T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, Sent., 14-12-2011, n. 3150

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso ritualmente notificato e depositato il sig. P.D.N., già presidente del Consiglio provinciale di Sondrio, e taluni consiglieri con lui, hanno impugnato la delibera n. 11 del 2011 con cui il Consiglio ha approvato una "mozione di sfiducia" nei suoi confronti, e lo ha conseguentemente revocato dalla carica. Con un successivo ricorso recante motivi aggiunti è stata poi censurata la delibera n. 12 del 2011 di elezione del nuovo presidente.

Il principale atto impugnato è stato adottato sulla base dell’art. 31, comma 3, dello statuto della Provincia (anch’esso impugnato), a mente del quale "il presidente del consiglio dura in carica per tutto il mandato consiliare, salvo che un terzo dei componenti il consiglio non ne chieda la cessazione dalla carica con mozione motivata, approvata con le stesse modalità previste per la sua elezione".

Nel caso di specie, la mozione poggia su di una triplice motivazione: a) erronea e parziale applicazione del regolamento concernente i lavori del consiglio; b) erroneità del calcolo concernente il numero legale in occasione della seduta del 26 novembre 2010; c) assunzione di una posizione pubblica in "aperto contrasto" con quanto deliberato dal consiglio, con specifico riguardo al progetto di parco eolico in località S. Marco, ove il sig. D.N. avrebbe agito "in nome e per conto" di altri enti territoriali coinvolti nella vicenda (in particolare, il Comune di Albaredo per S. marco, di cui il ricorrente è assessore).

Con riferimento a ciascuno di tali profili, il ricorrente ha elaborato una distinta linea difensiva: l’addebito sub a) sarebbe falso in fatto, e comunque generico; quello sub b) sarebbe da imputarsi ad un errore del segretario generale incaricato della verbalizzazione, che avrebbe sottostimato il numero di consiglieri effettivamente presenti; quanto al punto sub c), la circostanza non viene negata, ma si sottolinea che l’assunzione di una posizione politica da parte del presidente, con riferimento ad una vicenda cui la Provincia sarebbe estranea, non ne inficerebbe l’imparzialità nella conduzione dei lavori. Il ricorrente, infatti, muove dalla premessa in diritto secondo cui il presidente del consiglio provinciale è figura di garanzia, la cui revoca non può venire disposta per "motivazioni politiche", ma solo nei casi di reiterate e gravi violazioni di legge nell’adempimento dei compiti istituzionali.

Si rende necessaria, pertanto, una breve disamina in diritto dei profili generali implicati dalla questione, prima che essa sia affrontata specificamente.

La giurisprudenza parte dalla premessa per la quale il presidente del consiglio provinciale è organo disciplinato dalla legge dello Stato (in particolare, l’art. 39 del d.lgs. n. 267 del 2000), che gli assegna il compito di guidare i lavori dell’organo in modo imparziale: ne consegue che tale figura viene direttamente ad essere connotata da un tratto istituzionale, al quale debbono uniformarsi le fonti locali che si trovino ad occuparsene, e tra queste, in particolare, lo statuto provinciale.

La legge statale, che non prevede l’istituto della mozione di sfiducia nei confronti del presidente del consiglio, se da un lato non viene con ciò a sancirne l’irrevocabilità, dall’altro esclude che alla base di essa possa porsi la rottura di un rapporto fiduciario con la maggioranza, la cui sussistenza è denegata in origine.

La revoca, in armonia con la scelta compiuta a livello nazionale, potrà invece seguire alla persistente violazione dei compiti di garanzia assegnati al presidente, o comunque alla compromissione del profilo di neutralità che ad essi è consustanziale.

Posta in simili termini la questione, ben si comprende come si sia anche potuto sostenere che tale revoca possa essere approvata dal consiglio, quand’anche essa non sia contemplata dallo statuto (in questo senso Tar Lazio, sentenza n. 8881 del 2008; id. n. 710 del 2010), al quale, invece, altra parte della giurisprudenza si rivolge, per trovarvi il fondamento del relativo potere (Tar Catania, n. 12304 del 2011): difatti, se la deviazione dal modello istituzionale tracciato dal T.U. sugli enti locali si esaurisce in puntuali profili di violazione di legge, che sono apprezzati sulla base della normativa dello Stato, è implicitamente conforme al sistema tratteggiato da quest’ultima l’attivazione di un meccanismo di revoca, quali che siano le indicazioni fornite dalla fonte statutaria.

Tuttavia, questo Tribunale dubita che una simile svalutazione della competenza statutaria possa ancora predicarsi, nel vigore della revisione della seconda parte del Titolo V della Costituzione.

Per un verso, è noto che l’art. 117, secondo comma, lett. p) della Costituzione riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la legislazione, tra l’altro, in tema di "organi di governo": è tradizionale pensiero che con tale espressione debbano intendersi gli organi chiamati a definire l’indirizzo politico generale dell’ente, naturalmente nei limiti delle competenze di quest’ultimo, ovvero i soggetti tra cui si ripartiscono le funzioni di impulso e sviluppo dell’ azione politico – amministrativa.

Naturalmente, il novero degli organi di governo non può venire circoscritto secondo criteri astratti e predeterminati, posto che esso dipende dalla specifica conformazione che Costituzione e legge abbiano inteso imprimere all’ente di cui si discute.

Nel nostro caso, è significativo che l’art. 36 del d.lgs. n. 267 del 2000 individui tali organi nel consiglio, nella giunta e nel presidente della Provincia, e non rechi menzione del presidente del consiglio provinciale, la cui istituzione è regolata solo dal successivo art. 39: tale disposizione ne prevede l’elezione tra i consiglieri e gli affida "tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio", nonchè la formazione dell’ordine del giorno (comma 2) e la preventiva informazione ai consiglieri e ai gruppi consiliari circa i lavori (comma 4).

Sia l’omessa indicazione del presidente tra gli organi di governo, sia l’assegnazione di compiti estranei all’indirizzo politico, e piuttosto relativi alla conduzione dell’assemblea in veste di primus inter pares, militano nel senso che tale figura, a seguito della revisione dell’art. 117 Cost., abbia cessato di essere oggetto di una riserva esclusiva di competenza a favore della legislazione nazionale, riserva su cui, naturalmente, si era basata l’approvazione del T.U. sugli enti locali del 2000.

La giurisprudenza costituzionale, infatti, dopo una fase iniziale di ridimensionamento delle novità in tema di competenza sull’ ordinamento degli enti locali introdotte dalla riforma costituzionale per le Regioni a statuto ordinario (sentt. nn. 48 del 2003 e 377 del 2003) sembra, da ultimo, indirizzarsi verso il riconoscimento di uno spazio normativo impregiudicato dalla legge statale, concernente la "organizzazione" dell’ente (sentenza n. 324 del 2010). Da ultimo, sia pure con pronuncia di inammissibilità, si è suggerito che, per l’ipotesi in cui la competenza dello Stato non dovesse ritenersi "omnicomprensiva", verrebbe a configurarsi una potestà legislativa residuale della Regione (sentenza n. 261 del 2011).

Posto che l’art. 117, secondo comma, lett. p) Cost. enuclea dalla materia dell’ordinamento degli enti locali uno specifico, per quanto ampio, campo di intervento riservato alla legge nazionale, ne segue che, al di fuori di esso, trovano espansione le ulteriori fonti del diritto competenti, tra cui la legge regionale e lo statuto (il principio di cedevolezza della normativa statale innanzi alla fonte statutaria è già stato affermato in giurisprudenza: Cass. S.U. n. 12868 del 2005).

Altra novità significativa portata con sé dalla revisione costituzionale del 2001 è, infatti, l’abrogazione dell’art. 128 Cost., che riservava alla legge dello Stato la competenza a definire l’ambito di autonomia dell’ente locale, e l’introduzione del nuovo art. 114 Cost., ove si riconosce direttamente autonomia statutaria all’ente, secondo i principi fissati non già dalla legge, ma dalla Costituzione.

Come è ovvio, il principio di continuità dell’ordinamento giuridico prescrive l’osservanza del T.U. sugli enti locali per le parti oramai sottratte alla potestà legislativa dello Stato, fino a che la fonte divenuta competente non si appropri della materia: nel caso di specie, peraltro, non viene in discussione il delicato problema del riparto delle attribuzioni tra legge regionale e statuto provinciale, atteso che, in assenza di vincoli derivanti dalla prima, come nell’ipotesi della Regione Lombardia, la seconda si può espandere per i profili di organizzazione e funzionamento dell’ente che non siano legittimamente pregiudicati dalla normativa statale resa in forza della lett. p) dell’art. 117, secondo comma, Cost.

Lo statuto, svincolatosi dall’osservanza della legge della Repubblica, è ontologicamente diretto, anzitutto, alla disciplina delle modalità di funzionamento degli organi provinciali, che ne costituiscono, in forza dell’art. 114 Cost., un oggetto di specifica attribuzione secondo il criterio di competenza.

Come giova ribadire, la presente questione esime dall’interrogarsi sui limiti entro cui, eventualmente, a tali profili, si possa sovrapporre la legge regionale che sia ritenuta idonea ad intervenire nella materia dell’ordinamento degli enti locali, secondo il modello finora invalso nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome. Tuttavia, lo spazio da cui si è ritratta la competenza del legislatore statale ben può essere occupato, pur in difetto di normazione regionale, da parte della fonte espressiva di autonomia, con la quale si supera la perdurante applicazione della prima imposta dal principio di continuità dell’ordinamento giuridico.

Per effetto di simili passaggi argomentativi, si giunge alla conclusione che, nel vigente assetto costituzionale, e salva la sopravvenienza della legislazione regionale nel solo ambito consentitole dalla Costituzione, la disciplina del funzionamento interno del consiglio, e, all’interno di esso, del ruolo del suo presidente, debba essere rinvenuta nello statuto.

In linea astratta, pertanto, non è neppure più possibile escludere che quest’ultimo venga a rafforzare il rapporto di consonanza politica (l’espressione è impiegata dalla sentenza n. 12 del 2006 della Corte costituzionale, in opposizione alla fiducia in senso proprio) tra presidente e maggioranza consiliare, sia pure nell’ambito di un esercizio neutrale delle funzioni di organizzatore dei lavori assembleari (cfr. C.G.A. n. 69 del 2006).

In effetti, neppure lo statuto potrebbe discostarsi da un limite intrinsecamente legato alle funzioni esercitate dal presidente di un’assemblea rappresentativa, ovvero che questi agisca con imparzialità, nella scrupolosa osservanza della legge e dei regolamenti, al fine di permettere il libero e pieno dispiegarsi dei voti e delle opinioni, su cui si regge la formazione di una volontà democratica. Tale limite discende direttamente da principi costituzionali cui lo statuto è tenuto ad obbedire, posto che essa inserisce l’azione degli enti rappresentativi della popolazione locale nel circuito del pluralismo istituzionale, e con ciò, finanche nell’ambito di una concezione, peraltro largamente in crisi, meramente procedurale della democrazia, esige neutralità nell’applicazione delle regole che presiedono al confronto delle idee in seno alle assemblee.

Nel contempo, non è detto che ad un simile nocciolo duro di attribuzioni lo statuto non ne accompagni di ulteriori, o comunque che l’imprescindibile garanzia della legalità nella conduzione dei lavori si affianchi ad una valutazione compiuta dalla maggioranza consiliare con riferimento alle capacità politiche del presidente eletto, ed alle affinità che esse possano avere con l’orientamento condiviso da quella stessa maggioranza; in tal caso, lo statuto potrà allargare le maglie della revocabilità, fino alla rottura di una simile consonanza.

In altri termini: posto che al presidente del consiglio sono riconosciuti compiti in sé neutrali, è ad essi connaturata la garanzia dei diritti delle opposizioni e dei singoli consiglieri, sicchè sarebbe senz’altro sindacabile per eccesso di potere l’eventuale mozione di sfiducia approvata dalla maggioranza, allo scopo, forse non dichiarato, ma comunque apprezzabile tramite istruttoria, di castigare il presidente ligio ad un simile dovere. Ciò, tuttavia, non significa affatto che nomina e revoca del presidente non possano essere statutariamente indirizzati verso la costituzione o la dissoluzione di un rapporto basato sulla condivisione di una linea di indirizzo politico, che travalica la "fiducia sulla capacità dell’eletto di farsi garante del corretto funzionamento dell’organo", su cui è finora attestata la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V. n. 114 del 2006). Del resto, allo stato, il membro del consiglio eletto presidente continua ad esercitare le funzioni di consigliere, cosicché appare arduo negare in via assoluta che egli possa assumere, per volontà statutaria, una connotazione (anche) politica, oltre che istituzionale.

Certamente, il modello costituito dai Presidenti delle Camere, presidiato da regolamenti parlamentari e consuetudine costituzionale risalente al periodo statutario, escludono senza appello che essi possano ritenersi espressivi di una maggioranza. Tuttavia, bisogna guardarsi dall’illusione ottica, indotta dall’esperienza nazionale, secondo cui la conduzione di un’Assemblea, fermo il dovere di imparzialità connesso alle funzioni di tutela delle opposizioni, sia in sé incompatibile con un rapporto di consonanza politica rispetto alla maggioranza: anzi, specie nei sistemi maggioritari, non è raro che il presidente assuma una veste dichiaratamente militante, anche al fine di organizzare e dirigere i lavori dell’Assemblea in accordo con le linee programmatiche della maggioranza di governo (basti pensare al ruolo dello speaker presso il Congresso degli Stati Uniti).

Con ciò non si intende dire che un simile modello sia integralmente traslabile nell’ente locale, ma piuttosto che, in ogni caso, non vi sono preclusioni logiche ad immaginare un presidente che sia al contempo garante nell’applicazione delle regole di funzionamento dell’Assemblea e soggetto politicamente attivo.

Nel rinnovato assetto delle competenze costituzionali, pertanto, non si può cedere alla tentazione di disegnare a tavolino un ideal type di presidente dei consigli provinciali e comunali, per poi sovrapporlo alle scelte normative effettivamente compiute dallo statuto, e giudicare la legittimità di queste ultime alla luce del primo.

In questo senso, la linea di tendenza favorevole a confinare la revoca del presidente nell’alveo della violazione di legge affonda le proprie radici nella valorizzazione della dimensione amministrativa dell’ente locale, attivo quale centro di imputazione di interessi pubblici "di base", il cui apprezzamento matura sul piano della legalità dell’agire amministrativo. Tuttavia, con ciò si disconosce, alla fine, che riconoscimento e promozione delle autonomie locali significano, nel disegno costituzionale, anche proiezione di esse nel vasto mare dei processi di integrazione politica, la cui interazione genera dinamicamente le basi del pluralismo istituzionale.

Non è allora possibile chiudere gli occhi di fronte al carattere squisitamente politico delle scelte che gli organi di governo degli enti locali sempre più spesso compiono, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, e tagliare la via all’ingresso di una tale dimensione nella configurazione dei rapporti interni al consiglio.

Questo Tribunale, al fine di risolvere l’attuale controversia, intende per tale ragione attenersi al principio di diritto, secondo cui, in difetto di vincoli per la cui introduzione sia competente la legislazione regionale, ed al di fuori delle materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, spetta allo statuto della Provincia definire ruolo ed attribuzioni del presidente del consiglio provinciale, ed in particolare prevederne la revoca anche per motivi connessi alla rottura del rapporto di consonanza politica con la maggioranza assembleare, fermo il divieto di procedervi per il solo fatto che il presidente abbia agito con imparzialità nel garantire i diritti dei consiglieri e dei gruppi di opposizione.

Tale principio va ora applicato alla controversia pendente innanzi al Tribunale.

In via preliminare, peraltro, deve disattendersi l’eccezione di improcedibilità dei ricorsi per sopravvenuta carenza di interesse avanzata dalla difesa provinciale: essa si fonda sul fatto per cui il sig. D.N. ha pubblicamente dichiarato di non avere intenzione di assumere nuovamente l’incarico.

Tuttavia, se una simile circostanza è valsa ad escludere la sussistenza del periculum in mora con riguardo all’istanza cautelare avanzata dai ricorrenti, dall’altro è palese che persista l’interesse ad agire, legato anche ad un eventuale e pur sempre possibile ripensamento: in assenza di rinuncia al ricorso, l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse va apprezzata con estrema prudenza, e ritenuta nei soli casi in cui appaia evidente che nessuna utilità possa derivare al ricorrente dalla pronuncia di merito: tale non è evidentemente il caso nell’ipotesi a giudizio.

A tale proposito, va aggiunto che è, viceversa, fondata l’eccezione di inammissibilità del solo ricorso incidentale, posto che esso non è stato notificato all’unico controinteressato individuato dall’atto, ovvero al sig. P.P.F., eletto nuovo presidente del consiglio, e non costituitosi in giudizio.

Benché il ricorso per motivi aggiunti rechi nell’intestazione l’indicazione del sig. F. quale destinatario dell’atto in proprio, oltre che del consiglio di cui questi è "legale rappresentante", tuttavia la notifica è stata eseguita nei confronti del solo consiglio provinciale, ovvero dell’organo che ha deliberato l’atto impugnato, e non già personalmente nei riguardi del sig. F. quale controinteressato individuato dall’atto. A quest’ultimo la notifica è stata indirizzata esclusivamente quale rappresentante del consiglio. Ove si intenda radicare un giudizio nei confronti del controinteressato, si rende invece necessario che il ricorso gli sia notificato in tale veste, al fine di costituire il contraddittorio nei suoi confronti, rendendolo edotto del fatto che l’azione è esercitata anche verso di lui.

Tale profilo assorbe l’ulteriore rilievo, per il quale, in ogni caso, la notifica non sarebbe stata eseguita a mani proprie del sig. F. (nel senso che l’art. 139 c.p.c. non sia applicabile all’ufficio pubblico, la consolidata giurisprudenza amministrativa, tra cui, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, n. 659 del 2011; nel senso opposto, tra le altre, Cass. n. 7329 del 1993).

In ogni caso, l’inammissibilità del ricorso volto a conseguire l’annullamento dell’elezione del nuovo presidente, benché renda dubbio che l’eventuale caducazione della delibera di revoca del precedente presidente possa consentirne il reinsediamento in carica, ugualmente non incide sull’interesse ad una pronuncia che accerti l’illegittimità della revoca, anche con riguardo ad eventuali profili risarcitori.

Si rende perciò necessario affrontare il merito del ricorso principale: a soli fini di completezza, in questo peculiare caso, il Tribunale intende soffermarsi in via incidentale anche sulle censure dedotte con l’inammissibile ricorso per motivi aggiunti.

Su questo piano, va rilevato in via prioritaria che lo statuto della Provincia di Sondrio non ha rinunciato alla consueta collocazione del presidente del consiglio nell’alveo delle figure di garanzia, volte a costituire una cerniera tra maggioranza ed opposizione nello svolgimento dei lavori assembleari: di particolare rilievo, su questo piano, è la previsione (art. 31, commi 1 e 2) secondo cui tale soggetto è eletto dal consiglio a scrutinio segreto ed a maggioranza assoluta (il quorum scende alla maggioranza semplice alla terza votazione). Da un lato, elemento tipico delle investiture fiduciarie è il voto palese, attraverso il quale viene ad emergere con nettezza la maggioranza politica che designa il candidato alla carica; dall’altro lato, la fiducia rifugge dal crinale degli scrutini a quorum qualificato, cui invece si ricorre allo scopo di sollecitare la convergenza delle forze politiche su di un nome comunemente ben accetto, che possa garantire i diritti di tutti.

Se poi si pone lo sguardo sulle funzioni del presidente (art. 31, comma 5 dello statuto; art. 4 del regolamento del consiglio provinciale), va constatato che esse non deviano dai compiti istituzionali di organizzatore e guida dei lavori consiliari, esercitati al fine di assicurare "l’imparzialità e la difesa delle prerogative del consiglio e dei diritti dei consiglieri".

Tale contesto normativo suggerisce di escludere che lo statuto provinciale abbia inteso fondare l’elezione e la revoca del presidente del consiglio su di un elemento di consonanza politica tra maggioranza assembleare ed organo. Ciò non toglie, tuttavia, che ai fini della revoca (da approvarsi con le "stesse modalità previste per la sua elezione") l’art. 31, comma 3, si limiti ad esigere che essa sia approvata su mozione "motivata", mentre omette di indicarne le ragioni giustificatrici.

L’obbligo di motivare la mozione di revoca, unitamente alle garanzie procedurali da cui essa è assistita, conferma che lo statuto ha assegnato al presidente del consiglio un certo grado di stabilità, che ne escludono una sorta di rimozione ad nutum (ammesso per mera ipotesi che ciò sia possibile), e apre la via al sindacato del giudice amministrativo sul relativo processo decisionale. Le cause della revoca, pertanto, andranno ricavate combinando il carattere di garanzia del ruolo presidenziale, come emerge dallo statuto, con la discrezionalità politicoamministrativa a selezionare i fatti idonei ad incidere su di esso, che lo statuto tratteggia con larghezza.

La mancata specificazione delle ipotesi di revoca non autorizza perciò né a ritenere, come vorrebbe il ricorrente, che lo statuto sia per tale parte illegittimo, né che esso debba venire necessariamente eterointegrato con criteri di carattere pretorio, desunti dalla, peraltro assai scarna, normativa nazionale recata dal d.lgs. n. 267 del 2000, divenuta oramai incompetente in materia.

Nella logica dello statuto, piuttosto, l’omissione amplia lo spazio di apprezzamento concesso al consiglio per attrarre nell’area del rilevante, con riferimento al ruolo istituzionale del presidente, ipotesi ulteriori rispetto alla mera applicazione imparziale delle regole assembleari e allìequidistanza dalle parti politiche, su cui la giurisprudenza si è allo stato esercitata. Ciò a condizione che esse non sconfinino verso la rottura della (insussistente) consonanza politica, e non siano manifestamente inconferenti rispetto alla posizione istituzionale del presidente.

Tale omissione, in altri termini, acquisisce il significato giuridico di permettere alla maggioranza formatasi in consiglio (e non necessariamente stabile) di sostituire il presidente ogni qual volta, per fatti la cui sussistenza va allegata e dichiarata espressamente, sia venuta a mancare la fiducia che essa ha riposto non soltanto sulle modalità con cui questi ha gestito i lavori assembleari, ma anche sulla sua figura di uomo politico: gravi vicende personali che si riflettano oggettivamente sulla credibilità e sul prestigio della carica, in quanto capaci di assumere un più ampio rilievo politico; iniziative giudicate dannose per l’ente e la sua immagine; assunzione di posizioni pubbliche incompatibili con gli indirizzi consiliari, o comunque ritenute in contrasto con gli interessi della Provincia; dissidi insanabili, anche di natura personale, che rendano intollerabile la prosecuzione del rapporto di direzione dei lavori. Queste, ed altre, possono essere le cause della rimozione alla luce di una disposizione statutaria di estrema larghezza, che volutamente rifugge dalla tipicità, per allargarsi verso l’emersione di fattispecie di apprezzamento proprie della discrezionalità politicoamministrativa, per ciò stesso indeterminabili.

Indeterminabilità, tuttavia, non significa insindacabilità: si è pur sempre al cospetto di un atto amministrativo conoscibile dal giudice in forza dell’art. 113 Cost., la cui legittimità non può dunque ridursi all’osservanza delle garanzie procedimentali cui sono invece affidati i meccanismi di formazione e dissoluzione del rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo.

Il giudice amministrativo non si limiterà dunque a verificare la legalità del procedimento di revoca, ma accerterà altresì, con gli ampi poteri istruttori di cui oramai dispone, la sussistenza dei fatti storici posti a base della decisione, ove contestata in giudizio. In particolare, dovrà vigilare che vi sia corrispondenza tra le ragioni selezionate dallo statuto ai fini della revoca, o comunque desumibili implicitamente dal ruolo che tale fonte ha conferito all’organo, e lo scopo perseguito dall’atto nel caso concreto. Difatti, quand’anche lo statuto si allarghi fino all’ipotesi estrema della costituzione del rapporto di consonanza politica, resta fermo che la revoca dovrà comunque fondarsi su elementi che non siano manifestamente estranei alla sfera pubblica propria delle dinamiche politicoamministrative, senza trasmodare in censure che abbiano un rilievo meramente privato, o che, peggio ancora, investano l’esercizio dei diritti della persona garantiti dalla Costituzione e dalle fonti di diritto internazionale.

Come è poi ovvio, al di fuori di simili ipotesi, permane la discrezionalità del consiglio a soppesare in piena autonomia l’incidenza delle circostanze indicate nella mozione ai fini della revoca, rispetto alla quale il sindacato giurisdizionale ha un carattere esterno e debole (Cons. Stato, Sez. V, n. 1042 del 2004; id, n. 2970 del 2008).

Nel caso di specie, l’attribuzione al presidente di una funzione di garanzia, in parte connaturata al suo ruolo, ma qui accentuata dallo statuto, permette invece di escludere non solo (come è regola indefettibile) che la revoca possa muovere in realtà dallo scopo di procurarsi un soggetto più malleabile nel tutelare i diritti delle opposizioni, ma anche che, alla base di essa, si pongano dissonanze relative all’azione politica del gruppo assembleare cui nei fatti il presidente si ricollega, valutate alla luce della condotta osservata in qualità di membro del consiglio. Lo statuto, in altri termini, ha esercitato un’opzione (non l’unica possibile, come si è visto) che si può sintetizzare nella formula "fiducia nell’uomo politico", piuttosto che in quella, sottilmente diversa, di "fiducia nella linea politica dell’uomo".

Se così è, appare evidente che a giustificare sul piano della legittimità la revoca del sig. D.N. è già sufficiente il fatto, specificamente addebitatogli e da questi neppure negato, di avere assunto in pubblico una posizione, circa lo sviluppo del parco eolico di Albaredo di S.Marco, in contrasto con quanto deliberato in proposito dal consiglio provinciale, ed in rappresentanza del Comune di cui il presidente è assessore: un conflitto di interessi palesato, in altri termini, e capace in linea astratta di minare la fiducia del consiglio nella dedizione del proprio presidente (che ne ha la rappresentanza: art. 31 dello statuto) alla sola causa della Provincia. Né simile ragione rischia di mascherare la volontà di comprimere la posizione della minoranza, giacché la mozione proviene proprio da quest’ultima.

In questo caso, al presidente non viene contestata una certa scelta politica maturata in qualità di membro del consiglio, eventualmente divergente da quella della maggioranza consiliare che lo ha eletto, ma la divulgazione di una posizione che, per quanto estranea ai compiti istituzionali che gli competono, urta con quella del consiglio e si manifesta nel perseguimento della volontà di altro ente locale, con l’effetto di far venir meno la fiducia nell’uomo politico di curare al meglio, e di rappresentare fedelmente, gli interessi provinciali.

Sono per tali ragioni infondati, sia nel ricorso principale, sia in quello per motivi aggiunti: il primo motivo, nella parte in cui si lamenta la illegittimità dell’art. 31 dello statuto, per non avere esso predeterminato i casi di revoca del presidente; il secondo motivo (violazione di legge, artt. 39 e 52 del d.lgs. n. 267 del 2000, ed eccesso di potere), nella parte in cui si deduce che il sig. D.N., con riguardo alla questione del parco eolico, non avrebbe potuto "essere censurato politicamente per l’attività svolta in ambito di un diverso ruolo istituzionale", e comunque rimosso per ragioni estranee alla violazione dei suoi doveri di presidente del consiglio; il terzo motivo (eccesso di potere, in particolare difetto di istruttoria, insussistenza dei fatti, sviamento), con cui si evidenzia che il ricorrente sarebbe stato revocato per ragioni politiche, e sulla base di fatti generici e dubbi: limitatamente all’assorbente profilo sopra evidenziato, il fatto è specifico e, come si è visto, giustifica, sul piano della legittimità, la revoca.

Parimenti infondati sono: il primo motivo, nella parte in cui si lamenta che l’art. 31 dello statuto non garantirebbe al presidente adeguate garanzie difensive, e il quarto motivo (violazione del giusto procedimento; eccesso di potere), poiché al presidente non è stato inviato l’avviso di inizio del procedimento e poiché la delibera di revoca non è stata preceduta dal parere di legittimità del funzionario competente: il Tribunale condivide quanto statuito in merito dal Consiglio di Stato, nella citata sentenza n. 1042 del 2004, secondo cui la revoca del presidente "non può considerarsi assimilabile agli atti di autotutela, sottoposti a principi garantistici stringenti (partecipazione procedimentale, indicazione delle ragioni di interesse pubblico, ecc.)". Difatti, si è già rimarcato che essa merita di venire valutata alla luce del lato carattere di discrezionalità politicoamministrativa che la sorregge: esso assorbe i profili di garanzia formali del procedimento amministrativo nelle logiche del confronto pubblico all’interno di un’assemblea politicamente orientata.

Infondati sono anche: il sesto motivo aggiunto (violazione di legge; eccesso di potere) diretto contro la delibera di nomina del nuovo presidente, posto che essa non è stata preceduta da alcun "provvedimento amministrativo di rimozione e/o revoca e/o cessazione della carica" del sig. D.N.: la pretesa in diritto del ricorrente che l’approvazione della mozione di revoca sia seguita da altro atto amministrativo, in assenza del quale il presidente continuerebbe ad esercitare le sue funzioni, è del tutto priva di base legale. Il presidente cessa dalla carica con effetto immediato a seguito dell’approvazione della mozione, né si vede perché l’art. 31 dello statuto dovrebbe, come sostiene il ricorrente, aggravare la procedura, prescrivendo l’adozione di altro atto di rimozione; il settimo motivo aggiunto (violazione di legge; eccesso di potere), anch’esso svolto contro la seconda delibera impugnata, poiché il consiglio è stato convocato per l’elezione del nuovo presidente dal Presidente della Giunta, anziché dal sig. D.N., o comunque dal consigliere anziano, cui spetta l’esercizio delle funzioni presidenziali, in caso di "assenza o impedimento" del titolare (art. 31 dello statuto). Fermo quanto appena detto circa la cessazione dalla carica del ricorrente, va osservato che nella sostanza la censura contesta l’incompetenza del Presidente della Giunta a convocare l’assemblea, adducendo che essa si rifletta sulla legittimità della delibera: è assorbente rilevare che l’atto di convocazione, dal contenuto vincolato, ha pienamente raggiunto il proprio scopo, sicchè l’eventuale vizio di incompetenza sarebbe in ogni caso superato alla luce dell’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990.

Restano assorbiti i motivi di ricorso concernenti le ulteriori censure mosse al sig. D.N., atteso che la sola contestazione fin qui valutata è sufficiente a fondare la legittimità degli atti impugnati.

In conclusione, il ricorso principale è infondato, mentre il ricorso per motivi aggiunti è inammissibile.

La complessità della vicenda giustifica la compensazione delle spese.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione I), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così provvede:

dichiara inammissibile il ricorso recante motivi aggiunti e respinge il ricorso principale.

Compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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