Cassazione civile anno 2005 n. 1663 Diritto di ripresa

CONTRATTI AGRARI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con ricorso 8 novembre 1993 M. E. e I., premesso di essere proprietarie di un fondo in Nola, esteso are 73,3, condotto in affitto da C. M. in forza di contratto sorto in epoca prebellica, hanno dedotto di volere esercitare il diritto di ripresa di cui all’art. 42, della l. 3 maggio 1982, n. 203 chiedendo, per l’effetto, che il tribunale di Napoli, sezione specializzata agraria, in contraddittorio con la C., pronunciasse la cessazione del rapporto di affitto inter partes con condanna della convenuta al rilascio.
Costituitasi in giudizio la C. ha eccepito la improcedibilità della domanda per non avere avuto conoscenza della convocazione davanti all’I. e per non essere stata la domanda rivolta nei confronti di tutti gli eredi dell’originario affittuario, defunto, e non proposta dal soggetto interessato all’esercizio del diritto di ripresa, negando, altresì, la ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 42 della legge n. 203 del 1982.
Svoltasi l’istruttoria del caso il tribunale di Nola, sezione specializzata agraria, cui gli atti erano stati trasmessi per competenza territoriale, ha accolto la domanda e, per l’effetto, ha dichiarato risolto il contratto alla data del 10 novembre 1996 ordinando il rilascio del fondo al termine della annata agraria in corso e determinando la indennità di ripresa in lire 2.770.000 con declaratoria di improcedibilità della domanda riconvenzionale.
Gravata tale pronunzia in via princI.le da C. M. e in via incidentale da M. E. e M. I., la Corte di appello di Napoli, sezione specializzata agraria, con sentenza 23 maggio – 24 luglio 2001 ha rigettato entrambi gli appelli.
Per la cassazione di tale ultima pronunzia, notificata il 6 settembre 2001, ha proposto ricorso, affI.to a tre motivi e illustrato da memoria, C. M., con atto 26 ottobre 2001.
Resistono, con controricorso e ricorso incidentale, affI.to a due motivi, M. E. e I..

Motivi della decisione
1. I vari ricorsi avverso la stessa sentenza devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
2. Denunziando la C., con il primo motivo del proposto appello la sentenza del primo giudice per non avere, la stessa, integrato il contraddittorio nei confronti di tutti gli eredi di T. G., deceduto, originario affittuario del fondo e coniuge di essa concludente, la Corte di appello di Napoli ha disatteso la censura assumendo che nella famiglia coltivatrice, equiparabile alla società semplice, si applica il principio della amministrazione disgiunta da parte di tutti i partecipanti, con la conseguenza che quando non vi sia stata la nomina di un rappresentante ai sensi dell’art. 48 della l. 3 maggio 1982, n. 203 ciascuno dei suoi componenti può agire, anche sul piano processuale, in nome e per conto della famiglia nei confronti del concedente, con effetti anche per gli altri familiari, e il concedente può agire nei confronti di uno solo dei suoi componenti per la risoluzione del contratto senza necessità, nell’uno come nell’altro caso, di integrazione del contraddittorio nei confronti dei componenti la famiglia rimasti estranei al giudizio.
3. Con il primo motivo la ricorrente censura la riferita affermazione, contenuta nella sentenza impugnata denunziando "violazione e/o falsa applicazione dell’art. 49 legge n. 203 del 1982, 102 e 354 c.p.c., insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia rilevabile d’ufficio (art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.)".
Si osserva, infatti, da un lato, che la sussistenza di una impresa familiare coltivatrice non può formare oggetto di mere presunzioni nè di eventuali accertamenti ex officio in mancanza di specifiche allegazioni di parte, dall’altro, che essa concludente aveva dedotto, fin dal primo grado del giudizio che gli eredi del defunto T. G. erano autonomi contitolari del rapporto per esservi succeduti ai sensi dell’art. 49 della legge n. 203 del 1982 e, pertanto, nei confronti degli stessi si sarebbero resi necessari non solo la evocazione in causa ma anche la preventiva intimazione di disdetta e l’espletamento del tentativo di conciliazione.
4. il motivo non può trovare accoglimento.
A prescindere dalla applicabilità, o meno, del principio di diritto enunciato dai giudici a quibus alla fattispecie in esame, si osserva che giusta quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consulta di questa Corte regolatrice la parte che deduca la non integrità del contraddittorio non può limitarsi ad affermare che esistono altri soggetti, parti necessarie, del giudizio, con conseguente onere, per la controparte, e per il giudice, di accertare quali siano tali soggetti e i motivi per i quali deve integrarsi il contraddittorio nei loro confronti.
La parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio – infatti – ha l’onere non soltanto di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorzi necessari e di provarne la esistenza, ma anche quello di dimostrare i presupposti di fatto che giustificano l’integrazione (cfr. tra le tantissime, Cass. 22 luglio 2003, n. 11415; Cass., sez. un., 4 dicembre 2001, n. 15289).
La parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio – in altri termini – ha l’onere di indicare nominativamente le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari, di provarne l’esistenza, documentando, altresì, i presupposti di fatto che giustificano l’integrazione, ancorchè non sussista, a suo carico, anche l’onere di dimostrare la esistenza in vita di tali soggetti, la loro residenza, domicilio o dimora abituale (Cass. 18 ottobre 2001, n. 12740).
Certo quanto precede, pacifico che a norma dell’art. 49, comma 3, della l. 3 maggio 1982, n. 203 in caso di morte dell’affittuario il contratto di affitto si scioglie alla fine della annata agraria in corso, salvo che tra gli eredi vi sia persona che abbia esercitato e continui a esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore a titolo principale è di palmare evidenza che era onere della C.:
– da un lato, indicare, nominativamente, gli altri eredi (oltre essa concludente) del defunto T.;
dall’altro, contemporaneamente, dedurre e dimostrare, che costoro avevano esercitato (in vita del dante causa) e continuato a esercitare (dopo la sua morte) attività agricola in qualità di coltivatori diretti o di imprenditori a titolo principale.
Attesa, per contro, la assoluta genericità delle difese della C. che pur deducendo la non integrità del contraddittorio non ha mai indicato, almeno nel presente ricorso, neppure il nominativo dei soggetti pretermessi, nè ha documentato il titolo in forza del quale essi dovrebbero partecipare al giudizio (dimostrando, da un lato, che gli stessi sono eredi del defunto T., dall’altro, che si trovavano nella condizione per potere invocare la prosecuzione del contratto di affitto) è palese che il motivo in esame deve rigettarsi.
5. Nell’accogliere la domanda attrice i giudici del merito hanno accertato che erano risultate provate, in causa, tutte le condizioni di legge per l’esercizio del diritto di ripresa (di cui all’art. 42, della l. 3 maggio 1982, n. 203). infatti:
– Alessandro e Aurelio ESPOSITO, forniti entrambi del diploma di perito agrario, sono equI.rati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1982 ai coltivatori diretti;
– entrambi gli equI.rati sono di età inferiore a 55 anni;
– le ricorrenti M. si sono obbligate, nella disdetta, a fare coltivare il fondo per un periodo non inferiore a nove anni dai predetti equI.rati;
– non risulta che le ricorrenti siano nel godimento di altri fondi.
6. Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza gravata nella parte sopra riassunta denunziando "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 e 42 legge n. 203 del 1982, omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti".
Si osserva infatti, da un lato, che non è stata provata la esistenza, in capo agli equI.rati, nel cui interesse è stata esercitata l’azione, di una forza lavorativa pari a un terzo della forza lavoro occorrente per le esigenze culturali del fondo di cui è chiesto il rilascio, dall’altro, che è mancata nella sentenza gravata, qualsiasi motivazione in ordine alla specifica questione relativa alla capacità lavorativa dei beneficiari del diritto di ripresa.
7. La deduzione è manifestamente infondata.
In conformità a una più che consolI.ta giurisprudenza di questa Corte regolatrice, ai osserva, in diritto:
– da un lato, che in tema di diritto di impresa, il soggetto equI.rato al coltivatore diretto a norma dell’art. 7, comma 2, l. 3 maggio 1982 n. 203, qualora possa, da solo, vantare una capacità lavorativa (manuale o intellettuale) tale da coprire un terzo della forza lavorativa occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo, non ha alcuna necessità di avere, altresì, nella propria famiglia "almeno una unità attiva coltivatrice diretta di età inferiore ai 55 anni" (tra le tantissime, in tale senso, ad esempio, Cass. 26 novembre 1997, n. 11880);
dall’altro, che anche il diritto di ripresa attribuito all’equI.rato al coltivatore diretto è subordinato alla condizione, prevista dalla lett. d) art. 42 legge n. 203 del 1982, che colui per il quale è esercitata la ripresa non si trovi nel godimento di fondi idonei ad assorbire più di metà della forza lavorativa familiare e che per accertare tale condizione è peraltro necessario considerare la peculiarità del lavoro, eminentemente intellettuale, svolto dal tecnico agrario, idoneo ad esplicarsi convenientemente in un’area più vasta di quella capace di esaurire la forza lavorativa, princI.lmente manuale, del coltivatore diretto (Cass. 15 dicembre 1987, n. 9288, secondo la quale la coltivazione di dieci ettari di oliveto non è idonea ad assorbire più della metà della "capacità direzionale" del soggetto – laureato in agraria – per il quale sia stata esercitata la ripresa).
Certo quanto sopra e pacifico, in linea di fatto, da un lato, che il fondo di cui è stato richiesto il rilascio è esteso meno di un ettaro (mq. 7330), dall’altro, che la ripresa è stata esercitata nell’interesse di due soggetti equI.rati (in quanto forniti di diploma di periti agrari) aventi entrambi età inferiore a 55 anni, e che non risulta che gli stessi abbiano a disposizione altri fondi, è di palmare evidenza che la capacità lavorativa degli stessi è più che sufficiente a coprire le necessità del fondo.
8. Come riferito in parte espositiva i giudici di primo grado, accolta la domanda di ripresa formulata dalle attrici a norma art. 42, l. 3 maggio 1982, n. 203, hanno – contestualmente – liquI.to, in favore della C. (ex art. 43 stessa legge n. 203 del 1982), un indennizzo per essere stata pronunziata la incolpevole risoluzione del contratto di affitto inter partes, determinandone la misura in 10 annualità del canone corrisposto dalla conduttrice C. (e, quindi, in lire 2.770.000).
Censurando la C. tale capo della pronunzia per avere i primi giudici reso lo stesso ex officio e, cioè, pure in assenza di una espressa formale richiesta dei concedenti, accorte di appello di Napoli, sezione specializzata agraria ha rigettato la censura ritenendola inammissibile.
Hanno osservato, infatti, quei giudici che la impugnazione è legata all’interesse concreto a ottenere il bene della vita negato dal primo giudice e che nella specie, essendo stato attribuito, dal tribunale, alla C., l’indennizzo spettantele previsto dalla legge la stessa non ha alcun interesse a impugnare il punto della decisione a lei favorevole.
9. Con il terzo motivo la ricorrente princI.le censura tale capo della statuizione dei giudici di appello denunziando "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 43, l. n. 203 del 1982 e 112 c.p.c., insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.)".
Si osserva, infatti, da un lato, che la giurisprudenza di questa Corte ha sempre affermato che l’indennizzo in questione non può essere liquI.to d’ufficio, ma solo su espressa richiesta della parte, nel caso di specie assente, con conseguente violazione del precetto di cui all’art. 112 c.p.c., dall’altro che, comunque, nella determinazione dell’indennizzo in parola il giudice deve tenere conto della produttività del fondo, degli anni per i quali il rapporto sarebbe dovuto proseguire e tutti gli altri elementi ricorrenti nella specie, nel caso concreto totalmente trascurati.
10. La deduzione è inammissibile.
Oggetto del ricorso per Cassazione – giusta la testuale previsione di cui all’art. 360, comma 1, prima parte c.p.c. – sono "le sentenze pronunziate in grado di appello o in unico grado".
Investendo, nella specie, il ricorso proposto dalla C. la sentenza resa dalla corte di appello di Napoli, sezione specializzata agraria, in esito all’appello dalla stessa proposto avverso la sentenza del Tribunale di Noia, sezione specializzata agraria, è di palmare evidenza che possono essere oggetto di censura, in questa sede, esclusivamente affermazioni contenute nella sentenza di secondo grado.
Pacifico quanto sopra, pacifico che nella specie – come riferito sopra – i giudici di appello non hanno esaminato, nel merito, le censure mosse dalla appellante C. alla sentenza del primo giudice, quanto alla liquI.zione e quantificazione dell’indennizzo di cui all’art. 43, legge n. 203 del 1982, ritenendo le censure stesse "inammissibili" perchè non suffragate da alcun interesse (cfr. art. 100 c.p.c.), è di palmare interesse la inammissibilità del motivo di ricorso di Cassazione in esame.
Con lo stesso, infatti, si prospettano non vizi in cui è incorsa la sentenza ora oggetto di ricorso per Cassazione nel rigettare l’appello a suo tempo proposto dalla C. (unici vizi denunciaceli in questa sede, come precisato in precedenza) ma vizi della sentenza di primo grado.
E’ di palmare evidenza, pertanto, la inammissibilità della deduzione in esame, in quanto in alcun modo riferibile alla decisione impugnata.
In realtà era onere della ricorrente, previamente, denunziare e dimostrare l’errore in cui erano incorsi i giudici dell’appello nel negare il suo "interesse" al motivo di appello relativo alla determinazione della indennità di cui si discute, e, quindi, ottenuta la cassazione della decisione del giudice di appello quanto alla ritenuta inammissibilità del motivo di appello, sollecitare un nuovo esame della censura già invano prospettata nell’atto di appello.
Essendo mancata qualsiasi censura, del capo della sentenza di secondo grado in punto dichiarata inammissibilità del quarto motivo di appello, è evidente che tale capo della sentenza di appello è passato in cosa giudicata e che inammissibile è il terzo motivo del ricorso princI.le.
11. I giudici di appello, ancora, come riferito in parte espositiva, oltre a rigettare l’appello princI.le della C., hanno disatteso, altresì, l’appello incidentale delle M., sia quanto al mancato riconoscimento del diritto delle stesse a una condanna, generica, al risarcimento dei danni ex art. 1591 c.c. per tardiva restituzione del fondo da parte della conduttrice, sia in merito alla disposta compensazione – da parte del primo giudice – delle spese di lite del primo grado di giudizio.
12. Con il primo motivo del loro ricorso incidentale le M. denunziano la sentenza gravata lamentando "violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1591 c.c.", atteso, da un lato, che l’art. 1591 c.c. fa "salvo" "l’obbligo" del conduttore in mora nel restituire la cosa locata, "di risarcire il maggior danno" rispetto al canone convenuto alla controparte, dall’altro, che la giurisprudenza di questa Corte regolatrice è costante nel ritenere la natura contrattuale della responsabilità dell’affittuario per il ritardo nella restituzione.
13. La deduzione è inammissibile sotto diversi, concorrenti, profili.
13.1. In primo luogo la stessa non pare conforme al modello di cui al combinato disposto di cui agli artt. 360 n. 3 e 366, n. 4 c.p.c..
In conformità, in particolare, a una giurisprudenza più che consolI.ta di questa Corte regolatrice, da cui totalmente prescinde parte ricorrente e che nella specie deve ulteriormente ribadirsi – infatti – il ricorso per Cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata.
Il riferito principio comporta – in particolare – tra l’altro che è inammissibile il ricorso nel quale non venga precisata la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, non essendo al riguardo sufficiente un’affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi tra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la sentenza impugnata (Cass. 15 febbraio 2003, n. 2312).
In altri termini, quando nel ricorso per Cassazione, pur denunciandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate – o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina – il motivo è inammissibile, poichè non consente alla Corte di Cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 28 ottobre 2002, n. 15177; Cass. 16 luglio 2002, n. 10276).
Pacifico quanto precede non controverso che nella specie tutto il motivo si esaurisce nella trascrizione dell’art. 1591 c.c., nonchè di alcune massime di questa Corte Suprema, è palmare la inammissibilità del motivo per violazione dell’art. 366 n. 4 c.p.c., atteso che non dato comprendere quali siano le critiche che le ricorrenti hanno inteso svolgere alla sentenza gravata, sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c., nella parte in cui detta sentenza ha rigettato il loro appello incidentale quanto alla mancata condanna della controparte al risarcimento dei danni, da liquI.re in separata sede, per tardivo rilascio del fondo al termine della cessazione del rapporto.
13.2. Anche a prescindere da quanto precede il motivo è inammissibile perchè non esiste alcuna correlazione tra la censura – inammissibilmente come osservato sopra – svolta e la ratio decidendi della sentenza gravata.
Quest’ultima, infatti, ha – sul punto testualmente, affermato "l’appello incidentale è manifestamente infondato e va rigettato", atteso che "nessuna prova è stata fornita in ordine agli asseriti danni per il ritardato rilascio del fondo rustico coltivato in affitto dalla C.".
E’ palese, pertanto, che la domanda è stata rigettata non per "violazione e falsa applicazione" dell’art. 1591 c.c. in tema di danni per ritardata restituzione della cosa oggetto di locazione o di affitto, ma, eventualmente, o per la erronea valutazione delle risultanze istruttorie, atteso che dagli atti di causa risultava la prova dei lamentati danni, o, per violazione del disposto dell’art. 278 c.p.c..
Mancando, nel motivo, ogni censura sotto i riferiti profili, è evidente, come anticI.to, la inammissibilità della deduzione.
14. Parimenti inammissibile si appalesa, altresì, il secondo motivo del ricorso incidentale, atteso che le ricorrenti pur dolendosi della mancata attribuzione, da parte del giudice di appello, delle spese del giudizio di primo grado non hanno in alcun modo esposto le ragioni del loro dissenso, rispetto alla motivazione addotta dai giudici di appello, allorchè questi hanno, testualmente, affermato essere "noto che rientra nei poteri discrezionali la valutazione della opportunità della compensazione totale o parziale delle spese, con il solo limite di non condannare il vincitore alle spese". 15. Entrambi i ricorsi, in conclusione, risultati totalmente infondati, devono rigettarsi, con compensazione, tra le parti, delle spese di questo giudizio di Cassazione.

P. Q. M.
LA CORTE riunisce i ricorsi e li rigetta;
compensa tra le parti le spese di questo giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 9 dicembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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