Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-05-2012, n. 8021 Rinunzia all’eredità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza resa pubblica il 7 febbraio 2006, la Corte d’appello di Milano respingeva il gravame interposto da V. R. avverso la sentenza del Tribunale della medesima città che, a sua volta, aveva rigettato le domande di petizione di eredità e di (conseguente) divisione dallo stesso proposte nei confronti della sorella V.T. e della madre F.R..

La Corte territoriale, nel confermare la decisione di primo grado (della quale trascriveva e faceva propria la motivazione), rilevava:

che V.R., con atto del 9 settembre 1982, aveva formalmente rinunciato all’eredità del padre V.G., deceduto il (OMISSIS), ancor prima, dunque, di poter beneficiare della qualità di erede puro e semplice in base al meccanismo previsto dall’art. 475 cod. civ., incentrato sulla mancata redazione dell’inventario nei tre mesi dall’apertura della successione; che la revoca formale della rinuncia (intervenuta il 9 giugno 1995) non poteva avere effetto ai sensi dell’art. 525 cod. civ., in quanto espressa dopo dieci anni dall’apertura della successione; che, in ogni caso, alla data del 14 ottobre 1982 V.T. e F.R. erano divenute eredi pure e semplici per diritto di accrescimento, secondo il combinato disposto degli artt. 522 e 676 cod. civ., non avendo provveduto alìinventario dei beni ereditari dei quali erano in possesso al momento della morte del de cuius e nè avendo V.R., nel periodo intercorrente da detto decesso al (OMISSIS), tacitamente accettato l’eredità, in assenza di atti di gestione della stessa, che non potevano ravvisarsi nella mera prosecuzione della conduzione della abitazione familiare, nell’utilizzo di taluni locali di essa per la gestione di una galleria d’arte non facente parte del compendio ereditario, nell’effettuazione di spese di manutenzione e, altresì, in mancanza di prova sul pagamento dei pesi ereditari; che era inammissibile, in quanto tardivamente proposta soltanto in sede di memoria di replica conclusionale in primo grado, l’allegazione sull’insussistenza del diritto all’accrescimento delle coeredi per rappresentazione della figlia del rinunciante, nata il (OMISSIS) e, dunque già concepita al momento della morte del de cuius;

che, peraltro, la stessa allegazione era infondata, sia per assenza di una accettazione della quota ereditaria rinunciata da parte della chiamata per rappresentazione, sia per mancata accettazione tacita da parte del rinunciante nel periodo prescrizionale ordinario.

2 . – Per la cassazione della predetta sentenza ha proposto ricorso V.R., affidando l’esito dell’impugnazione a sei distinti motivi di doglianza.

Resiste con controricorso V.T., in proprio e quale erede di F.R..

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo di ricorso è denunciata l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata, giacchè essa si sarebbe limitata a recepire la sentenza di primo grado, senza fornire ulteriore supporto alla decisione assunta in sede di gravame e mancando di motivare sulla ritenuta infondatezza delle doglianze dell’appellante.

1.1. – Il motivo, anche a prescindere dalla genericità della relativa prospettazione, è comunque infondato, perchè la sentenza impugnata, nel trascrivere le motivazioni della decisione di primo grado, alle quali ha argomentatamente aderito, e nel confutare le censure ad essa mosse dall’appellante (pagg. 14/17 della sentenza), si è adeguata al consolidato principio enunciato da questa Corte in forza del quale è da reputare conforme allo schema legale dettato dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, precipitato del vincolo costituzionale recato dall’art. 111 Cost., comma 8, la motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in riferimento ai motivi di impugnazione proposti, cosi da rendere appagante e corretto il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze (Cass., sez. 3, 11 giugno 2008, n. 15483; Cass., sez. 2, 16 febbraio 2007, n. 3636; Cass., sez. 3, 2 febbraio 2006, n. 2268).

2. – Con il secondo motivo è denunciata la violazione degli artt. 474 e 476 cod. civ., nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione.

Ci si duole che la Corte territoriale non abbia motivato sui motivi di gravame concernenti la statuizione di primo grado che escludeva la sussistenza di una accettazione tacita in capo ad esso attore, sebbene esso avesse dettagliatamente esposto le ragioni che avrebbero dovuto condurre ad un contrario avviso. In particolare, esse non si esaurivano nell’allegazione di aver abitato una delle case facenti parte dell’eredità paterna, ma riguardavano anche ulteriori fatti:

la continuazione dell’attività del padre presso la Galleria d’arte dal medesimo ereditata; l’attività di manutenzione straordinaria di tutti gli immobili facenti parte del complesso di (OMISSIS); la presentazione, nell’anno 1991, di sanatoria al Comune di (OMISSIS) per opere edilizie abusive concernenti gli immobili ereditari; la predisposizione dell’atto di esercizio del diritto di prelazione, avendo l’intenzione di vendere la proprio quota di beni immobili ereditati; la proposizione della domanda di divisione giudiziale dell’eredità; il pagamento di somme relative alla successione ereditaria. In definitiva, si trattava di fatti, trascurati dal giudice di primo grado e disattesi da quello d’appello, indicanti la volontà, continuativamente e concretamente espressa per lunghi anni, di essere proprietario e, dunque, erede, rilevando a tal fine, peraltro, "l’animus dell’agente e la volontà dalla quale l’atto precede, più che l’atto materialmente considerato". 2.1. – Il motivo è inammissibile.

Quanto alla denunciata violazione degli artt. 474 e 476 cod. civ., essa è soltanto predicata nella rubrica del motivo, ma resta priva di qualsivoglia supporto argomentativo in ordine alla pretesa erronea o falsa applicazione di dette norme da parte della sentenza impugnata (vedi, tra le altre, Cass., sez. 3, 27 giugno 2007, n. 14832).

Invero, la doglianza si concentra piuttosto sul dedotto vizio di carenza di motivazione, che, però, è anzitutto privo di consistenza, giacchè la Corte milanese, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, ha preso in specifica considerazione tutti i comportanti ai quali lo stesso V. annette specifica concludenza al fine di una sua accettazione tacita dell’eredità, sia richiamando adesivamente la sentenza di primo grado, sia motivando direttamente sulle censure ad essa portate dall’appellante (v. quanto già posto in evidenza nella parte espositiva della presente decisione), alfine valutando i fatti addotti dal V. non già come espressivi della sua volontà di accettazione dell’eredità, bensì ascrivibili al novero degli atti conservativi e, comunque, non riconducibili ad una pro herede gestio.

Posto, dunque, che la motivazione della sentenza gravata non pecca di insufficienza, la censura del ricorrente si risolve in una critica, oltretutto assai generica, dell’apprezzamento dei fatti e delle risultanze processuali operato dal giudice d’appello, proponendosi di essi una lettura alternativa e favorevole alla parte. Peraltro, secondo l’insegnamento di questa Corte, l’indagine sulla sussistenza dell’accettazione tacita di eredità è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito (v. , tra le altre, Cass., sez. 2, 27 giugno 2005, n. 13738) e, per ciò che attiene al raggiungimento della relativa prova, "devono ritenersi privi di rilevanza tutti quegli atti che, ammettendo come possibile altra interpretazione, non denotino in maniera univoca un’effettiva assunzione della qualità di erede, secondo l’accertamento insindacabile del giudice del merito" (Cass., sez. 2, 17 ottobre 1978, n. 4639).

Donde l’inammissibilità della doglianza, che intende demolire il ragionamento del giudice di merito senza evidenziarne incongruità o illogicità, le quali soltanto avrebbero potuto, nella specie, aprire la porta al sindacato di questa Corte, altrimenti non consentito (tra le tante, vedi Cass., sez. 6-5, 6 aprile 2011 n. 7921; Cass., sez. lav., 12 agosto 2004, n. 15693; Cass., sez. lav., 7 agosto 2003, n. 11936 del 2003).

3. – Con il terzo motivo è dedotta la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2735 cod. civ..

Si assume che la volontà del ricorrente di accettare l’eredità è da sempre stata riconosciuta dalle coeredi, che soltanto in tempi recenti hanno inteso rivendicare la proprietà esclusiva dei bene ereditari. In tal senso, deporrebbero "anche le dichiarazioni a firma F.R. (di cui ai docc. 11 e 12 del fascicolo di primo grado) in cui pacificamente viene confermata la qualità di coerede in capo a V.R.", le quali, pur costituendo ulteriore conferma dell’animus proprietario di quest’ultimo, non sarebbero state apprezzate dalla Corte d’appello, in forza dell’artt. 116 cod. proc. civ. e, "per quanto riguarda la dichiarazione resa da F.R.", dell’art. 2735 cod. civ. 3.1. – Il motivo difetta, anzitutto, di autosufficienza là dove, rimanendo ad uno stadio di petizione oltremodo generica, non indica quali siano le specifiche risultanze istruttorie dalle quali si dovrebbe ricavare l’asserito riconoscimento della qualità di erede in capo al ricorrente da parte delle coeredi.

Quanto poi alla pretesa dichiarazione confessoria resa dalla F., non è censurata la affermazione della Corte d’appello che ha ritenuto essa, ove riscontrabile, del tutto priva di valore in ragione della "indisponibilità dei diritti inerenti lo status di erede".

Invero, tale motivazione, alla quale si aggiunge quella sulla irrilevanza di quanto abbiano potuto opinare le coeredi sulla qualità di erede del rispettivo figlio e fratello (p. 12 della sentenza impugnata), svuota, di per sè, la doglianza di ogni consistenza, giacchè essa inette comunque in risalto l’inidoneità allo scopo di un riconoscimento di detta qualità, isolatamente considerato, intervenuto dopo la rinuncia all’eredità ed all’accettazione della stessa da parte delle coeredi, alla stregua di quanto si desume nel sistema delineato dagli artt. 519 e 525 cod. civ. in tema di rinunzia all’eredità (Cass., sez. 2^, 12 ottobre 2011, n. 21014; Cass., sez. 2^, 23 gennaio 2007, n. 1403).

Del resto, ad ulteriore conforto della bontà della soluzione in diritto adottata dal giudice d’appello è sufficiente rammentare come questa Corte abbia già in precedenza escluso che l’accordo concluso tra il rinunziante ed i soggetti acquirenti dell’eredità possa far rivivere la delazione originaria del rinunziante (Cass., sez. 2^, 9 settembre 1998, n. 8912) e ciò sia per il suo carattere indisponibile, sia in ragione del principio semel heres semper heres, in forza del quale chi abbia accettato l’eredità non può più legittimamente rinunciarvi, essendo l’accettazione, a differenza della rinuncia, un atto puro ed irrevocabile, secondo quanto giusto prevede l’art. 475 cod. civ..

Ove poi il ricorrente avesse con la censura in esame inteso colpire ancora una volta la valutazione complessiva delle risultanze processuali effettuata dalla Corte territoriale in ordine alla (mancata) accettazione tacita di eredità, oltre alle considerazioni che aprono l’esame della presente denuncia, valgono a rendere il motivo inammissibile le argomentazioni ancor prima esplicitate nello scrutinio del secondo motivo.

4. – Con il quarto motivo è denunciata la violazione degli artt. 245, 257 e 177 cod. proc. civ. e vizio di motivazione.

Il giudice di primo grado avrebbe respinto la domanda attorea in quanto non provata, "pur non avendo proceduto all’escussione di tutti i testimoni indicati", e la Corte territoriale avrebbe genericamente affermato l’esistenza, in capo a detto giudice, del potere di limitare la lista testimoniale, altresì argomentando sull’ammissione dei capitoli di prova dei quale "non potrebbe fcout court reiterata la richiesta di ammissione". Con ciò, non solo la motivazione sarebbe omessa per quanto concerne la prova testimoniale, mentre sarebbe insufficiente in relazione ai capitoli di prova, ma sarebbero anche state violate le norme anzidette, giacchè la riduzione della lista avrebbe dovuto operarsi soltanto in caso di "testimoni sovrabbondanti", mentre l’istruttoria non è stata proseguita nonostante poi si sia ritenuto che la prova sul diritto azionato non era stata raggiunta, senza aver il giudice disposto l’audizione dei testimoni esclusi ed aver revocato l’ordinanza istruttoria. Sicchè, sia il giudice di primo grado, che quello d’appello avrebbero potuto disporre l’ammissione delle ulteriori prove, la cui rilevanza era stata comunque espressa nell’atto di impugnazione, senza che vi fosse necessità per esso appellante, in relazione ai capitoli di prova, "di reiterare la richiesta ammissione delle prove argomentando in senso contrario rispetto all’ordinanza di esclusione delle stesse". 4.1. – Il motivo è infondato ove censura la riduzione della lista testimoniale ritenuta sovrabbondante dal giudice del merito, giacchè questo costituisce un potere tipicamente discrezionale, non censurabile in sede di legittimità, ed esercitabile anche nel corso dell’espletamento della prova, potendo il giudice non esaurire l’esame di tutti i testi ammessi qualora, per i risultati raggiunti, ritenga superflua l’ulteriore assunzione della prova (Cass., sez. 3, 22 aprile 2009, n. 9551 del 2009; Cass., sez. lav., 16 agosto 2004, n. 15955).

E’ poi inammissibile nella parte in cui si lamenta la mancata ammissione di taluni capitoli di prova, posto che, in spregio al principio di autosufficienza, il ricorrente non solo ha omesso di trascriverli nell’atto di impugnazione, ma anche di indicare le circostanze di fatto che formavano oggetto della disattesa istanza istruttoria (ex plurimis, Cass., sez, 3, 12 giugno 2006, n. 13556;

Cass., sez. 6-L, 30 luglio 2010, n. 17915), in tal modo impedendo a questa Corte di apprezzare la decisività del fatto da provare, invero neppure allegata dal ricorrente. In tal senso, la contraddittorietà che si imputa alla sentenza impugnata rimane priva di sostanza, posto che neppure nel ricorso si specificano le circostanze di prova, su fatti decisivi, su cui i testi ritenuti sovrabbondanti avrebbero dovuto deporre.

5. – Con il quinto motivo ci si duole della violazione degli artt. 480, 485 e 525 cod. civ., nonchè di omessa motivazione. Si contesta la correttezza della decisione là dove essa avrebbe ritenuto che il termine per revocare la rinuncia all’eredità sarebbe scaduto il 14 ottobre 1982, allorchè le coeredi, nel possesso dei beni ereditar, avrebbero di fatto accettato l’eredità stessa ex art. 485 cod. civ. anche nella quota oggetto di rinuncia.

A tal fine, il V. deduce che le coeredi non avrebbero mai provato l’accettazione dell’eredità "anche della quota" di esso rinunciante ("la quale richiedeva peraltro anche l’aditio della stessa"), posto che l’art. 485 cod. civ. pone soltanto una presunzione al riguardo in capo a chi è in possesso dei beni ereditari senza aver proceduto al relativo inventario. Peraltro, il fatto che esso fosse nel possesso dei beni ereditari e che, comunque, sia stato sempre considerato erede sia dalla madre, che dalla sorella, sarebbero incompatibili con la volontà di quest’ultime di accettare anche la sua quota. Inoltre, sarebbe circostanza pacifica, in quanto non contestata, quella per cui V.T., avendo vissuto sino al 1994/1995 a Milano, non avrebbe avuto il possesso dei beni ereditari sino a quel momento; nè si tratterebbe di fatto tardivamente allegato, come asserito dalla Corte d’appello, in quanto riferito sin dall’atto di citazione in primo grado. Sicchè, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe contraddittoria e, comunque, erronea, giacchè l’evocata norma dell’art. 485 cod. civ. non avrebbe l’effetto di escludere l’applicazione degli artt. 480 e 525 cod. civ., potendo il coerede decidere di accettare o meno l’eredità indipendentemente da quanto previsto dal citato art. 485.

Non avrebbe, comunque, rilievo, nella specie, il termine utile per l’inventario, giacchè esso ricorrente, non avendone invocato l’applicazione ed essendo rimasto nel possesso dei beni ereditari, avrebbe di fatto accettato tacitamente l’eredità. 5.1. – Il motivo è infondato.

Occorre anzitutto sgombrare il campo dalle doglianze che investono la posizione di V.T., della quale si contesta l’accettazione di eredità in base all’art. 485 cod. civ., per non essere la stessa stata nel possesso dei beni ereditari se non dopo il 1994. Invero, la censura, oltre a contrastare con il principio di autosufficienza del ricorso (giacchè pone in discussione un accertamento di fatto compiuto in sede di merito senza indicare, in modo puntuale, da quale atto del giudizio di primo grado si desumerebbe il contrario), non aggredisce in alcun caso l’ulteriore ratio decidendi che sorregge sul punto la decisione – e che da sola è sufficiente a non invalidarla – e cioè che il possesso dei beni ereditari dell’altra coerede sarebbe privo di contestazione, con la conseguenza, fatta risaltare dal giudice d’appello, che è "ostativo alla revoca rinuncia anche il solo accrescimento operatosi a favore di questa".

Quanto, poi, alla dedotta inapplicabilità nei confronti di esso ricorrente del termine utile per l’inventario, ex art. 485 cod. civ., essendo egli rimasto nel possesso dei beni ereditari, con conseguente accettazione tacita dell’eredità, essa si scontra con l’affermazione della Corte territoriale in ordine all’intervenuta rinuncia all’eredità prima ancora della scadenza di detto termine, che priva di ogni efficacia la censura in esame, ancor prima di cozzare con l’accertamento negativo compiuto dal giudice di merito in ordine all’accettazione tacita del ricorrente, su cui si è detto in precedenza.

Invero, la denuncia del ricorrente si estende anche all’opzione ermeneutica cui è approdata la Corte territoriale in punto di accrescimento della quota delle coeredi accettanti senza beneficio di inventario, postulandosi, contrariamente a quanto deciso dal giudice di merito, la necessità di provare l’accettazione "della quota di V.R., la quale richiedeva anche l’aditio della stessa".

L’interpretazione sistematica di cui si censurano gli esiti è, invece, conforme al, seppur risalente, diritto vivente, corroborato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. 2, 19 ottobre 1966, n. 2549; Cass. 9 marzo 1956, n. 701) e confortato dalla prevalente dottrina – al quale il Collegio intende dare continuità – secondo cui, in forza del combinato disposto degli artt. 522 e 676 cod. civ., la quota del coerede che rinunzia si accresce ipso iure a favore degli altri coeredi che avrebbero concorso con il rinunziante, senza che sia necessario, da parte di quest’ultimi, una specifica accettazione di siffatto acquisto di diritto – che, dunque, trova il proprio giuridico fondamento, come ritiene anche la dottrina tradizionale, nell’espansione dell’originario diritto all’eredità già sussistente in capo ai subentranti – con l’ulteriore conseguenza che la rinunzia all’eredità diviene senz’altro irrevocabile.

6. – Con il sesto motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 522 e 462 cod. civ., nonchè l’insufficiente motivazione.

La doglianza si appunta sul mancato riconoscimento del diritto di rappresentazione in favore di Vi.Ta. che avrebbe escluso il diritto di accrescimento delle coeredi resistenti e che, invece, la Corte territoriale, come già il giudice di primo grado, hanno ritenuto allegazione tardiva e, quindi, priva di rilievo processuale.

Invero, sostiene il ricorrente, alla verifica della sussistenza dei presupposti per l’accrescimento della quota il giudice è tenuto a prescindere dalle allegazioni di parte e, nella specie, rilevava l’esistenza del diritto di rappresentazione anzidetto, impeditivo del diritto di accrescimento in pendenza del termine di accettazione dell’eredità da parte del rappresentato, durante la quale esso ricorrente avrebbe validamente revocato la precedente rinuncia all’eredità. Non avrebbe poi rilievo quanto affermato nella sentenza impugnata circa l’incapacità a succedere da parte di Vi.

T., non essendo la concepita nata entro trecento giorni dalla morte del de cuius, avvenuta il (OMISSIS), posto che la norma dell’art. 462 c.c., comma 2, sarebbe stata invece rispettata, essendo la predetta nata il 21 gennaio 1933. 6.1. – La censura è, prima ancora che infondata, inammissibile.

Con essa il ricorrente non contesta la accertata tardività dell’allegazione – effettuata soltanto con la memoria di replica in primo grado – afferente al preteso diritto di rappresentazione della figlia Ta., tale, secondo la Corte d’appello, da non poter aver ingresso nel processo, ma sostiene che si tratti di un tema decisorio rimesso alla verifica officiosa del giudice, in quanto delineante un presupposto legale dell’accrescimento.

Ma il motivo di doglianza – che investe anche l’ulteriore ragione di rigetto legata al termine della nascita della concepita – manca di censurare, però, la ratio decidendi che supera il profilo di rito e pone in risalto, ai fini di disattendere le ragioni attoree, la mancata accettazione dell’eredità da parte della figlia del rinunziante (accettazione mai avvenuta, come lo stesso ricorrente ammette nello svolgimento del motivo in esame: pag. 11 del ricorso) entro il termine decennale di prescrizione o quello prorogato ex art. 489 cod. civ., con la rinnovata affermazione sull’assenza, nelle more della consumazione del termine ordinario di prescrizione, di alcun atto di accettazione tacita da parte del rinunziante.

Sicchè, trova applicazione nella specie il principio, consolidato (da ultimo, quale precedente classificato dall’Ufficio del Massimario come "certalex" – a testimonianza del suo carattere di stabile diritto vivente, tale da poter integrare i presupposti di applicabilità dell’art. 360-bis c.p.c., comma 1, n. 1, – si veda Cass. , 6-L, 3 novembre n. 22753 del 2011) , per cui "ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza".

In ogni caso, non può non rilevarsi che il divisato intervento d’ufficio da parte del giudice di merito nel dover considerare il diritto di rappresentazione altrui al fine di poter reputare operante l’accrescimento in capo ai coeredi del rinunciante non trova fondamento nella fattispecie legale delineata dalla norma dell’art. 522 cod. civ., che già nella sua configurazione strutturale ("salvo il diritto di rappresentazione") mette in rilievo come l’istituto della rappresentazione si ponga, nello specifico, in guisa di eccezione paralizzatrice del dispiegarsi della regola del diritto di accrescimento, i cui presupposti di operatività – rinunzia di un coerede ed acquisto ipso iure della relativa quota da parte dei coeredi in concorso con il rinunziante – prescindono, per l’appunto, dalla esistenza della rappresentazione, che ne è soltanto fatto impeditivo. Fatto la cui allegazione, così come il relativo interesse ad avvalersene, rimane nella disponibilità della parte, posto che un rilievo officioso dell’eccezione che esso sostanzia, il quale dovrebbe fondarsi su di un interesse generale, non rinverrebbe invece giustificazione in un contesto, come quello in esame, in cui il sistema successorio dispiega pienamente i propri effetti indifferentemente nell’una o nell’altra ipotesi e cioè consolidando l’intero compendio ereditario, anche a tutela di eventuali terzi creditori, o in capo ai destinatari dell’accrescimento, ovvero in capo a chi succede per rappresentazione.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente V.R. al pagamento, in favore della resistente V.T., delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 2700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *