motivazione. Contesta la ricostruzione operata dalla Corte che non avrebbe risposto a tutte le perplessità avanzate nei motivi d’appello.
5 Motivo: violazione dell’art. 646 c.p. e art. 2634 c.c. in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. b) e violazione dell’art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto sussistente il reato di appropriazione indebita in luogo di quello di infedeltà patrimoniale previa assenza di motivazione.
Lamenta che il giudice d’appello a fronte delle doglianze difensive si è limitato a recepire acriticamente le motivazioni del primo giudice. Ribadisce che nel caso di specie doveva più correttamente trovare applicazione il disposto dell’art. 2634 c.c. considerata la sussistenza dell’elemento specializzante del conflitto di interessi (che nell’ambito societario è intrinseco alla condotta di appropriazione di beni sociali) preesistente rispetto all’atto dispositivo.
6 Motivo: violazione dell’art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto responsabile il B. del reato di cui ai capi 1) e 2) nonostante dalle dichiarazioni dei coimputati e, contraddittoriamente dal testo stesso della sentenza, emerga l’esistenza di uno specifico vantaggio in capo alla persona offesa dal reato di appropriazione indebita, previa motivazione apparente o comunque contraddittoria.
Lamenta il ricorrente che l’interesse della Banca nelle operazioni in argomento emergeva dal testo stesso della sentenza di primo grado che aveva parlato di ricompensa per l’attività lobbistica svolta dal B. in favore della scalata ANTONVENETA da parte di BPL e che a fronte di tali censure la sentenza si era limitata a rilevare la mancanza della prova del concreto vantaggio economico di altra utilità che ne sarebbero conseguiti a favore della banca.
Affermazione alla quale non poteva conferirsi dignità di motivazione anche alla luce della giurisprudenza della Cassazione.
7 Motivo: violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 3, art. 533 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto il B. responsabile del reato di ricettazione di cui al capo 5) oltre il ragionevole dubbio, sulla base delle dichiarazioni del coimputato in assenza di elementi di riscontro, previa motivazione illogica e/o assente. Contesta la credibilità soggettiva e l’attendibilità intrinseca di F. e l’assenza oggettiva di riscontri considerata l’inconciliabilità delle dichiarazioni del coimputato con quanto riferito da P., che collocava l’episodio nel 2000. 8 Motivo: violazione degli artt. 157, 158 e 129 c.p.p. in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per non avere la sentenza impugnata dichiarato estinto il reato sub 5) per intervenuta prescrizione, previa mancanza di motivazione sul punto.
Evidenzia che a fronte dell’incertezza della data del commesso reato (anno 2000 o 2001) per l’indubbio principio del favor rei doveva farsi riferimento alla data più risalente con conseguente prescrizione del reato. Lamenta che la sentenza impugnata si è limitata ad affermare che l’episodio era da collocarsi temporalmente nell’anno 2001. 9 Motivo: violazione degli artt. 192 e 533 c.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto responsabile il B. del reato di ricettazione di cui al capo 6 oltre il ragionevole dubbio, sulla base delle dichiarazioni dei coimputati, in assenza di elementi di riscontro, previa motivazione illogica e/o assente.
Lamenta che il giudizio di responsabilità dell’imputato è stato frutto di un’operazione di ingegneria probatoria e contesta la violazione dei criteri di cui all’art. 192 c.p.p. con riguardo alle dichiarazioni di F. e S. di cui evidenziano le incoerenze e contraddizioni. Sottolinea come i giudici d’appello a fronte di specifiche doglianze si siano limitati a definire "prive di decisività" tali incongruenze e a ritenere che "il racconto di F. riscontrato dalle dichiarazioni di S. che, anche se non sovrapponibili a quelle di F., sono sufficienti a confermare che nell’occasione vi fu una consegna di denaro a B.". 10 Motivo: violazione dell’art. 533 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto responsabile il B. del reato di ricettazione di cui ai capi 5-6 in assenza di elementi di prova certi in ordine alla provenienza illecita delle somme, previa assenza di motivazione.
Lamenta il ricorrente che con i motivi d’appello si era devoluto il tema dell’insussistenza del reato di ricettazione anche sotto il profilo della non confìgurabilità del reato presupposto sostenendo la regolarità delle operazioni e che sul punto la sentenza non aveva offerto alcuna risposta.
11 Motivo: violazione dell’art. 533 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto responsabile il B. del reato di ricettazione di cui ai capi 5-6 a fronte di elementi di prova certi in ordine all’insussistenza del reato presupposto, previa motivazione manifestamente illogica e contraddittoria sia rispetto al testo del provvedimento che rispetto a specifici atti del giudizio. Contesta sul punto le conclusioni della sentenza di primo grado e sostiene l’inconfigurabilità del reato di appropriazione indebita a carico di amministratori sociali che costituiscono, come nel caso in esame, riserve o fondi extra- bilancio solo formalmente non riconducibili alla società e li utilizzano per il perseguimento, sia pure con mezzi illeciti, di fini non estranei agli interessi sociali. Evidenzia che tali doglianze erano già state sollevate con i motivi d’appello e che la sentenza si era limitata ad affermare che mancava la prova del concreto vantaggio economico o di altra utilità che ne sarebbe conseguita a favore della banca, sia pure attraverso condotte illecite attribuibili agli amministratori. Sottolinea che tale motivazione era meramente apparente e comunque affetta da palese illogicità e contraddittorietà considerato che era stata provata un’attività di lobbismo interno alla banca.
12 Motivo: violazione dell’art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza oggetto di ricorso ritenuto sussistente il reato di ricettazione di cui ai capi 5-6 in luogo di quello di finanziamento illecito ai partiti.
Lamenta il ricorrente l’illogicità della motivazione sul punto.
13 Motivo: violazione dell’art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto responsabile il B. del reato di ricettazione di cui ai capi 5-6 a fronte dell’insussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di ricettazione, previa motivazione assente o apparente.
14 Motivo: violazione dell’art. 648 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto responsabile il B. del reato di ricettazione di cui ai capi 5-6 sebbene in presenza di un concorso dell’imputato nel reato presupposto, previa motivazione apparente.
Sostiene nel caso in esame la configurabilità di una fattispecie di concorso di persone nel reato di appropriazione indebita attraverso lo schema della "istigazione accolta". Lamenta che tale tesi era stata oggetto di motivi d’appello e che la Corte territoriale si era limitata a ribadire quanto già sostenuto in primo grado.
15 Motivo: violazione degli artt. 132 e 133 in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto congrua la pena con motivazione apparente e/o illogica.
Motivi della decisione
Va preliminarmente confermata l’ordinanza dibattimentale emessa da questa Corte all’udienza del 4 agosto 2011.
In data 29.7.2011 i difensori presentavano una memoria con la quale eccepivano che, con riguardo all’imputato, non erano ancora decorsi i termini per la presentazione dell’imputazione essendogli stato notificato ex art. 161 c.p.p., u.c. l’avviso di deposito della sentenza solo nelle date 19 e 26.7.2011.
La Corte respingeva l’istanza sulla scorta delle argomentazioni di seguito ribadite. La sentenza appellata era stata emessa all’esito di giudizio abbreviato. Il giudizio d’appello, ai sensi dell’art. 443 c.p.p., comma 4 si è svolto nelle forme previste dall’art. 599 c.p.p..
Nella forma camerale del giudizio di appello, disciplinata dall’art. 599 c.p.p., la presenza dell’imputato non è necessaria e non è conseguentemente prevista la dichiarazione di contumacia dell’imputato assente (sez. 1, 19.6.2007, Chakhsi, rv 236841; conf. sent. nn. 434/92, rv 190474; 1326/92, rv 189197; 10231/05, rv 230921) Lo stesso legittimo impedimento impone il differimento della data di udienza esclusivamente se l’imputato abbia manifestato la volontà di comparire (art. 599 c.p.p., comma 2). E infatti l’imputato, domandando – senza la necessità di alcun consenso della parte pubblica – di accedere al procedimento speciale accetta, con i relativi vantaggi in termini di prova e sanzione, anche la contrazione delle forme, che si manifesta, nel giudizio di appello, con la previsione di un rito camerale nel quale la presenza delle parti è meramente eventuale e va quindi assicurata soltanto se viene manifestata la volontà dell’imputato di voler comparire, potendo altrimenti presumersi la sua rinunzia ad essere presente (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 18.10.2006, Hermi c. Italia). Come già indicato non è prevista la dichiarazione di contumacia dell’imputato che non si presenta in udienza.
Nel caso di specie il ricorrente, regolarmente citato, e quindi pienamente a conoscenza del processo e delle relative cadenze, non ha manifestato la volontà di essere presente alla procedura camerale e neppure ha dedotto alcun impedimento. Ha quindi consentito che l’udienza avvenisse in sua assenza. Sono invece comparsi i suoi difensori di fiducia.
All’udienza del 3.3.2011 è stata pronunciata la sentenza, mediante lettura in udienza del dispositivo, con indicazione nello stesso del termine, fissato in gg. 45, per il deposito della motivazione.
Motivazione che è stata depositata in osservanza di detto termine.
Le S.U. di questa Corte, con la sentenza n. 12822/2010, hanno affermato, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, che la sentenza pronunciata in appello, all’esito di giudizio abbreviato, deve essere pubblicata mediante lettura del dispositivo in udienza camerale dopo la deliberazione, e non mediante deposito in cancelleria, sostenendo che la lettura del dispositivo in udienza è non solo del tutto compatibile con la specialità del rito abbreviato, ma è addirittura obbligatoria perchè espressione del principio di immediatezza che caratterizza il giudizio ordinario. Hanno però ritenuto che, in caso di omessa lettura, la sentenza non è abnorme o nulla, verificandosi una mera irregolarità, che produce però effetti giuridici, impedendo solo il decorso dei termini per l’impugnazione di cui all’art. 545 c.p.p., comma 3. L’art. 545 c.p.p., comma 3 prevede che la pubblicazione della sentenza, se avvenuta mediante lettura sia del dispositivo che della motivazione, costituisce un equipollente della notificazione per le parti che sono o devono considerarsi presenti all’udienza, con la conseguenza che da quel momento decorrono i termini per proporre impugnazione ex art. 585 c.p.p., comma 2, lett. b).
Pubblicazione e deposito della sentenza rispondono infatti a finalità diverse, la prima conclude la fase deliberativa rendendo la decisione non più modificabile, a differenza del secondo che mette a disposizione delle parti il provvedimento facendo decorrere i termini per l’impugnazione. Il deposito della sentenza nel caso di redazione contestuale della motivazione al dispositivo avviene immediatamente dopo la sua pubblicazione, negli altri casi entro i termini previsti dall’art. 544 c.p.p., commi 2 e 3. Solo nel caso di deposito fuori termine deve essere notificato alle parti private, cui spetta il diritto di impugnazione, l’avviso di deposito e il dies a quo per proporre impugnazione coincide con il giorno in cui è eseguita la notificazione o la comunicazione di tale avviso. Negli altri casi la decorrenza opera automaticamente, senza bisogno di alcun avviso, dalla scadenza del termine di deposito fissato dalla legge o autonomamente dal giudice.
Nel caso in esame la sentenza, pubblicata in udienza mediante lettura del dispositivo, è stata depositata nel termine indicato nel dispositivo stesso, con la conseguenza che nessun avviso doveva essere dato alle parti private cui spettava il diritto di impugnare, La decorrenza del termine per l’impugnazione operava infatti autonomamente dalla scadenza del termine fissato dal giudice ed indicato nel dispositivo. Ed in effetti la sentenza è stata impugnata dai difensori dell’imputato proprio nei termini previsti dall’art. 585 c.p.p., lett. c). Nessun avviso di deposito doveva essere pertanto effettuato all’imputato che aveva rinunziato a presenziare all’udienza.
Ma anche a ritenere che dovesse essere dato tale avviso deve comunque rilevarsi che i difensori di fiducia hanno proposto rituale gravame avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano. Al riguardo soccorre il principio di diritto, più volte ribadito da questa Corte, secondo il quale "nei casi in cui sia stato omesso l’avviso all’imputato del deposito della sentenza .., ove il difensore abbia comunque interposto rituale impugnazione, si configura, stante il principio di unicità del diritto di impugnazione, la consumazione del diritto degli altri aventi diritto a proporla per essere stato conseguito l’effetto dell’avviso" (Sez. 4A, 29 settembre 2004, n. 46540, Proietti, massima n. 230572; cui adde: Sez. 1A, 18 ottobre 2007, n. 43665, Dattilo, massima n. 238420, che afferma "la mancata notifica all’imputato dell’avviso di deposito della sentenza (o di qualunque altro provvedimento impugnabile) configura una nullità di ordine generale "a regime intermedio" e non assoluta, che resta sanata, per il raggiungimento dello scopo, a norma dell’art. 183 c.p.p., quando i motivi di impugnazione siano stati tempestivamente presentati dal difensore e riguardino il provvedimento effettivamente impugnato ed il suo contenuto motivazionale"; e, ancora, Sez. 6A, 19 giugno 1992, n. 10364, Giampaolo, massima n. 192103; Sez. 1A, 11 gennaio 1990, n. 6254, Sgroi, massima n. 184191; cfr., infine, Sez. 2A, 6 aprile 2000, n. 8518, Rivaira, massima n. 216588,, Sez. Un., 31 gennaio 2008, n. 6026, Huzuneanu, massima n. 238472 e Sez. 1 24.2.2010 n. 10410).
Ciò premesso, vanno esaminati i motivi di ricorso.
1 motivo.
Con il primo motivo di ricorso, l’imputato lamenta, in relazione all’intero impianto della sentenza impugnata, che la Corte di Appello ha fatto ricorso ad una motivazione per relationem omettendo la verifica della fondatezza delle richieste difensive e dei precisi motivi di censura che erano stati dedotti avverso la motivazione contenuta nella sentenza di 1^ grado.
Ritiene questa Corte di legittimità che la doglianza – la quale investe globalmente la decisione impugnata con riferimento alla struttura del suo intero apparato argomentativo – non può essere apprezzata ex se, ponendosi essa quale sostanziale premessa ed anticipazione di censure successivamente e più precisamente riproposte nello sviluppo dell’atto di gravame: censure che saranno pertanto esaminate con riferimento ai singoli punti della sentenza impugnata da esse specificamente attinti. Si può solo osservare fin d’ora che se è esatta l’affermazione del ricorrente secondo cui la motivazione per relationem non può condurre a vanificare il mezzo di impugnazione, è anche vero che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato (sez. un., 04/02/1992, Musumeci, rv 191229; sez. 1A, 26/06/2000, Sangiorgi, rv 216906) il principio della integrazione reciproca fra la sentenza di primo grado e quella di appello che si pronunci in conformità, sicchè entrambe contribuiscono a formare un unicum organico ed inscindibile espressivo della volontà del giudice il quale, in sede di gravame, non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti ed a prendere in esame tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che anche attraverso una valutazione globale delle stesse egli spieghi adeguatamente le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dovendosi in tal caso ritenersi disattesa ogni singola doglianza che, anche se non espressamente confutata, sia logicamente incompatibile con la complessiva – da intendersi nel senso testè precisato – giustificazione della decisione (sez. 2A, 10/11/2000, Gianfreda, rv 218590). La struttura della motivazione è infatti ormai caratterizzata dall’impiego di strumenti ermeneutici dotati di una certa flessibilità come risulta dalla concettualizzazione e dall’innesto – ormai consolidato nel sistema – della cosiddetta motivazione per relationem.
Se è vero, infatti, che l’impugnazione resta qualificata dalla "risposta" che il giudice del gravame è tenuto ad adottare, la mancanza di motivazione sta però ad indicare l’assoluto rifiuto da parte del giudice del gravame dell’esame delle censure proposte. La motivazione per relationem a quella impugnata, diventa, infatti, insindacabile in cassazione nel caso in cui le censure formulate a carico della sentenza del primo giudice non contengano elementi di novità con riferimento a quelli già esaminati e disattesi. Il giudice del gravame non è tenuto in questo caso a riesaminare una questione formulata genericamente nei motivi di appello, questione sulla quale il primo giudice si sia già soffermato ed abbia risolto con argomentazioni corrette e prive di vizi logici (Sez. 5A, 5 marzo, 1999, Tedesco; Sez. 5A, 22 aprile 1999, Maffeis).
Si è, in sostanza, ripetutamente affermato da questa Corte regolatrice che l’apparato motivazionale del provvedimento, che può anche essere succinto, deve dare dimostrazione dell’iter cognitivo e valutativo seguito dal decidente per giungere ad un certo risultato decisorio, in modo che sia salvaguardato la facoltà di critica da parte di chi ha titolo per impugnare o contestare la decisione e l’esercizio del potere di controllo da parte dell’organo funzionalmente sovraordinato. Più specificamente deve rilevarsi che l’ambito della necessaria autonoma motivazione del Giudice d’appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure rivolte dall’appellante. Se questi si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati. Quando, invece, le soluzioni adottate dal Giudice di primo grado siano state specificamente censurate dall’appellante, sussiste il vizio di motivazione, sindacabile ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), se il giudice del gravame si limita a respingere tali censure e a richiamare la contestata motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi, senza farsi carico di argomentare sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione. In quest’ottica saranno, quindi, esaminati gli ulteriori motivi.
2, 3 e 4 motivo.
Il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso – che possono essere congiuntamente esaminati – sono inammissibili.
Con riguardo a tali motivi, ritiene, in via generale, il Collegio che la Corte di Appello, pur con estrema sinteticità espositiva, non abbia reso una motivazione definibile mancante, e dunque viziata ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), ma si sia mantenuta nei limiti entro cui, secondo i principi giurisprudenziali in materia, è consentito al giudice dell’impugnazione giustificare la propria decisione con riferimento alle argomentazioni svolte nel provvedimento sottoposto al suo esame. Si deve ribadire, in proposito, infatti, come la giurisprudenza di legittimità, fin dalla vigenza del codice abrogato, abbia affermato che non si configura una mera motivazione per relationem, la quale si risolve in motivazione mancante, quando la sentenza di appello dimostri di avere tenuto conto dei motivi addotti dalla parte con il gravame e, riconosciuta la esattezza delle risposte date dai primi giudici, le coopti palesando di aver tenuto conto degli elementi rilevanti al fine di decidere, valutati anche complessivamente, per ciò stesso disattendendo le prove e le deduzioni incompatibili con la decisione adottata specie quando la sentenza di primo grado abbia già fornito in modo completo la soluzione dei quesiti riprodotti con l’appello, di guisa che una loro particolareggiata risposta importerebbe una pedissequa ripetizione delle argomentazioni in quella già espresse (sez. 1A, 12/07/1982, Fasani, rv 156496; Cass. Sez. 2 n. 40921/2005);
in altre parole – come già in precedenza si è osservato – il vizio sussiste solo quando il giudice investito del gravame si limiti a respingerlo e a richiamare la contestata motivazione del giudice di primo grado in termini assolutamente apodittici, senza indicare i temi o problemi trattati, la soluzione offerta del provvedimento impugnato e la natura delle censure, così da non consentire la conoscenza di quei temi e, conseguentemente, la valutazione, in sede di legittimità, dell’adeguatezza o meno delle risposte date, sia pure per relationem (sez. 4A, 22/12/1995, Mahovic, rv 204175).
Ciò non si è verificato nel caso di specie, in cui la Corte di Appello ha ripercorso per intero le argomentazioni del Tribunale in ordine ai punti attinti dal gravame e le censure formulate in proposito con l’atto di appello, così mostrando di avere presente natura e contenuto dei temi trattati e delle deduzioni difensive e ne ha ritenuto l’infondatezza e, quindi, la non condivisibilità con riferimento sia alle giustificazioni offerte dall’imputato, espressamente considerate non provate e, comunque, inidonee a determinare una diversa lettura dei fatti, sia al diverso esito ricostruttivo cui era pervenuto il Tribunale. Nè in questa sede il ricorrente, riprodotti testualmente i motivi di appello e censurata la sentenza di secondo grado sotto il profilo della difettosità della motivazione per relationem, ha specificamente indicato le ragioni per le quali la relatio debba ritenersi imperfecta e cioè inadeguata rispetto a quanto dedotto con il gravame di merito.
In particolare, con il secondo motivo si duole il ricorrente del mancato esame di elementi, anche documentali, significativi, di segno contrario idonei a smentire la tesi accusatoria in ordine: alla frettolosità nella concessione del fido, alla effettività del rapporto intercorso fra la M. e la banca, all’illiceità delle operazioni. Sottolinea come i fatti si prestavano ad una soluzione alternativa. Contesta anche l’affermazione contenuta in sentenza di assenza del rischio da parte della M. sostenendo che la stessa era frutto di un’errata interpretazione delle dichiarazioni del BO.. Sostiene la regolarità dell’operazione di cui al capo 2) evidenziando come l’international auditing di BPI non aveva riscontrato anomalie e che la Banca non aveva richiesto alla cliente la restituzione. Sottolinea come la sentenza impugnata, a fronte di tali doglianze, si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado senza offrire una specifica motivazione. Il motivo è manifestamente infondato.
Nel caso in esame il giudice d’Appello non si è limitato a richiamare la sentenza di primo grado che aveva già confutato tali doglianze, ma ha dato espressamente conto di avere esaminato in maniera specifica le censure in esame e di essere pervenuto alla conclusione, che non vi era spazio per un’alternativa diversa da quella sostenuta nella sentenza impugnata.
In questa sede il ricorrente, attraverso l’inesistente vizio dell’omessa motivazione, non solo ha reiterato le doglianze già esposte con i motivi d’appello che la Corte di merito aveva debitamente disatteso, ma non ha nemmeno sostenuto il suo assunto con richiamo ad atti specifici e ben individuati del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare. In proposito il Collegio osserva che è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio della cd. "autosufficienza" del ricorso in base al quale quando la doglianza fa riferimento ad atti processuali, la cui valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificatamente indicati o la loro allegazione (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), essendo precluso alla Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (cfr. Cass. n. 20344/06; Cass. n. 20370/06;
Cass. n. 47499/07; Cass. n. 16706/08). In particolare il ricorrente.
Al giudice di legittimità resta infatti tuttora preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto. Manifestamente infondati sono anche il terzo e il quarto motivo di ricorso. La Corte ha dato conto, con motivazione congrua e priva di vizi logici delle ragioni che deponevano per la dichiarazione di responsabilità del B., a titolo di concorso, con riguardo alle appropriazioni indebite contestate ai capi 1) e 2) richiamando circostanze in fatto dalle quali emergeva il consapevole contributo causale dello stesso nella realizzazione degli illeciti. Con il primo motivo d’appello l’imputato aveva infatti contestato la sussistenza dei reati, mentre con il secondo e il terzo motivo d’appello il suo consapevole contributo causale. La Corte, rispondendo in maniera congrua e diretta a tutti e due i motivi, ha dato conto della responsabilità del B., a titolo di concorso, con riguardo ad entrambe le imputazioni esaminando l’aspetto oggettivo e soggettivo dell’imputazione ex art. 110 c.p., cosi come si è diffusamente evidenziato in narrativa.
5 Motivo.
Con il quinto motivo lamenta il ricorrente che la Corte di Appello ha respinto l’argomentazione difensiva, recependo acriticamente le motivazioni del primo giudice, secondo la quale non si potrebbe configurare nella fattispecie l’ipotesi di cui all’art. 646 c.p., aggravata dall’art. 61 c.p., n. 11 bensì quella, speciale e più favorevole, prevista dall’art. 2634 c.c. come modificato dal D.Lgs. n. 61 del 2002, erroneamente ritenendo che la nuova fattispecie societaria sanzioni unicamente un conflitto di interessi preesistente all’atto di disposizione, connotato da oggettiva valutabilità, effettività ed attualità, rimanendo esclusi i casi di condotte illecite dirette a sottrarre beni sociali. Sostiene il ricorrente che, diversamente da quanto sostenuto dai giudici di merito, il rapporto di specialità intercorrente tra la fattispecie di cui all’art. 2634 c.c. e quella di cui all’art. 646 c.p., lungi dall’essere inquadrato nella "specialità reciproca" dovesse essere piuttosto qualificato come in rapporto di esclusione. Sostiene che i fatti si sarebbero realizzati attraverso condotte di abuso di gestione da parte degli amministratori, prova ne è che è stata contestata l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11, e deduce che la situazione privilegiata riservata al B., (accollo di fatto della garanzia fideiussoria che veniva pagata con fondi della banca), era sicuramente preesistente al contesto nel quale venivano poi realizzati gli atti di disposizione contestati, condotte che trovano ora sanzione nella nuova fattispecie criminosa di cui all’art. 2634 c.c.. La doglianza è manifestamente infondata.
La fattispecie incriminatrice di cui il ricorrente invoca l’applicazione è stata introdotta nell’ordinamento nell’ambito della più complessiva riforma dei reati societari, allo scopo, da un lato, di ancorare la sanzionabilità delle infedeltà al principio di offensività e superare la criminalizzazione di scorrettezze formali caratterizzate da mero pericolo presunto e, da un altro, di ricollocare nel loro ambito naturale figure di reato non destinate in origine a tutelare il patrimonio sociale da condotte abusive ed uso improprio dei beni da parte degli amministratori, così prevenendone possibili applicazioni non conformi al principio di stretta legalità. La nuova disposizione tuttavia non esaurisce la tutela penale verso le aggressioni ai beni sociali da parte di soggetti qualificati, come se il legislatore avesse sottratto la materia degli illeciti societari alla generale disciplina dei reati contro il patrimonio; ne tipizza piuttosto le condotte di infedeltà connesse all’attività di gestione, lasciando impregiudicata la rilevanza criminale di quelle che, non previste dalla specifica normativa, risultino punibili secondo il diritto comune.
Per quanto qui interessa si tratta, dunque, di esaminare il rapporto intercorrente fra le fattispecie di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 c.c. e di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., verificando se permanga spazio di operatività per la seconda.
La risposta al quesito non può che essere positiva atteso il rapporto di specialità reciproca esistente fra le due diverse ipotesi criminose, siccome già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte(Cass Sez. 1 n. 30546/2004; Cass. Sez. 2 n. 40921/2005;
Cass. Sez. 2 n. 15879/08).
Presupposto della condotta infedele sanzionata ai sensi dell’art. 2634 c.c. è, per espressa previsione di legge, il conflitto di interessi fra amministratori, direttori generali o liquidatori e società. La norma incriminatrice contempla infatti la condotta di chi, ricoprendo una delle predette cariche e vertendo nella indicata situazione, compia o concorra a deliberare atti di disposizione dei beni sociali al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale. Evidente è l’intento del legislatore di punire – pur ancorandolo, secondo la filosofia della riforma, al dato dell’effettivo nocumento patrimoniale dell’ente – l’eccesso di potere per sviamento. A fronte di un conflitto preesistente è sanzionato l’atto di gestione (non rileva se avente ad oggetto beni mobili o immobili, diritti reali o di credito) che direttamente (per sè) o indirettamente (per altri) persegue l’interesse confliggente, con detrimento di quello della società: la nuova fattispecie si tipizza dunque per la necessaria relazione fra conflitto di interessi (o meglio interessi in conflitto) e finalità sottese all’atto, relazione che di per sè colora di ingiustizia il profitto o il vantaggio perseguiti piegando ai propri fini la funzione sociale. E poichè il profitto ingiusto null’altro è che la proiezione soggettiva del preesistente conflitto, quest’ultimo, che nella struttura della norma vale a qualificare la condotta come infedele connotandola di illiceità in quanto tesa a risolverlo nell’interesse del singolo, deve possedere caratteri di attualità ed obiettiva valutabilità quale reale ed effettivo antagonismo di interessi economici che dovrebbe fisiologicamente trovare soluzione, secondo la disciplina dell’art. 2391 c.c., con la denuncia del conflitto, l’eventuale astensione e l’idonea motivazione nella deliberazione che segue. Il concetto di conflitto di interessi di cui all’art. 2634 c.c. non può, infatti, che riferirsi ai principi civilistici elaborati in materia, attesa la significativa collocazione sistematica della norma penale incriminatrice all’interno del codice civile, operata dal legislatore al chiaro scopo di non privarla del contesto normativo di riferimento.
Diversa dalla fattispecie descritta è, invece, l’ipotesi in cui un soggetto ponga in essere atti di aggressione al patrimonio societario appropriandosi del denaro o della cosa mobile dell’ente di cui abbia la disponibilità in ragione della carica. Entrambe le previsioni normative prevedono come elemento costitutivo la "deminutio patrimonii" della persona offesa e l’ingiusto profitto, l’appropriazione indebita è attuata però con l’interversione del possesso e si qualifica non solo per la natura del bene che esclusivamente ne può essere l’oggetto e l’irrilevanza del perseguimento di un semplice vantaggio in luogo del profitto, ma anche e soprattutto per l’assenza di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi – da intendersi nel senso sopra indicato – quale presupposto necessario per individuare la deviazione dell’atto di disposizione dal suo fine istituzionale e ricondurre quindi la condotta nell’alveo del reato societario.
Nel caso sottoposto all’esame della Corte, come esattamente sottolineato dai giudici di merito, è assente qualsiasi ipotesi di conflitto di interessi come sopra delineato, (nel senso cioè di antagonismo economico preesistente, dichiarabile e risolvibile con l’astensione o con adeguata motivazione della delibera), essendosi verificata da parte degli amministratori e loro concorrenti la mera appropriazione di denaro in danno della società offesa, mascherata da contestuali operazioni fittizie solo per giustificarne la fuoriuscita dalle casse sociali: correttamente, pertanto, è stata applicata la norma incriminatrice i cui elementi sono stati riscontrati presenti nella fattispecie concreta.
E solo per completezza si aggiunge che alla medesima conclusione è pervenuta la giurisprudenza di legittimità non solo nelle citate sentenze di questa Corte, ma anche nella decisione della sez. 5A, 23/06/2003 n. 38110 depositata il 7/10/2003, Sama, richiamata dal ricorrente, la quale, pur premettendo una generica affermazione della specialità, (senza specificarne espressamente il connotato di reciprocità), dell’infedeltà patrimoniale rispetto all’appropriazione indebita, ha comunque dato prevalenza a quest’ultimo reato sul presupposto che nel caso esaminato non risultasse nemmeno contestato il conflitto di interessi (e non risultasse altresì provato alcun vantaggio compensativo atto ad elidere l’ingiustizia del profitto).
6 Motivo.
Anche il sesto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Deve preliminarmente rilevarsi che i principi affermati dai giudici di merito sono conformi a quelli dettati dalla Corte di Cassazione la quale ha affermato (Cass Sez. 2 4/4/1997, nr. 5136, imp. Bussei) che:
"Sussiste il delitto di appropriazione indebita nel fatto dell’amministratore di società che, costituendo riserve di denaro extrabilancio, con gestione occulta, le distragga in favore di terzi per scopi illeciti ed estranei all’oggetto sociale ed alle finalità aziendali, così procurando ad essi un ingiusto profitto: la condotta di appropriazione, che caratterizza il delitto di cui all’art. 646 c.p., consiste infatti non solo nell’annettere al proprio patrimonio il denaro o la cosa mobile altrui, bensì anche nel disporne arbitrariamente uti dominus, sotto qualsiasi forma, in modo tale che ne derivi per il proprietario la perdita irreversibile".
Tale principio non è stato disatteso nelle sentenze, citate dalla difesa (Sez. 5, 1998 n. 10041 in procedimento Altissimo più altri e Sez. 5 1998 nr. 1245 in procedimento Cusani) dove è stato solo precisato che: "…. poichè è indiscusso che la distrazione richiede la destinazione di un bene a uno scopo diverso da quello precostituito, deve escludersi che possa essere qualificata come distrattiva, e tantomeno come appropriativa, un’erogazione di danaro che, pur compiuta in violazione delle norme organizzative della società, risponda a un interesse riconducibile anche indirettamente all’oggetto sociale. Deve ritenersi, infatti, che, per aversi appropriazione, sia necessaria una condotta che non risulti giustificata o giustificabile come pertinente all’azione o all’interesse della società, in quanto può accadere che una persona giuridica, attraverso i suoi organi, persegua i propri scopi con mezzi illeciti, senza che ciò comporti di per sè l’interruzione del rapporto organico. E, contrariamente a quanto si afferma, questa impostazione non è affatto in contrasto con la giurisprudenza che considera appropriativa l’abusiva erogazione di danari a terzi da parte di funzionari bancari, perchè quella giurisprudenza richiede che l’erogazione dipenda da una collusione a danno dell’istituto di credito idonea, appunto, a interromperne il rapporto organico con il funzionario (Cass. Sez. Un., 28 febbraio 1989, Vita, m. 181789). Si deve, pertanto, concludere che nè il versamento dei fondi extrabilancio su conti non formalmente riconducibili alla società, nè la destinazione di tali fondi al perseguimento, con mezzi illeciti, degli interessi sociali, ad esempio con le erogazioni di finanziamenti illegali a partiti politici o a giornalisti, integrino gli estremi dell’appropriazione indebita". La sentenza in questione era stata, infatti, annullata per insussistenza del fatto limitatamente all’imputazione in cui risultava contestata come appropriativa l’erogazione del finanziamento illecito a giornalisti per un miliardo di lire. Nella sentenza si legge, altresì, che era, corretta l’impostazione dell’accusa con riguardo alla mancata contestazione dell’appropriazione indebita rispetto ai fondi extrabilancio della Montedison destinati all’illecito finanziamento di partiti politici. La provenienza del finanziamento dalla società rendeva, infatti, applicabile la sanzione penale prevista dalla L. n. 195 del 1974, art. 7.
Ma nella sentenza si legge anche che "…. se è vero che l’utilizzazione extrabilancio di fondi sociali non è sufficiente a integrare di per sè un’appropriazione indebita, è anche vero che il loro occulto gestore deve ritenersi gravato da un rigoroso onere di provarne l’effettiva destinazione".
Ciò detto, deve rilevarsi che i giudici del merito avevano dato atto che, dalla ricostruzione della complessiva attività illecita posta in essere da F., Bo. e S. anche in concorso con i B., emergeva con chiarezza che i dirigenti di BPL avevano disposto arbitrariamente "uti dominus" di denaro della banca distraendolo in favore proprio e dei coniugi B.. Non vi erano, invece, elementi dai quali trarre il convincimento che tali fondi occulti fossero destinati al perseguimento di scopi sociali. In particolare F. non aveva adempiuto al "rigoroso onere" di provare che le somme consegnate e facente parte del fondo occulto fossero destinata a finalità sociali ed, anzi, ha fornito elementi di segno contrario. Si legge nella sentenza di primo grado, specificatamente richiamata sul punto dalla Corte territoriale che "se pure si volesse ritenere che la creazione della provvista fosse stata in parte motivata dalla necessità di finanziare l’attività lobbistica al fine di "predisporre" il terreno per la "scalata" Antonveneta e che ciò corrispondesse agli scopi sociali di BPL si dovrebbe comunque rilevare che l’episodio di cui si discute non rientra neppure in quel generale accordo che, a dire dell’A.D., era intervenuto con l’on. B. in tale prospettiva.
Ciò posto, osserva il Collegio come la questione proposta con il motivo in esame si risolva essenzialmente nella critica ad un apprezzamento di merito del Tribunale, il quale ha diffusamente e logicamente argomentato che, alla luce di quanto era emerso dalle indagini, poteva con certezza affermarsi che le dazioni effettuante in favore dell’on. B. dimostravano che i fondi occulti erano stati utilizzati per finalità diverse dal perseguimento degli scopi sociali; a tale ricostruzione l’imputato aveva opposto, con l’atto di appello, una generica denuncia di erroneità a fronte della quale il sostanziale rinvio alla motivazione di primo grado effettuato dal giudice di appello, sia pure attraverso un’espressione sintetica ma chiara nella sostanza, si palesa pienamente legittimo.
7 e 9 Motivo.
Il settimo e il nono motivo di ricorso – che possono essere trattati congiuntamente – sono inammissibili.
Il ricorrente contesta, per quanto attiene al reato di cui al capo 5, la credibilità soggettiva e l’attendibilità estrinseca del F. e l’assenza oggettiva di riscontri considerata l’inconciliabilità delle dichiarazioni del coimputato con quanto riferito dal P. che collocava l’episodio nel 2000. Per quanto riguarda l’imputazione di cui al capo 6 la violazione dei criteri di cui all’art. 192 c.p.p. con riguardo alle dichiarazioni del F. e dello S. di cui vengono evidenziate incoerenze e contraddizioni. Deduce, in ogni caso, l’assenza o l’illogicità della motivazione. I motivi sono inammissibili innanzitutto poichè reiterano doglianze difensive avanzate nel corso del giudizio di primo grado e riproducono pedissequamente i motivi d’appello.
Infatti, come già si è accennato, è giurisprudenza pacifica di questa Corte che se i motivi del ricorso per Cassazione riproducono integralmente ed esattamente i motivi d’appello senza alcun riferimento alla motivazione della sentenza di secondo grado, le relative deduzioni non rispondono al concetto stesso di "motivo", perchè non si raccordano a un determinato punto della sentenza impugnata ed appaiono, quindi, come prive del requisito della specificità richiesto, a pena di inammissibilità, dall’art. 581 c.p.p., lett. c). E’ evidente, infatti, che – a fronte di una sentenza di appello, come quella in esame, che, con riguardo al motivo in argomento, ha fornito una specifica risposta – la pedissequa ripresentazione dello stesso come motivo di ricorso in Cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’Appello.
Ma i motivi, oltre che generici, sono manifestamente infondati poichè i giudici del merito hanno puntualmente motivato sia in ordine alle circostanze caratterizzanti la credibilità soggettiva e l’intrinseca affidabilità del racconto del chiamante in correità, ritenuta ampiamente provata, sia in ordine ai riscontri esterni specificamente individuati. In sostanza, i Giudici di merito hanno fatto corretta applicazione del criterio stabilito dall’art. 192 c.p.p., comma 3 ai fini della valutazione dell’effettiva consistenza probatoria della chiamata, valutazione che è stata, quindi, esattamente effettuata da entrambi i giudici del merito i quali hanno dato conto del loro convincimento con motivazione congrua e priva di vizi logici e giuridici.
Nello specifico, va osservato:
Con riguardo alla dazione di cui al capo 5), la sentenza impugnata ha osservato che F. aveva collegato tale dazione all’interessamento richiesto al B. affinchè, nelle elezioni politiche del 2001, nel collegio di Lodi fosse candidata persona diversa dall’on. D.G., sgradito all’A.D. di BPL. Le elezioni si erano svolte il 13 maggio 2001 e le liste delle candidature dovevano, per legge, essere depositate al più tardi trentadue giorni prima delle votazioni. La consegna del denaro, avvenuta nel marzo/aprile dello stesso anno, era pertanto collegata alla richiesta avanzata da F. di intervenire sulla formazione della lista dei candidati: l’interessamento dell’imputato già sollecitato era stato retribuito nella immediatezza del deposito delle liste ed il pagamento costituiva, quindi, il "ringraziamento" per i buoni uffici evidentemente prestati da B.A. per estromettere l’on. D. G. in favore dell’on. Fa., gradito all’A.D. e poi effettivamente candidato. Nella sentenza è stato sottolineato che la somma era stata prelevata dal fondo "nero" gestito da S. che aveva consegnato la busta a P.: il fondo, come indicato da S. nell’interrogatorio del 4/1/2006, stato attivato proprio nel 2001 mentre nel 2000 non era ancora in essere.
Tali elementi hanno consentito ai giudici del merito di collocare con certezza l’episodio nel marzo/aprile 2001 a nulla rilevando che – come aveva osservato la difesa – l’ammontare dell’importo corrisposto fosse stato indicato da F. in Euro e non in lire. In maniera logica e convincente è stato sottolineato come l’abitudine, ormai comunemente invalsa, di "ragionare" in Euro stante il tempo ormai trascorso dall’adozione della moneta unica – abitudine ancor più radicata in chi per mestiere "lavora" con il denaro – giustificava pienamente l’imperfezione, del resto assolutamente marginale.
Nella sentenza impugnata è stato, altresì, opportunamente sottolineato che non inficiava il quadro probatorio a carico dell’imputato il rilievo sollevato dalla difesa in ordine al fatto che, nel 2001, B.A. non era ancora parlamentare – essendo stato eletto proprio nelle elezioni che si erano svolte quell’anno – con la conseguenza che non avrebbe avuto alcuna possibilità di esercitare una qualche influenza sulla formazione delle liste dei canditati, in quanto dagli atti emergeva che l’imputato aveva, anche prima della sua elezione al Parlamento, un ruolo significativo all’interno del partito di appartenenza e legami, o quanto meno, ottime relazioni con esponenti di altri partiti che, in seguito, avrebbero fatto parte della maggioranza ed era, perciò, persona di certo "ascoltata" quando si dovevano assumere decisioni. Alla medesima conclusione i giudici sono pervenuti in riferimento all’ipotesi di ricettazione contestata al capo 6).
E’ stato posto in rilievo che sempre F., nel corso di due interrogatori, aveva dichiarato che nel febbraio/marzo 2005, B., nel corso di un incontro a Roma, gli aveva detto che egli e il sen. C. avevano bisogno della somma di Euro 200.000,00 per le spese della campagna elettorale. Al ritorno a Lodi egli aveva detto a S. che vi era la necessità di preparare quella somma in contanti, dando per scontato che li avrebbe prelevati dalla "cassa nera". Dopo circa venti giorni da quell’incontro, B. gli aveva comunicato la data in cui egli e il C. sarebbero stati a Lodi e, nel giorno fissato, si erano, quindi, presentati nel suo ufficio. S., che era stato preavvertito, era anch’egli nei pressi dell’ufficio del F. con una busta gialla contenente la somma di Euro 200.000,00; quindi, vi era stato un dialogo tra il F., B. e S., nel corso del quale quest’ultimo aveva consegnato la busta al B.. Costui, ricevuta la busta, aveva raggiunto il C. che si trovava in un’altra sala, ma F. aveva sottolineato di non avere assistito alla divisione della somma tra loro due, ma aveva potuto notare che il C. era visibilmente entusiasta, tenendo, in seguito, un accalorato discorso in favore della BPL. Tali dichiarazioni, secondo il corretto convincimento dei giudici di primo e secondo grado, hanno trovato riscontro in quanto riferito da S. che aveva ricordato sostanzialmente l’episodio negli stessi termini. In proposito, i giudici del merito hanno puntualmente preso in esame e disatteso le doglianze della difesa che aveva rilevato che le affermazioni di S. non potevano essere valutate quale riscontro delle dichiarazioni di F. che, peraltro, presentavano alcune incoerenze e contraddizioni; in particolare, la difesa aveva sottolineato che F. aveva collocato l’incontro nella tarda mattinata mentre, come emergeva dalla documentazione prodotta con riferimento alla posizione del senatore C. e acquisita in atti, era certo che lo stesso era giunto a Lodi ed aveva tenuto il comizio in serata.
La circostanza è stata considerata dai giudici di merito, con argomentazione logica e convincente, del tutto marginale, posto che ciò che rilevava era il fatto che il comizio si fosse effettivamente svolto il 31 maggio 2005 e che, nella circostanza, vi era stato l’incontro di F. con l’on. B. ed il senatore C.. E’ stato incisivamente sottolineato che le dichiarazioni di F. e S. non erano smentite dalla circostanza che il C., nell’interrogatorio reso al P.M. in veste di indagato, avesse detto che il colloquio era durato circa un quarto d’ora e che durante quel periodo tutti i partecipanti si erano trattenuti nella stessa sala. Nella motivazione è stata, puntualmente, messa in evidenza la circostanza che il sen. C. aveva ovviamente esercitato il suo diritto di difesa rispetto ad un’accusa che lo vedeva come destinatario finale di una somma di illecita provenienza e non doveva, quindi, sorprendere il fatto che avesse reso una versione che escludeva anche solo la possibilità che il collega parlamentare avesse potuto ricevere denaro a lui asseritamente in parte destinato. E’ stato, ancora, opportunamente evidenziato come l’archiviazione nei confronti del C. fosse stata pronunciata perchè l’esistenza dell’accordo di suddivisione derivava solo dalle dichiarazioni dell’on. B. riferite da F. e non certo perchè quest’ultimo non era stato ritenuto attendibile in relazione al verificarsi del fatto. E’ stato, altresì, sottolineato come, proprio dai documenti prodotti dalla difesa del senatore C. ed, in particolare, dagli articoli dedicati dai quotidiani all’evento, emergeva che il parlamentare si era trattenuto presso i locali della BPL, con l’on. B. ed altri, per circa un’ora e non per i 15 minuti indicati dal senatore.
Quanto alla lamentata incoerenza delle versioni rese, i Giudici di merito hanno osservato che le uniche difformità rispetto alle altre ricostruzioni emergevano dal verbale del 19/6/2007 nel quale F., per la prima volta, aveva precisato che l’incontro di Lodi era stato preceduto da colloqui con il B. che gli aveva anticipato la necessità di ottenere il denaro, che per tale motivo lui aveva "allertato" S. il quale aveva predisposto la somma che aveva, poi, consegnato all’imputato in busta chiusa. I giudici hanno sottolineato, con argomentazioni logiche e coerenti con le risultanze fattuali, come i tempi (comizio del 31 maggio 2005), il luogo (locali della BPL), le modalità di reperimento della somma (richiesta a S. che l’aveva prelevata dalla "cassa nera"), coincidevano con precisione, mentre era del tutto plausibile che l’incontro fosse stato preceduto da colloqui "interlocutori" tra F. e B. posto che, quanto meno, andava precisata e concordata la somma richiesta e cercata l’occasione per la consegna.
L’unica "incongruenza" riguardava la dazione della busta contenente il denaro direttamente da parte di S., cosa della quale F. non aveva parlato in precedenza dichiarando, invece, di essere stato lui a darla all’imputato. Tale precedente versione, secondo i giudici di merito, aveva trovato preciso riscontro nelle dichiarazioni di S. che aveva riferito di aver ricevuto dall’A.D. una richiesta di denaro che "rivestiva carattere di urgenza, come se dovesse utilizzare la somma nell’immediatezza" e che, recatosi nel suo ufficio, aveva notato B. in evidente attesa nella sala consiglio. Nella sentenza impugnata è stato sottolineato che certamente S. non aveva visto F. consegnare i soldi all’imputato, ma tale fatto trovava coincidenza perfetta con le prime dichiarazioni dello stesso F. che aveva sostenuto di essersi "appartato" con il parlamentare senza dare atto della presenza di altre persone nel momento della dazione. E’ stata, comunque, messa in evidenza la non decisività di tale incongruenza al pari di quella in ordine all’orario. In definitiva, la chiamata in correità operata da F. è stata esattamente considerata non connotata da "debole valenza di attendibilità soggettiva" e supportata da riscontri individualizzanti offerti dalle dichiarazioni di S. che, pur non avendo assistito materialmente alla dazione, aveva riferito circostanze che consentivano di collegare con certezza il B. al fatto a lui contestato.
8 Motivo.
Anche l’ottavo motivo di ricorso – con il quale si deduce che la sentenza impugnata, erroneamente non ha dichiarato estinto il reato sub 5 per avvenuta prescrizione – è manifestamente infondato.
Premesso che l’eccezione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione è stata sollevata in primo grado e non reiterata in appello, deve, comunque, rilevarsi che le sentenze di merito – come si è prima evidenziato – hanno accertato in fatto che la dazione di cui si discute era collegata all’interessamento richiesto al B. affinchè, nelle elezioni politiche del 2001, nel collegio di Lodi fosse candidata persona diversa dall’on. D.G., sgradito all’A.D. di BPL. Le elezioni si sono svolte il 13 maggio 2001 e le liste delle candidature dovevano, per legge, essere depositate al più tardi trentadue giorni prima delle votazioni. E’ evidente che la consegna del denaro, indicata come avvenuta nel marzo/aprile dello stesso anno, era collegata alla richiesta avanzata da F. di intervenire sulla formazione della lista dei candidati. Il pagamento costituiva il "ringraziamento" per i buoni uffici, evidentemente prestati da B.A., per estromettere l’on. D.G. in favore dell’on. Fa., gradito all’A.D. che fu effettivamente candidato. Così come è stato accertato in fatto che la somma era stata prelevata dal fondo "nero" gestito da S. che aveva consegnato la busta a P., fondo che, come indicato da S. nell’interrogatorio reso il 4.1.2006, era stato attivato proprio nel 2001. Tali elementi di fatto, genericamente contestati dal ricorrente, consentono di collocare con certezza l’episodio nel 2001 e precisamente dopo la presentazione delle liste per le elezioni politiche che si sono tenute il 13.5.2001. Il reato in argomento, alla data della sentenza della Corte d’Appello, non era pertanto prescritto, ma non è prescritto neppure alla data odierna. Considerato, infatti, che le elezioni sono state indette con D.P.R. 9 marzo 2001, n. 47 e che il termine ultimo per la presentazioni delle liste era l’11.4.2001, ne consegue che – tenuto conto delle sospensioni del processo, pari a mesi 4 e gg. 8 – il termine prescrizionale relativo al reato in questione viene a maturare il 18/8/2011. 10, 11 e 13 Motivo.
Anche i motivi 10,11 e 13 possono essere esaminati congiuntamente.
Con essi si contesta sia la sussistenza dell’elemento oggettivo del delitto di ricettazione, sia la sussistenza dell’elemento soggettivo in assenza di elementi di prova certa in ordine alla provenienza illecita delle somme e, comunque, alla sua consapevolezza. Si deduce, ancora, la insussistenza del reato di ricettazione anche sotto il profilo della non configurabilità del reato presupposto.
Eccepisce, in ogni caso, che la motivazione è da ritenersi meramente apparente e, comunque, affetta da palese illogicità e contraddittorietà considerato che era stata provata un’attività di "lobbismo" interno alla Banca.
I motivi sono manifestamente infondati.
Con riguardo al dolo relativo ad entrambe le imputazioni, lo stesso è stato ritenuto sussistente, per lo meno nella forma del dolo eventuale, respingendosi, in tal modo, le doglianze difensive circa l’insussistenza in capo all’imputato dell’elemento soggettivo. Va in proposito ricordato che i difensori, nel giudizio di primo grado, avevano sostenuto che il B. non aveva, nè poteva avere, consapevolezza del fatto che le somme di denaro ricevute provenissero dal delitto di appropriazione indebita commesso dai vertici della B.P.L. in concorso con altri clienti e avevano ribadito tale convincimento in sede d’appello. A fronte di tale doglianza, è stato evidenziato, sia nella sentenza di 1^ grado che in quella di appello, che la ricostruzione della vicenda dimostrava che l’imputato aveva in più riprese ricevuto e richiesto ingenti somme di denaro che – proprio in considerazione dell’entità degli importi – non poteva essere ritenuto che provenissero dal patrimonio personale di F. e fossero da lui elargiti per mera liberalità. Inoltre l’imputato ben sapeva che l’A.D. era in grado di "dirottare" a beneficio di altri denaro di proprietà della banca avendo personalmente usufruito di tale "servizio" quando aveva ottenuto le considerevoli somme indicate ai capi 1-2 risultate provento dei delitti di appropriazione. Nessun dubbio, quindi, poteva avere il B. che F. potesse compiere altre operazioni di quello o di altro genere in pregiudizio dell’istituto ricavandone il denaro che gli consegnava o gli faceva pervenire.
A sua volta, la Corte d’Appello ha ribadito che il dolo, quanto meno eventuale, che ha sorretto il comportamento dell’imputato, era rinvenibile nelle del tutto anomale modalità di consegna del denaro e nel fatto che B. sapesse, avendolo sperimentato in occasione degli episodi di appropriazione indebita descritti ai capi 1 -2, che l’Amministratore F. era in grado di dirottare denaro della banca in favore di determinati clienti, sottolineando che ciò non significava però che il B. avesse concorso a commettere il reato presupposto, vale a dire l’impossessamento di somme di spettanza della banca, essendosi limitato a ricevere dal F., parte dei "fondi neri" da quest’ultimo costituiti.
E’ stato, in particolare, evidenziato come le stesse modalità delle consegne, poi, concorressero a dimostrare che l’imputato aveva consapevolezza dell’illecita provenienza delle somme che riceveva o, comunque, aveva concreti elementi per ritenerla.
Tutte le dazioni erano avvenute in contanti ed erano state effettuate direttamente da F. ovvero da uomini di sua fiducia ed, ogni volta, il denaro era stato occultato in una busta. La situazione fattuale era quindi tale da pienamente supportare il ragionevole convincimento che il B. si fosse seriamente rappresentato la provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed avesse consapevolmente scelto di riceverlo, accettando – pur di non rinunciare ai vantaggi che ne ricavava – di commettere il reato di ricettazione. Irrilevante era stabilire se l’imputato sapesse o meno che quel denaro proveniva dalla "cassa nera" ovvero da altri fondi realizzati con l’appropriazione indebita di disponibilità di pertinenza della banca poichè, in ambedue i casi, si trattava sempre di somme provento di reato. L’argomentazione che precede ha conseguentemente portato, prima il Tribunale, poi la Corte territoriale, a respingere correttamente l’ulteriore richiesta avanzata dalla difesa di ritenere sussistente in luogo del delitto ex art. 648 c.p., il concorso nel reato di appropriazione indebita contestato, negli altri procedimenti, a F., Bo., S. ed ai clienti privilegiati, e si è sottolineato che il B. non aveva partecipato alla commissione dei reati presupposti ma ne aveva ricevuto parte dei proventi. Ed, invero, con specifico riguardo alla qualificazione giuridica dei fatti in argomento – e, quindi, in ordine alla sussistenza del reato presupposto e alla qualificazione dello stesso come appropriazione indebita – osserva il Collegio, nel riportarsi alle argomentazioni già espresse nel corso della presente motivazione (cfr. motivi 5 e 6), che i giudici del merito hanno puntualmente esaminato e correttamente disattese le doglianze difensive ritenendo che dalla ricostruzione della complessiva attività illecita posta in essere da F., BO. e S., in concorso con i clienti privilegiati, era emerso con chiarezza che i dirigenti di BPL avevano disposto arbitrariamente "uti dominus" di denaro della banca sì da farne derivare, alla stessa, la perdita irreversibile ed avevano utilizzato il provento del reato distraendolo in favore proprio e della clientela selezionata procurando, in tal modo, a sè ed a terzi un ingiusto profitto. Parte delle somme, poi, erano state utilizzate per sovvenzionare la "cassa nera" cui attingere in caso di bisogno, come era accaduto in occasione delle dazioni di denaro operate in favore del B..
Ed è proprio dall’esame delle vicende relative all’odierno imputato che è emerso, secondo la logica e corretta interpretazione dei giudici del merito, con evidenza che i fondi occulti non erano destinati o, comunque, non erano ordinariamente destinati al perseguimento di scopi sociali, seppure con mezzi illeciti.
Con riferimento ai fatti di cui al capo 5) è stato adeguatamente sottolineato che non poteva certamente affermarsi che l’utilizzo dei fondi occulti fosse destinato al perseguimento di scopi sociali o di finalità aziendali posto che la banca, parte lesa delle appropriazioni compiute dai suoi dirigenti, aveva come proprie finalità quella di operare sul mercato finanziario incamerandone i profitti anche per avere le disponibilità per ampliare l’attività di concessione del credito e non, certo, quella di non veder candidata una persona che apertamente criticava una gestione che, sarebbe stato poi accertato, aveva cagionato un danno all’istituto.
Anche per quanto riguarda l’altra dazione di denaro in favore del B. è stato incisivamente sottolineato come il F. non aveva adempiuto al "rigoroso onere" di provare che la somma consegnata e facente parte del fondo occulto fosse destinata a finalità sociali ed, anzi, aveva fornito elementi di segno contrario. E veniva aggiunto che anche se si volesse ritenere che la creazione della provvista fosse stata in parte motivata dalla necessità di finanziare l’attività lobbistica, al fine di "predisporre" il terreno per la "scalata" Antonveneta e che ciò corrispondesse agli scopi sociali di BPL, si sarebbe comunque dovuto rilevare che l’episodio di cui si discute non rientrava in quel generale accordo che, a dire dell’A.D., era intervenuto con il B. in tale prospettiva. Anzi alla luce di quanto era emerso si poteva con certezza affermare che le dazioni effettuate in favore del B. dimostravano l’esatto contrario.
Le argomentazioni suddette rendono, pertanto, del tutto infondata la ulteriore doglianza, contenuta essenzialmente nell’undicesimo motivo, di illogicità e contraddittorietà della motivazione sol perchè era stata provata un’attività di lobbismo interno alla Banca. Tale circostanza è stata puntualmente presa in esame dai Giudici del merito ed esclusa negli episodi che erano oggetto di contestazione al B., sottolineando come non vi fossero elementi dai quali trarre il convincimento che tali fondi occulti fossero destinati al perseguimento di scopi sociali. Sul punto, per maggiore completezza, va precisato come, in sostanza, la questione proposta con i motivi in esame si risolva essenzialmente nella critica ad apprezzamenti di merito del Tribunale, il quale ha diffusamente e logicamente argomentato che alla luce di quanto era emerso dalle indagini poteva con certezza affermarsi che le dazioni effettuate in favore del B. provenivano da fondi occulti che erano stati utilizzati per finalità diverse dal perseguimento degli scopi sociali; a tale ricostruzione l’imputato aveva opposto, con l’atto di appello, una generica denuncia di erroneità, ribadendo le tesi difensive sostenute in primo grado, a fronte della quale il sostanziale rinvio alla motivazione del primo giudice effettuato dal giudice di appello, sia pure attraverso un’espressione sintetica ma chiara nella sostanza, si palesa pienamente legittimo.
12 Motivo.
Il dodicesimo motivo è manifestamente infondato.
Come già si è accennato, la Corte territoriale ha escluso che le dazioni di denaro contestate ai capi 5) e 6), così come accertate, realizzino il reato di cui alla L. n. 195 del 1974, art. 7, anzichè le contestate ricettazioni, per mancanza di prova che i "fondi neri" costituiti da F. avessero tale finalità. Circostanza tra l’altro più volte affermata nell’ambito delle motivazioni delle sentenze di merito dove è stato sottolineato che era stato proprio F. a fornire la prova che le somme consegnate e facente parte del fondo occulto non erano destinate a finalità sociali della Banca. Dalla ricostruzione che è stata fatta nella sentenza del Tribunale della complessiva attività illecita posta in essere da F., Bo. e S. in concorso con i clienti privilegiati è infatti emerso con chiarezza che i dirigenti di BPL avevano disposto arbitrariamente "uti dominus" di denaro della banca sì da farne derivare, alla stessa, la perdita irreversibile ed avevano utilizzato il provento del reato distraendolo in favore proprio e della clientela selezionata procurando, in tal modo, a sè ed a terzi un ingiusto profitto. E’ stato accertato che parte delle somme distratte erano state utilizzate per sovvenzionare la "cassa nera" cui attingere in caso di bisogno, come era accaduto in occasione delle dazioni di denaro operate in favore del B..
E’ stato sottolineato, come già si è ricordato, che proprio dall’esame delle vicende relative all’odierno imputato era emerso con evidenza che i fondi occulti non erano destinati al perseguimento di scopi sociali, seppure con mezzi illeciti.
A tale ricostruzione con l’atto d’appello l’imputato aveva genericamente denunciato che i reati di cui ai capi 5) e 6) dovevano essere qualificati come finanziamento illecito in quanto si trattava di finanziamenti o contributi erogati da un istituto di credito a favore di un partito (o anche di un singolo parlamentare) non deliberati dall’organo sociale competente e non regolarmente iscritti nel bilancio della società. Il giudice d’Appello, con espressione sintetica ma chiara nella sostanza, e, quindi, pienamente legittima, ha escluso che i fatti accertati potessero essere qualificati come violazione della L. n. 195 del 1974, art. 7 perchè mancava la prova che i fondi occulti avessero la finalità indicata dall’appellante.
14 Motivo.
Anche il 14 motivo è inammissibile, poichè la doglianza in esame si risolve nella critica ad un apprezzamento di merito del Tribunale che ha diffusamente e logicamente argomentato, utilizzando anche le dichiarazioni di S., F. e BO. le modalità di formazione nel 2001 della ed "cassa nera" alla quale il F. aveva attinto in caso di bisogno, come era avvenuto in occasione delle dazioni di denaro operate in favore del B. e a quest’ultimo contestate ai capi 5) e 6); attività illecita realizzata – come si è visto diffusamente – da F., BO. e S. in concorso con clienti privilegiati, giudicati separatamente, rispetto alla quale è stata sottolineata, con argomentazioni immuni da vizi logico-giuridici, l’estraneità del B. che, diversamente dai fatti contestati ai capi 1) e 2) non aveva concorso nella realizzazione delle appropriazioni indebite, ma aveva ricevuto parte dei proventi di tali reati. A fronte di tale precisa ricostruzione aderente alle emergenze processuali, l’imputato aveva opposto con l’atto d’appello una generica denuncia di erroneità e pretestuosità, a fronte della quale il sostanziale rinvio alla motivazione di primo grado effettuato dalla Corte – che, con motivazione sintetica, ha escluso il concorso del B. nei reati presupposti, essendosi egli limitato a ricevere dal F. dei "fondi neri" da quest’ultimo costituiti – si palesa pienamente legittimo.
15 Motivo.
Manifestamente infondata è anche la doglianza contenuta nel 15 motivo di ricorso relativa alla "dosimetria" della pena.
Questa Corte ha più volte affermato che solo se la determinazione della pena si discosta di molto dai minimi edittali deve evidenziare concretamente le ragioni per cui ha così quantificato la pena, facendo ricorso a tutti o ad alcuni dei parametri di cui all’art. 133 c.p., non potendo la motivazione esaurirsi nel ricorso a delle mere clausole di stile Nel caso in esame la pena base è stata fissata in maniera prossima ai minimi edittali e l’aumento per la continuazione è stato fissato nei minimi di legge ed è stato, inoltre, dato conto della valutazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p..
Alla stregua delle considerazioni finora svolte, ne consegue la manifesta infondatezza anche del primo, generale motivo e, quindi, la totale, completa inammissibilità del ricorso.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene equo liquidare in Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende. Dispone la trasmissione degli atti relativi alla dichiarazione di domicilio datata 3.3.2011 e alle relative notificazioni alla Procura della Repubblica di Milano per quanto di eventuale competenza.
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